DIACRONIE

UN ETERNO PRESENTE, CONTRO IL PRESENTE


 Una delle caratteristiche problematiche della rete, in particolare dopo l'avvento dei social, è il presentismo. Ovvero, quel fenomeno per cui fatti di 40 anni addietro, e oltre, fino a dove esistono filmati e materiale video, perdono la loro storicità e vengono mescolati al presente come se fossero la stessa cosa. È evidente che il passato sia importante per capire come siamo oggi, ma la differenza rispetto al presente è che quel passato non è più modificabile. Piaccia o non piaccia. E l'unico modo per capirlo è cercare di pensare come si pensava ieri.Invece, questo mescolamento provoca uno strano fenomeno per cui modificando il giudizio su fatti passati (cosa del tutto legittima a anzi auspicabile) si potesse in qualche modo cambiarne la natura. Qualunque persona sana di mente sa che non è possibile variare ciò che è già accaduto. Non dipende dall'etica o dalla coerenza, ma dalla nuda oggettività di ciò che è già stato.Questo corto circuito fa sì che sia che si parli del 1945 o del 2020, le due epoche vengano mixate in un calderone dove alla fine non si capisce né il 1945 né il 2020.Uno dei casi emblematici di questa astoricità è l'attacco, che, con notevole frequenza e, spesso, anche partendo da posizioni politiche apparentemente opposte, viene portato al movimento del 1968. Cristallizzandolo in un contesto atemporale, come se fosse accaduto ieri o stesse ancora accadendo. Da qui giudizi sferzanti sui risultati di quel movimento e, spesso sulle singole persone, come se le persone e i risultati fossero già inscritti in un contesto nel quale essi in realtà non esistevano,A meno di non pensare di aver vissuto una vita tutta all'insegna della coerenza e non invece, come tutti, una vita costellata di errori, prove e riprove che hanno plasmato la nostra identità, è evidente che chi dopo un fenomeno come quello della complicatissima vicenda del movimento, ha preso strade in controtendenza o opposte, oppure è diventato un opportunista (critica che spesso, però, nasconde una certa malcelata invidia) non lo si possa addebitare ad un movimento intero e ,neppure, alla persona singola che era prima. Non tutto è scritto, anzi, la scrittura arriva dopo. Se incontrassimo noi stessi per come eravamo 30 anni fa sono sicuro che non andremmo d'accordo!Questo smontaggio del '68 in realtà non attacca quel movimento reale, ma attacca un feticcio costruito ad arte per essere demolito e, facendo questo, anche le migliori intenzioni diventano le peggiori. Dal 1968 sono passati 52 anni, forse sarebbe il caso di pensarlo come un evento del passato e non come qualcosa che sta ancora accadendo.Sì perché questo attacco, spesso inutilmente cattivo e feroce (quasi si invidiasse chi vi ha partecipato) dimentica proprio la storicità di quel fenomeno, ovvero, dimentica come era PRIMA la situazione: sul piano dei rapporti sociali, certo,su quello delle condizioni di lavoro, anche, ma pure su quello dei costumi, della morale, della libertà sessuale. Queste ultime questioni erano state fino a lì riservate alle classi elevate, ai ricchi, agli attori e artisti famosi che "dovevano" dare scandalo, ma erano invece precluse alla massa, che, in teoria (i comportamenti reali, ovviamente, come sempre, svicolavano e si sono sempre svicolati da un mondo di regole morali fatte apposta per essere trasgredite) avrebbe dovuto attenersi a quei precetti. In questo contesto la liberazione sessuale era liberazione politica, a tutti gli effetti. E solo chi non conosce quale fosse la situazione precedente può pensare che quel momento abbia a che fare con la commercializzazione del sesso e delle libertà individuali arrivate dopo. Commercializzazione, sia ben chiaro, che, per quanto effetto collaterale condannabile non è molto diversa dalle altre sussunzioni del capitale di elementi "sovversivi". Non si sa bene perché dovrebbe essere diverso e più criticabile.Ma chi attacca il '68 invece, paradossalmente, non si rende conto che la vera permanenza di quella rivoluzione anche di costume è proprio nella critica che viene portata avanti. È nella accettazione ormai diffusa di modalità di comportamenti libertari (non è sempre una parolaccia....), è nella donna che non deve rispondere a Tizio del proprio comportamento. E in mille altre questioni nelle quali quel movimento, storicamente finito da tempo, si è diramato. Con conseguenze irreversibili, tanto che oggi l'unica leader politica donna è di destra ed ha avuto un figlio senza essere sposata. Alla luce del sole e senza sotterfugi. Se non è una conquista e una vittoria proprio da far risalire al 68 questa non saprei cosa altro dire.Inorridisco ma anche sorrido, quindi, laddove anche intellettuali comunisti, o, comunitari, se non rivoluzionari, o maestri del pensiero "radicale", attaccano la sfera dei costumi come corollario alla giustissima critica del capitalismo e del liberismo. Vorrei dire a loro che questa critica in cui l'aspetto sociale si porta dietro anche quello delle libertà civili, è francamente reazionaria, e, completamente sballata. I costumi cambiano in tutte le classi sociali (e, certo, il contesto sociale rimane il piano fondamentale della politica) ma se per le classi elevate non è mai stato un problema mantenere costumi libertari, per quelle subalterne, appiccicare la critica sociale a quella sessuale rischia di provocare un corto circuito assurdo, perché indietro non si può tornare, ma si possono prendere strade di lato assai pericolose.Insomma si può criticare tutto e il contrario di tutto, ma ricordarsi che nel nel nostro paese,  50 anni fa, la condizione femminile era disastrosa e quella sessuale terrificante (basti vedere "comizi d'amore" di Pasolini). Liberazione sessuale non era l'obbligo di fare sesso, ma la libertà dell'uso del proprio corpo, consapevolmente ma anche senza tutto quell'armamentario di sovrastrutture che ne aveva fatto un "luogo" per maschi (per i quali andavano bene anche i casini, a patto che tutto si svolgesse nel rispetto di una disgustosa morale perbenista e repressa). Se la critica al capitalismo si deve portare con sé il rimpianto di tali contesti è molto chiaro perché alla fine non avrà né fortuna né successo. Nessuno vuole rinunciare ad una libertà, per quanto superficiale possa sembrare o essere, che viene data ormai per scontata. Fra un capitalismo che fa uso (strumentale e ovviamente a fini di profitto) del "libertarismo" e della libertà dei costumi (e consumi, ovviamente) e un altro che sempre capitalismo è, che vorrebbe anche rimettere indietro le lancette sul piano dei comportamenti personali, non credo che sia difficile capire quale possa essere la scelta.