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Genni e la leonessa

Post n°108 pubblicato il 31 Ottobre 2007 da bartelio
 
Foto di bartelio







Genni era Giovanni ma si faceva chiamare Genni. Non facevamo gli stessi orari alla ditta, lui usciva mezz'ora dopo o prima, non ricordo bene. Tranne il lunedì. Così il lunedì, prima che lo conoscessi, che lo conoscessi per bene intendo dire, accettai di farmi la strada con lui. Era un tizio secco, un mucchietto di ossa con sulla testa una striscia di capelli cortissimi a spazzola tipo mohicano che gli si allargavano appena un po' verso il dietro. Un mohicano non per scelta ma per necessità: a guardarlo da un certo angolo potevi pensare che avesse in testa una scopa.

Aveva la mia età di allora, pressappoco venticinque, ma parlava come parlerebbe un vecchio; per essere più precisi, parlava come parlerebbe lo stereotipo di un vecchio. Aveva la macchina della domenica, una Golf bianca che teneva così pulita che a me quelle poche volte che ci salivo veniva la tentazione di scaccolarmi e attaccare i pensieri al sedile o al manetto del finestrino. La teneva davanti a casa dei suoi, tutta coperta. Quando mi avvicinavo e lasciavo la mia macchina lì accanto, usciva sempre sua mamma, una donna ansiosa con gli occhi ansiosi e gli diceva cose, lo accarezzava con lo sguardo quel suo figlio ossuto e poi diceva cose a me come se io capissi il loro linguaggio e non era così. Allora rientrava tirandosi il golfino con le due mani a coprirsi per il freddo e trascinava i piedi nelle ciabatte: Genni era figlio unico.

Nei giorni di lavoro usava la 128 color mattone che puzzava di vecchio e aveva un finestrino rotto che se lo abbassavi poi non si alzava più. Io me ne dimenticavo e eravamo costretti a fare il viaggio con l'aria in faccia fino a quando non imploravo Genni di fermarsi. Lui scendeva e dava dei colpi e diceva bestia, diceva sempre bestia era l'unica imprecazione che conoscesse, mi guardava e diceva bestia, guardava il finestrino rotto e diceva bestia poi lo colpiva e lo tirava su con i pollici.

Quando guidava era ferino. Se uno gli attraversava brusco la strada, lui alzava il pugnetto, era un mucchietto d'ossa e digrignava i dentini e diceva bestia. Io rialzavo il colletto e incassavo il collo tra le spalle. Voglio dire, sarebbe bastato mio nonno a stenderlo. E comunque nel caso avrei aiutato a tenerlo fermo per le spalle mentre lo menavano.

Mentre andavamo lui faceva sempre un sacco di domande e capivo che voleva penetrare il nucleo profondo dove pulsava la mia solitudine; aveva una specie di curiosità oscena, mi chiedeva sempre se uscivo e andavo al bar e chi vedevo e se avevo la ragazza. Io resistevo e dicevo cose vaghe, non volevo che sapesse niente di me. Lui faceva gli occhietti porcini, aveva gli occhietti sporgenti e porcini sotto la scopa che teneva in testa. Diceva bestia e sorrideva come se capisse tutto, ma in realtà non capiva niente di me e avrei voluto dirgli che essere compresi è prostituirsi o qualche altra frase fatta, ma tanto che diamine importava.

Io uscivo con Smania certe volte. All'epoca non eravamo più fidanzati perché Smania mi aveva lasciato per uno più grande di me, però ogni tanto uscivamo ancora assieme e stavamo a parlare. Più che parlare pensavo a come avrei potuto metterglielo dentro, devo dire che ogni pensiero finiva lì. Poi magari ogni tanto facevo allusioni mentre nell'autoradio mettevo una canzone degli Smiths o dei Cure, quelle che una volta consideravamo le nostre canzoni. A me erano venute a noia, col tempo, ma quando uscivamo le mettevo sempre nella speranza che le si ammorbidisse. Ma quando le dicevo "vorrei darti un bacio", lei sbuffava e diceva "smettila" e non c'era molto altro da dire. Diceva "hai rovinato tutto" e si tirava dall'altra parte, così finiva che non parlavamo più.

Genni invece stava con una ragazza alta e secca e molto carina, davvero carina, aveva i capelli a caschetto che facevano la tettoia intorno alla testa e io mi ci sarei voluto infilare sotto quei capelli e chiederle "gimme shelter" e poi domandarle che diavolo ci trovasse in Genni, che io potevo farle ascoltare i Joy Division e parlarle di Camus, che diavolo ci trovava in quella scopa in testa. Sarei stato sotto la tettoia e avrei avuto accesso a tutto quel che la riguardava e il pensiero era doloroso molto doloroso.

Genni una sera mi invitò a una festa. Una festa in paese in un bar all'angolo, un bar alto che ci si saliva per una rampa di scale e poi si dominava l'incrocio, coi semafori che scattavano e proiettavano rosso verde giallo per il locale. Dissi sì che ci sarei venuto e chiesi a Smania se volesse accompagnarmi. Accettò, perché tanto il tipo con cui stava era sposato e mica poteva uscire tutte le sere. Così andammo a Brugarolo. Alla festa c'era un sacco di gente, tutti amici di Genni, che rideva tra i denti come faceva sempre e poi si avvicinava all'uno e all'altro e poi a me e Smania che eravamo seduti in un angolo con un gin tonic a parlare di chissà che. Si avvicinava e diceva cose come "allora ce l'hai la ragazza" e faceva l'occhiolino, poi diceva altro e in sottofondo giravano gli Yazoo e i Duran Duran e tutta la dance che schifavo. Guardavo Genni e la Tettoia poi Smania e il semaforo e bevevo un gin tonic dopo l'altro.

