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8 sonetti di Tullia D'Aragona

Post n°583 pubblicato il 11 Gennaio 2014 da livieroamispera
 

Quelli che seguono sono i sonetti 14-21 della raccolta delle Rime di Tullia D'Aragona.

XIV.
A Maria Salviati de' Medici

Anima bella che dal padre eterno
creata prima in ciel nuda e immortale,
or vesa di vel caduco e frale,
mostri quà giuso il gran valore interno:

da gli alti chiostri in questo basso inferno
u' si n'aggrava il rio peso mortale,
scendesti a torne noia e a darne l'ale
al sommo bello, al sommo ben superno;

chiunque te pur una volta mira,
sente sgombrar da l'alma ogni vil voglia,
e arder tutta di celeste amore.

Dunque ver me col divin raggio spira
del disiato tuo santo favore,
ch'io voli al Ciel con la terrena spoglia.


XV.
A Maria Salviati de' Medici
Cod. Magliabecchiano, II, I, IV

Anima bella, che dal Padre eterno
pura fosti creata e immortale,
e ingombra di velo oscuro e frale,
pur di fuor mostri il tuo valor interno:

dal ciel scendesti in questo vivo inferno,
u' n'aggrava il terren peso mortale,
per innalzarne dibattendo l'ale
al sommo bello, e sommo ben superno.

Tu di casti pensier, d'onesta voglia
ingombri l'alma a chi tuo esempio mira,
e le fai vaghe del verace amore.

Dunque ver me col vivo raggio spira
del desiato tuo almo favore,
ch'io m'erga, e inalzi al ciel da questa spoglia.


XVI.
A don Luigi di Toledo

Spirto gentil, che dal natìo terreno
la chiarezza del sangue, e dal ciel chiara
anima avesti, e a cui d'ogni più rara
virtù colmar le sante Muse il seno:

poi che 'l cor vostro è d'alto valor pieno,
e real cortesia da voi s'impara,
non mi sia, prego, vostra mente avara
di ciò, ch'altrui donando, non vien meno.

Voi sete quel, ch'avete ambe le chiavi
di quegli eccelsi, e gloriosi cori
che fan più ch'ancor mai felice l'Arno,

or volgetele a me così soavi,
ch'entro raccolta, mai non esca fuori;
e prego umil non sia 'l mio prego indarno.


XVII.
A don Pedro di Toledo

Ben si richiede al vostro almo splendore
del chiaro sangue, e a la virtù eccellente,
che si canti Signore eternamente
ne' giochi di Parnaso il vostro onore;

ond'è ch'a dir di voi, dentr'al mio core
s'accende ognor un vivo foco ardente;
ma come a l'alta impresa non si sente
l'anima ugual, si spenge il novo ardore.

Non s'assicura nel profondo seno
di vostre glorie entrar mia navicella
sotto la scorta del mio cieco ingegno.

Solchi 'l gran mar di vostre lodi a pieno
più felice alma, a cui più chiara stella
porga favore in più securo legno.


XVIII.
A Pietro Bembo

Bembo, io che fino a qui da grave sonno
oppressa vissi, anzi dormii la vita,
or da la luce vostra alma infinita,
o sol d'ogni saper maestro e donno,

desta apro gli occhi, sì ch'aperti ponno
scorger la strada di virtù smarrita:
ond'io lasciato ove 'l pensier m'invita
de la parte miglior per voi m'indonno:

e quanto posso il più mi sforzo anch'io,
scaldarmi al lume di sì chiaro foco,
per lasciar del mio nome eterno segno.

E o non pur da voi si prenda a sdegno
mio folle ardir, che se 'l sapere è poco,
non è poco, Signor, l'alto disìo.


XIX.
A Ridolfo Baglioni

Signore in cui valore e cortesia
giostrano insieme ognor tanto ugualmente,
che discerner non puote umana mente,
di qual di lor più la vittoria sia:

mia fredda Musa a voi già, non s'invia
per celebrar vostra virtute ardente:
ma perch'in voi nomar conosce e sente,
sorger nel vostro onor la gloria mia.

Ben porta nel mio core un caldo effetto
il vivo lume vostro, ch'è sì chiaro,
che risplender si vede in ogni parte.

Ma prenda voi per degno alto suggetto,
chi al quieto Apollo è tanto caro,
quanto voi sete al bellicoso Marte.


XX.
A Francesco Crasso

La nobil valorosa antica gente,
che di novo i fratelli ancisi vede,
e in acerbo esilio a pianger riede,
Signore, a te, s'inchina umilemente.

E potendo vendetta arditamente
gridar da' monti, e piaghe, e mille prede,
mercè sola e pietate a te richiede,
di comune voler, pietosamente.

O sanator de le ferite nostre,
mira la velenosa e cruda rabbia,
che 'l sangue giusto, ingiustamente sugge.

Così tosto avverrà, ch'in te si mostre,
com'a gran torto, tanti danni or abbia
la gente, cui pietate e doglia strugge.


XXI.
Al Molza

Poscia (ohimè) che spento ha l'empia morte
l'alma gentil, ch'in sua più verde etade,
a gran passi salìa l'erte contrade
che menan dritto a la superna corte:

chi fia che leggi così crude e torte,
spirti amici d'onor e di bontade,
non pianga meco ognor, ch'a le più rade
virtù die' sempre il ciel vite più corte?

Molza ben pianger dei, poi ch'al camino
ove ti sprona un disusato ardire,
perduta hai meco la più fida scorta,

per me dopo sì fero destino
non voglio altro, non deggio che morire
se morir deve e puote, chi è già morta.

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