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SUL 25 APRILE

Post n°137 pubblicato il 21 Aprile 2020 da jonwoo1998

È notevole la persistenza della diatriba sul 25 aprile nel nostro paese, a cui ormai viene addebitato di tutto e anche il contrario di tutto, fino a trasformarlo in una data di cui si può fare più o meno qualunque cosa. Una specie di talismano, di golem, di amuleto, di satana e via discorrendo, all’infinito.

Si accusa quella data di essere “divisiva”.

Ora,  a parte che  tale vocabolo come “resilienza”, “l’attimino” e “piuttosto che” andrebbe condannato all’oblio, questa accusa, pronunciata in un paese e in una buona parte del continente in cui si vive dove non si ha la più pallida idea da almeno 75 anni che cosa sia una guerra, non solo è una banalità al massimo grado ma rappresenta bene una certa idea del mondo e della storia che ormai pare essere terreno comune, anche al di là delle presunte appartenenze.

Quella data, più che “divisiva” arriva alla fine di un conflitto. Ma non un conflitto per occupare una fabbrica, non un conflitto per protestare contro una app, o un DPCM, non contro chiunque, ma uno dei conflitti armati più sanguinosi e distruttivi della storia umana.

Ogni processo di fondazione di una unità statuale e politica, di una nazione su basi liberali, ma anche rivoluzionarie e, insomma ogni processo il cui esito sia stata  la fondazione di un nuovo soggetto nazionale declinato in vari modi (e sull’importanza della declinazione dirò sotto) è passato attraverso un conflitto armato, molto spesso fratricida (nel senso di guerra fra uomini che condividevano molte caratteristiche) e, altrettanto spesso,  è stato caratterizzato da un “di più” di violenza proprio delle guerre che potremmo chiamare “civili”.

A tale proposito il mai troppo compianto Claudio Pavone, una trentina  d’anni fa scrisse un libro che rimane una pietra miliare degli studi sulla resistenza, che l’editore volle intitolare “Una Guerra Civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza” [attenzione “nella” e non “della”] ma che conteneva ben chiare le tre guerre che si combatterono allora: guerra civile, guerra patriottica e guerra di classe. 

Chiunque non lo abbia letto manca di un tassello fondamentale.  Un testo  rispetto al quale  forse, tutti i fiumi d’inchiostro malamente versati in questi decenni avrebbero potuto essere evitati.

Quella data, il 25 aprile, segna la fine di un drammatico ventennio e, soprattutto, di un biennio di una guerra disastrosa e criminale che, oggettivamente, non può essere addebitata ad altri se non al regime fascista e alla monarchia.

Oggettivamente.

La costruzione del fascismo in Italia nasce con un percorso di violenza in cui si innesta sul tronco dell’imperfetto Stato Liberale un concetto esclusivo di appartenenza nazionale.

Ovvero il fascismo identifica se stesso con lo Stato e pure con la Nazione. Escludendo ogni altra possibilità di appartenere al contesto nazionale (ma anche semplicemente statale).

Questo dato avrà conseguenze drammatiche non solo per il ventennio fascista, ma pure  nel secondo dopoguerra, tanto che, in Italia, il concetto stesso di appartenenza nazionale, avrà difficoltà ad affermarsi in maniera compiuta.

Questo Regime, che pure ebbe appoggi e consensi e che, pure, nacque in maniera magmatica dalla modernità (il fascismo non è stato semplicemente un regime reazionario ma un regime della e nella modernità. Oppure come ebbe a definirlo Togliatti, un regime reazionario di massa) nella sua scalata (spesso casuale più che causale) si avviò poi verso la strada “totalitaria” (il concetto di totalitarismo è quello usato dallo stesso fascismo che intendeva creare un nuovo soggetto “organico” immerso perennemente e totalmente nel “politico” non quello che useranno i suoi avversari subito dopo, né tanto meno, quello ricreato ad uso della guerra fredda per accomunare fascismi e comunismi).

Questa strada ebbe i suoi 2 punti basilari il 3 gennaio 1925 con il discorso dopo i mesi dello scandalo e della quasi crisi post-Matteotti e poi dopo l’attentato a Bologna nel 1926  con la virata verso il partito unico.

Questo percorso si “concluse” con la definizione delle leggi c.d fascistissime n cui il PNF divenne l’unico partito ammesso.

Ora, qualunque considerazione si voglia dare del fascismo, e la più inutile sarebbe quella che continuasse a considerare questo regime come composto solo di criminali o idioti (che pure vi erano e in gran numero, spesso portatori di entrambi queste qualità), certamente neppure la più benevola e asettica può annullare il fatto, oggettivo, che tale regime non avesse connotazioni non solo minimamente democratiche, ma che, non fosse neppure avvicinabile all’insufficiente (e responsabile in parte dello stesso fascismo) semiautoritario, classista, sistema liberale.