Quando cambiava stagione Genni si metteva il giubbetto di camoscio che puzzava di canfora e impestava tutto il bagno della ditta, dove c'era l'attaccapanni. La mamma gli rialzava il colletto, lui sporgeva ancora di più gli occhietti, saliva in auto, quelle volte che andavamo al lavoro con la mia, e diceva "fa un freddo anomalo" oppure "eh è lunedì" o ancora "piove bestia è anomalo" o anche "ma che coda c'è è anomala dev'essere successo qualcosa ci sono in giro dei matti", oppure chiedeva "cosa hai fatto ieri sei uscito con Smania" e io stringevo i pugni al volante e dicevo solo sì o no anche perché chi ha voglia di fare conversazione di lunedì mattina presto.

Una mattina con la sua 128 eravamo quasi al lavoro, fermi a un semaforo. Fa per partire e la marcia non entra e dice bestia e "non entra la marcia è una cosa anomala" e spinge con la mano mentre dietro cominciano a suonare. Alza il pugnetto e guarda nello specchietto retrovisore e dice bestia poi dice "mi sa che si è rotta la frizione". Piano in prima accosta e fa "si è rotta la frizione". Scende e guarda la macchina poi risale e fa "c'è un meccanico qui vicino". Partiamo in prima con le macchine dietro che ci suonano e lui che agita il pugno e dice bestia.

Il meccanico stava nello scantinato di un condominio di otto piani come ce ne sono tanti a Cesano Boscone, quasi in centro. Così piano Genni fa la curva entra nel vialetto e poi pianissimo scende la rampa in prima col freno motore e frenando anche col pedale. Io avevo ancora gli occhi cisposi per il sonno, mancavano dieci alle otto. Lui scende, il meccanico esce dallo scantinato e dice "buongiorno beh che c'è" e aveva un accento meridionale, una tuta sporca d'olio e i capelli quasi pelati. Genni dice "la frizione bestia non entra la marcia" e agita il pugnetto verso chissà che.

Scendo, mi volto e sulla destra vedo una gabbia, una gabbia grande con le sbarre di ferro addossata alla parete. Immaginatevi il condominio e poi un altro condominio ancora e poi un altro di lato e tra una parete e l'altra in alto c'era il cielo bianco che sembrava una lastra di ghiaccio e avrei voluto dire a Genni "guarda il cielo è una lastra di ghiaccio", ma queste erano cose che avrei forse potuto dire a Smania quando ancora ascoltavamo gli smiths e gli style council, mica a Genni, lei forse mi avrebbe capito. O forse no.

Nella gabbia c'era una leonessa, una leonessa vera grossa senza la criniera e stava sdraiata e aveva la lingua penzoloni. Ho fatto come un salto indietro e toccato la manica dell'impermeabile di Genni. Genni d'autunno metteva sempre un'impermeabile beige col collo rialzato e con quella faccia ossuta sembrava un conte dracula, un vampiro brianzolo e poi portava i pantaloni di lanetta verde con la riga e le scarpe marroni a punta. Lavorava in amministrazione, era diplomato in ragioneria o qualcosa del genere.

C'era la leonessa che ci guardava e Genni guardava la leonessa.
"E' il mio leone" ha detto il meccanico. Pensavo ma sei matto, un leone a Cesano Boscone. La leonessa si è alzata, ha fatto un blando ruggito e trascinava le zampe dietro.
"Ha i reumatismi" ha detto ancora il meccanico.
"Ma non ha paura? come fa a darle da mangiare, è anomalo" ha chiesto Genni. Il meccanico per tutta risposta ha sollevato la manica della tuta e ci ha mostrato una lunga cicatrice gonfia.
"Una volta mentre gli portavo da mangiare e gli pulivo la gabbia, mi ha allungato una zampata e questo è il ricordo."

Genni si è avvicinato alla gabbia e ha guardato la leonessa. La leonessa si è ridistesa e guardava Genni con la lingua a penzoloni. Io stavo un po' lontano. Era affare loro. Si guardavano, Genni strizzava gli occhi, chissà che pensava dentro di sé. La leonessa ha abbassato la testa tra le zampe e ha continuato a guardarlo per un po'. Anche il meccanico non diceva niente. E' salito in macchina.

"Sì è proprio la frizione" ha detto poi e Genni ha girato la testa. La leonessa ha alzato la sua, si è avvicinata alle sbarre trascinando le zampe.

"I Verdi mi hanno rotto i coglioni per il leone, hanno scritto ai giornali, quei rompicazzo" stava dicendo il meccanico a Genni, che si era voltato di nuovo con le braccia conserte e diceva "bella bestia" e mi guardava e poi guardava la leonessa. Questa aveva preso a strisciare contro le sbarre come ubriaca, ruggiva.

"Che ha?" ha chiesto Genni al meccanico.
"Penso che le piaci, capo" ha detto l'uomo "mi sa che si è innamorata di te."
"Bestia" ha detto a denti stretti Genni.
"Puoi entrare a farci un giro" ha detto il meccanico ridacchiando, con la testa che spuntava dal finestrino.

Io guardavo la scena e non sapevo che dire, Genni strizzava ancora di più gli occhietti con una mano al mento. Poi il coperchio di ghiaccio si è abbassato ancora un po' sopra le nostre teste, il meccanico è sceso dall'auto.
"Viene pronta per stasera" ha detto.
Io ho preso Genni per un braccio e abbiamo fatto per salire la rampa, mentre la leonessa continuava a ruggire.

 
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