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« Pecoraro:no gli inceneri... »

Medioriente, le nuove sfide per il movimento pacifista

Post n°112 pubblicato il 11 Settembre 2006 da arielasterisco

Salvatore Cannavò *

La missione in Libano ha riscontrato un unanimismo evidente, con molti entusiasmi e qualche retorica di troppo, anche nel versante pacifista. Cercherò sommessamente di spiegare perché non mi sento di partecipare a questo coro e perché l'intervento mi sembra sbagliato.

Non c'è dubbio che le mire espansionistiche del neoimperialismo statunitense siano oggi alle prese con un'impasse del progetto strategico del Grande Medioriente. Come segnalava Time, siamo di fronte alla «crisi della diplomazia del cow boy» con l'impasse strategica dell'unilateralismo statunitense. In questa condizione di fallimento strategico, non c'è dubbio che si sia aperto un nuovo ruolo per l'Unione europea, ispirato ai canoni del multilateralismo più classico, quello cioè che senza rompere l'asse con gli Stati uniti cerca di consolidare gli interessi europei in aree a rilevante interesse geoeconomico.
Come ha spiegato D'Alema in un'intervista a Le Monde «Gli americani hanno anch'essi un grande interesse al successo della risoluzione (Onu, ndr). Con tutta evidenza essi cercano una via di uscita alla crisi. L'Iraq è una tragedia e i progetti di 'nuovo Medioriente' un disastro. Questa volta, gli Stati uniti hanno bisogno dell'Europa. Bisogna aiutarli e approfittarne per aiutarli a cambiare il loro approccio». Aiutare gli Stati uniti a cambiare il loro approccio, cioè la loro strategia in funzione dei propri interessi vitali? Auguri. In realtà D'Alema e i maggiori governi europei dovrebbero dire più semplicemente che l'impasse americana offre l'occasione per tornare a un ruolo da protagonisti in un'area dagli enormi interessi economici, fatto che spiega la rinnovata unità europea e la stessa impresa libanese.
Ovviamente non ci sfugge che un cambiamento si è verificato. Quello che dobbiamo saper analizzare è se si tratti di un cambiamento epocale - come affermato da un certo pacifismo governativo - che rende la pace più vicina o se invece non si tratti più prosaicamente di una fase di compromesso tra interessi capitalistici differenti che oggi trovano una nuova composizione e un nuovo equilibrio in vista di una fase successiva. Che si tratti della seconda soluzione, a mio giudizio è dimostrato dalle tante ambiguità della risoluzione 1701. La missione di «interposizione» si disloca infatti solo sul territorio di uno dei due paesi oggetti del conflitto, tra l'altro del paese aggredito e non del paese aggressore. Inoltre l'Italia, come segnalato da Manlio Dinucci e dall'appello di padre Zanotelli, non brilla per «terzietà» visto che ha in vigore un accordo politico-militare con Israele. Lo stesso dibattito sul disarmo o meno dei militanti di Hezbollah è indicativo della natura unilaterale della missione, visto che si tratta di una chiara ingerenza interna al Libano (a cui è interessata la Francia), sia pure nella formula del «sostegno all'esercito libanese».
Ma è soprattutto la totale assenza della questione palestinese a non far sperare per la pace
. Il fatto che l'interposizione a Gaza e nei Territori occupati venga rinviata o solo auspicata è indicativo della cattiva coscienza degli occidentali perché il massacro a opera delle rappresaglie israeliane e la colonizzazione vanno avanti indisturbati. In realtà il messaggio per Israele è netto: la missione Onu offre l'occasione di riprendersi dalla sconfitta, protegge lo stato ebraico a nord lasciandolo indisturbato di proseguire la sua azione a Gaza e nei Territori occupati e «promette» una soluzione complessiva solo quando Israele sarà pronto e cioè quando la colonizzazione arriverà al punto di soddisfazione massima del governo di Tel Aviv.
Per questi motivi restiamo contrari alla missione almeno fino a quando non ne venga dimostrata l'intenzionalità di pace: interposizione a Gaza e in Cisgiordania, cioè sui confini del '67, in funzione della nascita dello stato palestinese; schieramento Onu sul confine israelo-libanese, risolvendo in modo chiaro l'ambiguità circa il disarmo di Hezbollah; un cambio di strategia politica e diplomatica con il ritiro delle truppe italiane dall'Afghanistan; nessun aumento delle spese militari.
Cosa può fare il movimento pacifista? Innanzitutto, evitare di riproporre il collateralismo visto all'opera a Assisi, relativizzare le divisioni sul Libano e ridare slancio a un'iniziativa per far uscire l'Italia da tutti i teatri di guerra e dare piena solidarietà al popolo palestinese. Purtroppo, le cautele sull'Afghanistan e l'entusiasmo per il Libano, che vede in prima fila anche Rifondazione comunista, fanno emergere nuove divisioni e più accentuate divergenze. Ed è un peccato. Dissentendo sull'Afghanistan abbiamo ridato voce a una larga opinione contraria alla guerra. Non abbiamo la pretesa di farlo anche per il Libano ma il movimento potrebbe riprendere la parola a partire dalle scadenze già indette, come la giornata del 30 settembre lanciata dal Forum sociale di Atene e, magari, con una vera assemblea di massa, democratica e partecipata in cui discutere contenuti e scadenze di un nuovo movimento contro la guerra.
* Deputato di Rifondazione comunista, capogruppo Commissione Difesa

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