Un regime che si instaura con le premesse della violenza e con la realizzazione di uno stato di polizia,  ipoteca probabilmente la propria fine, a meno che, come accadde in Spagna, la classe dirigente, pur se qualitativamente anche peggiore, non riesca a capire che un paese può reggere un regime ma non può reggere a lungo le sofferenze e le distruzioni delle guerra.

Ma questa fine, come sopra accennato, oltre ad essere stata messa in conto con la creazione di centinaia di oppressi e sconfitti,  fu accelerata con le trasformazioni della metà degli anni ‘30, con l’avvicinamento al regime hitleriano (certamente per comportamenti non del tutto innocenti delle Francia e della GB, ma in ultima istanza la decisione fu dell’Italia, ovvero, del Duce) e con il precipizio verso una guerra che trovò le forze armate italiane in una condizione di assoluta impreparazione e, soprattutto, con una dotazione tecnica non consona e inferiore a quella che era stata la Prima Guerra Mondiale, dove l’esercito italiano era alla pari (e in diversi casi superiore)  delle altre realtà nazionali.

Un regime che aveva fatto del bellicismo sostanzialmente parolaio la propria ragion d’essere, in realtà si era caratterizzato per una spesa militare inferiore all’Italia liberale, teso a risanare bilanci secondo un’ottica (nemmeno tanto paradossalmente) liberista e ordinaria e il cui pugnale fra i denti serviva soprattutto ad uso interno.

Tra l’altro un Regime che si era conquistato la benevolenza degli USA e della GB per aver demolito le organizzazioni operaie ed evitato una di per sé impossibile rivoluzione bolscevica, gettò alle ortiche questa interessatissima (e anche razzista) amicizia che considerava l’Italia degna solo di una dittatura, per abbracciare una guerra la cui l’analisi geopolitica (neppure politica) anche dell’uomo della strada ne avrebbe sconsigliato perfino il pensiero.

Orbene, dopo una guerra disastrosa fin dalle prime fucilate, condotta a rimorchio dell’alleato nazista che, evidentemente, non sapeva che cosa farsene di un fardello del genere, tale regime finì con un curioso voto di “sfiducia” e un  altrettanto curioso arresto da parte di quello stesso Re  che non aveva fin lì detto una parola, neppure sulle leggi razziali su cui aveva apposto la firma (vero tradimento di propri cittadini, spesso fascisti della prima ora e dello stesso spirito risorgimentale) ma che si baloccava sulle competenze e sulle diatribe in merito al titolo di “Maresciallo”.

Una intera classe dirigente fallimentare (la classe dominante come sempre sa come cavarsela) tentava così di chiudere una fase devastante con un tratto di penna e con una specie di “colpo di stato” bianco (ma  neppure tanto).

Si dice che “se” il fascismo non fosse entrato in guerra, Mussolini sarebbe morto di vecchiaia. Non abbiamo altri mondi su cui verificare tale ipotesi e, francamente, è una discussione che non porta a nulla a meno di non chiamarsi Philip Dick.

La guerra non era un incidente di percorso, in quel regime e in quel contesto, era la strada più probabile che il fascismo potesse seguire.

Nei fatti fu quella che seguì.

Bene, dopo lo sfacelo di un paese diviso in due, di un esercito abbandonato a se stesso, di  bombardamenti a tappeto (spesso opinabili, se il termine può essere sufficiente) da parte degli alleati (ma l’Italia era un paese nemico) razzie e deportazioni, la “divisività” dove la si ricerca?

Fra chi, con una decisione per niente facile e banale, decise di provare a vedere se:

    1) fosse possibile intervenire per una Italia diversa da quella fascista, ma anche da quella che si prospettava come  una colonia delle potenze vincitrici;
    2) mettere a punto un sistema di valori opposti a quelli del ventennio, con la dignità del lavoro, dei diritti sociali in primis e dell’avviarsi verso una società progressiva;
    3) pareggiare i conti con gli odi e i rancori covati in 20 anni e cresciuti a dismisura dal 1940 in poi. Ma vorrei ricordare, come ha sottolineato il Prof. Santomassimo,  che il Risorgimento fu assai più “guerra civile” di quanto sia mai stata la Resistenza.

Ecco, quella strada non fu facile. Scontri e conflitti ci furono (e a volte anche gravi) dentro al movimento di liberazione. Nessun movimento è monolitico (non lo era neppure il fascismo)  e aver raccontato di una resistenza pacificata al suo interno è stato probabilmente non solo un errore ma anche una necessaria costruzione “mitica” su cui fondare la  necessaria rinascita della nazione.

Ma al di là delle questioni di contorno non è possibile pensare che la vittoria di una o dell’altra parte possa essere messa sullo stesso piano, anche se, è necessario ammetterlo, l’altra parte era ormai sconfitta.

Però, inviterei tutti a leggere, con la mente sgombra da pregiudizi e perfino dall’antifascismo, i documenti prodotti da quel magma violentissimo che fu la RSI e, dove, la  parabola che aveva portato il duce dalla piccolissima borghesia alle vette dell’ascesa sociale, lo aveva rimesso in mezzo ad una specie di convegno di plebe inferocita che lui probabilmente detestava fino dal 1921 (ma di cui non aveva mai potuto fare a meno).

Davvero c’è qualcosa in quella mortifera rassegna di proclami antisemiti, vaneggiamenti socialisti, polizie fuori controllo (per ovviare ad un esercito che Hitler rifiutò sempre di formare, non fidandosi non tanto di qualche italiano, ma di tutti, compresi i fascisti) torture, razzie, vera e propria devianza criminale, convegni in cui si inneggiava al bolscevismo-fascista (facendo sobbalzare lo stesso duce, evidentemente ormai impotente ma incazzato come una biscia “che li abbiamo combattuti a fare allora i comunisti per 20 anni”?)  che possa assomigliare ad una classe dirigente post-guerra mondiale?

Non era semmai quella una caduta all’inferno cartina di tornasole di una impossibilità di potersi proporre minimamente come una compagine in grado di guidare qualcosa a forma di Stato?

Eppure Mussolini, dopo la conquista del potere, aveva ben rassicurato le classi dominanti del proprio reale operato, non certo teso a favorire l’emancipazione del movimento operaio.

Ecco, la questione della guerra partigiana fu fondamentalmente politica. 

Ovvero, in un conflitto perduto dall’Italia fascista e con il rischio reale di vedere l’Italia scomparire come entità geografica, riprendere in mano la bandiera per non farla ammainare del tutto in una  “resa dei conti fra classi dirigenti” (magari contro il “parvenu” Mussolini diventato il capro espiatorio di tutti  i mali) ed evitare di ritornare a quell’Italia Liberale  responsabile proprio dell’ascesa del fascismo.

Ora, la classe dirigente che uscì da quel contesto non aveva il potere di curare le scrofole, come  nel  libro di Marc Bloch, e neppure portava  le stimmate della santità (per dire dell’esagerazione retorica con cui è stata descritta) ma era una classe che aveva ben compreso l’importanza della partecipazione politica, della complessità di un paese come l’Italia e quale fosse lo stretto percorso che, dopo la guerra, avrebbe dovuto attraversare.

Perché, comunque la si pensi, oltre ai discorsi e alle belle idealità c’è la nuda realtà dei fatti.

Quella nuda realtà che fece sì che, ad esempio.  un dirigente del PCI come Togliatti, abbia compreso, ad un prezzo altissimo all’interno dello stesso mondo della sinistra non solo comunista riverberatosi fino a noi, che, prima di passare alla fase del progetto, bisognava chiudere la sanguinosa guerra che stava martoriando il paese.

Riconobbe il Re e mise da parte ogni rivendicazione sociale. 

Questo fa una classe dirigente.

È ovvio che queste fasi non possono che durare poco, che la politica e le divisioni, il conflitto, riprenda (e non potrebbe essere altrimenti) in maniera più dura di prima.

E però caratteristica delle società non autoritarie è proprio quella di rendere manifesto il conflitto.

Ma la lungimiranza di quel percorso, che fu  drammatico per l’Italia, violentissimo, con efferatezze compiute anche dalla parte dei “buoni” (perché quello era il portato di una violenza covata per 22 anni)  produsse  quel documento fondamentale che è la Costituzione  e pure  la pacificazione reale che ne seguì.

Spesso si legge di resistenza tradita, di amnistie “Togliatti” (termine del tutto impropri, se non fasulli). È vero, ci sono state pagine assai poco edificanti ne dopoguerra: criminali mai puniti, epurazioni mancate, veri e propri ribaltamenti della realtà.

Ma vedere il dopoguerra in negativo rischia di far scomparire la parte positiva, che fu enorme. La partecipazione politica, le lotte per le conquiste sociali, il voto alle donne, l’emancipazione del mezzogiorno. Una classe dirigente spesso proveniente direttamente dai ceti popolari. Davvero tutto questo è da buttare?

Ma c’è di più, quella fase non solo chiuse quello che non fu un semplice intermezzo, ma ne ribaltò le modalità.

La Nazione era ora tesoro di tutti e non solo di chi apparteneva ad un partito. Tanto più che, appena pochi anni dopo rinacque il MSI che al fascismo direttamente si rifaceva.

Certo, non faceva parte di quello che allora si chiamava “Arco Costituzionale”, ma gli fu permesso di esistere, fare politica a tutti i livelli. 

Non era esattamente la stessa cosa di quello che era accaduto a parti invertite.

Ecco, dunque, quella data, dalla quale ormai ci separano 75 anni, nasce certamente da un conflitto (come tutte, o quasi, le date importanti, il mondo pacificato è quello che arriverà  fra qualche miliardo di anni, con la sua scomparsa) ma da quel conflitto si radicò una fase del tutto nuova dell’Italia, in cui, persino chi non ama il 25 aprile, lo può dire, lo può attaccare ed ha tutto il diritto di non celebrarlo.

In Francia la Le Pen, dirigente di un legittimo partito di destra che opera nella legalità, canta la “Marsigliese”, inno rivoluzionario nato da quella rivoluzione che tante teste fece rotolare, spesso anche inopinatamente, ma dei cui valori di base, fondanti della moderna nazione, non è possibile fare a meno.

Certo, il percorso progressivo del secondo dopoguerra ha rallentato da qualche decina di anni e si è poi quasi fermato.

Lo spirito della Costituzione è stato violato e violentato con le modifiche del Titolo V, con l'obbrobrio del pareggio di bilancio, con le antidemocratiche leggi maggioritarie, le elezioni dirette, la fine delle discussioni politiche, la “governance” come finalità, la sanità considerata come un’azienda (le ASL!), il capitalismo finanziario e il liberismo come orizzonte finale delle classi dirigenti, l'abolizione dell'art.18, per tacere della consegna della sovranità popolare a strutture e istituzioni non sorrette e controllate da nessuna scelta democratica.

Una Costituzione che ha visto  assalti continui alla sua struttura tra i quali la riduzione dei parlamentari grida vendetta.

E poi le basi NATO in Italia, le azioni di “polizia internazionale” in violazione del rifiuto della guerra.

Potremmo stare qui una settimana intera.

Ecco, ma di tutto questo possiamo accusare il 25 aprile e gli uomini e le donne che vi parteciparono, o, forse, è stato il declino delle classi dirigenti, via via peggiorato e trascolorato in mera gestione (quando va bene) dell’esistente e, nel contempo il nostro declino per avere accettato questo stato di cose?

Purtroppo la riduzione dell’importanza di quella data è avvenuta in un bruttissimo contesto c.d “bipartisan” che ha annebbiato, con una masochista operazione, oltre alla realtà storica del 25 aprile  (che il 25 aprile del 1945 è avvenuto nel passato e quindi, di per sé immodificabile) anche e soprattutto l’importanza di un punto fondamentale nella storia di questo paese.

Ebbene il 25 aprile è insieme la festa degli italiani ma non è anche una festa “bipartisan” (altro termine obbrobrioso).

Non lo può essere. 

Non lo può essere per il motivo opposto al fagocitamento della nazione all’interno del fascismo.

Nessuno è obbligato a celebrare e a riconoscersi in alcunché; ma per uno di quei strani percorsi della storia (quali ad esempio le ribellioni degli schiavi contro la Francia proprio sulle parole della rivoluzione francese) proprio  quei valori contenuti in quel percorso fanno sì che sia possibile anche ritenere il 25 aprile una iattura “divisiva,  talmente “divisiva “che permette a chiunque anche di non accettarla.

E la caratteristica di una data fondante è proprio quella di non poterne fare a meno, neppure se la si vuole  contestare.

Perché riconosce nella presenza delle diversità la natura stessa di uno stato democratico. E la sua stessa sconfitta sarebbe proprio nel volerla “dimenticare” sotto una fasulla pacificazione che non riconosca la complessità in cui ci muoviamo.

Che lo si voglia o no, il 25 aprile del 1945 è una data periodizzante e che segna un percorso e non un altro.

Per non negare (e rispettare, anche se non sempre) le diversità non si potrà certo arrivare a negare o a capovolgere la realtà.

Superare il 25 aprile vorrebbe dire, semplicemente, superare lo stato democratico repubblicano, anche nella versione assai acciaccata degli ultimi 20 anni.

Di questo vi deve essere piena coscienza.

 

Andrea Bellucci, aprile 2020

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