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Più furbi del destino

Post n°68 pubblicato il 22 Dicembre 2006 da bimba.love
 
Foto di bimba.love

«Il giorno in cui non ci sarò più, voglio essere bruciato». Già. Frederick disse proprio così.

Sul vecchio tavolo di legno marcio i polli si rincorrevano beccandosi tra i bicchieri e le bottiglie di birra. Frederick guardava il fondo del suo bicchiere con sguardo assorto e le labbra screpolate appena socchiuse. Tutto intorno a lui sembrava irreale, ma l’odore forte e caldo della sua casa-pollaio aveva un che di protettivo, per questo i suoi amici, James e Matt, venivano così spesso a trovarlo. I polli, i cani e i gatti rendevano l’ambiente accogliente e lasciavano il rigido inverno fuori, con i suoi ghiaccioli attaccati alle grondaie e i lastroni di ghiaccio sui marciapiedi.

Le mani arrossate di Matt tremarono a quelle parole e lo sguardo sfuggente di James si fissò per un attimo sul suo e fu un attimo che passò come un lampo di inquietudine tra loro due. All’improvviso l’inverno era entrato nel loro piccolo rifugio, si era insinuato tra gli escrementi degli animali e la luce della candela, tra il pavimento scivoloso e umido e le ragnatele del soffitto.

«Oh Frederick,» disse Matt «amico mio, quando non ci saremo più, non avrà importanza cosa faranno di noi. Il fuoco ci scalda adesso, la fiammella della candela è la speranza di questa serata. Cosa vuoi che sia, l’essere bruciati, quando non si può più sentire né il freddo né
il caldo».

«Hai ragione,» rispose Frederick «allora vorrei morire bruciato vivo, rimpiangerei il freddo e il gelo di questi giorni, sentirei le vostre voci per l’ultima volta, vi udirei gridare, e penserei che non capite che felicità dà il fuoco, la gioia dell’abbandono, il dolore ultimo e assoluto, prima dell’abbraccio liberatorio al nulla o a Dio. Non ne posso più di soffrire. Se i polli non ci accogliessero ogni sera e non ci offrissero questo insonne rincorrersi attorno a noi come segno dell’incomprensibile valore della vita…».

Tacquero. A poco a poco la luce della candela si spense e non si udì più niente. La luna attraversava le imposte socchiuse con raggi spettrali e tra i giornali gettati a terra illuminava i tre corpi pesanti come sacchi di farina.
 
James e Matt avevano avvolto le loro cose dentro i giornali e poi le  avevano messe dentro una busta di plastica. Questa volta Frederick non li aveva seguiti, era rimasto nel pollaio col rischio di essere sorpreso lì da qualcuno. Si trascinavano così lungo le strade della città. L’asfalto aveva lo stesso colore del cielo: un grigio cupo minacciosamente tendente al nero o al verdognolo.

Il suono di un pianoforte li raggiunse cogliendoli di sorpresa e quando alzarono lo sguardo videro che qualcuno aveva trascinato un pianoforte a coda in mezzo allo spiazzo, davanti alla cattedrale. Il giovane musicista si accaniva sui tasti con passione, i capelli svolazzavano davanti agli occhi, sul leggio non c’erano spartiti e la musica era allegra e crudele. La gente aveva circondato il pianoforte e ascoltava stupita e ammirata. Dall’altro lato un materasso era appoggiato alle gambe del piano. Sotto si ammucchiavano buste piene di maglioni e scatole di cartone. Il giovane non osservava il trambusto intorno a sé, gli occhi socchiusi inseguivano il guizzo delle mani. Ogni tanto qualcuno lasciava cadere dei soldi in una lattina.

James e Matt non si fermarono. Continuarono a girare dentro i cestini della spazzatura nel centro della città. Trovarono da mangiare: mezzi panini, briciole, pezzi di torta sbocconcellati e gettati via in fretta, salsine colorate su fette di pane che puzzavano di pesce. Ogni cosa aveva un sapore intenso e gustoso. L’acquolina scorreva dalla bocca e la barba restava impigliata nelle salse e nel pane. Qualcuno aveva fatto loro l’elemosina, quel mattino, così comprarono delle bottiglie di birra e, sazi e contenti, si diressero di nuovo verso il pollaio di Frederick.

L’asfalto si era adombrato e la pioggia lo colpiva appuntita come una lancia. Senza scalfirlo si disintegrava rimbalzando nelle pozze a specchio in cui si riflettevano le vetrate dei negozi. La città era ammutolita e il pianoforte taceva, spinto nell’androne di un palazzo. Il musicista fumava e chiacchierava con un giovane appoggiato al muro.

Anche i rossi cestini della spazzatura si erano riempiti d’acqua e i due, che non avevano proprio bisogno di parlare per comunicare i loro pensieri, avevano la faccia soddisfatta di chi ce l’aveva fatta per un pelo. Siamo stati più furbi e più veloci della pioggia, dicevano, più furbi e più veloci del destino.

Per arrivare dal loro amico bisognava attraversare la periferia nord della città. Le case annerite dai fumi incombevano sui pochi alberi spogli dimenticati qua e là. Quando non ci furono più case
attraversarono un campo, poi raggiunsero il sentiero e da lì la pianura sembrava essere il mondo intero. Arbusti e cespugli grigio topo, disseminati in modo casuale tra i campi marrone scuro, si attaccavano spinosi alle loro vesti logore e ogni tanto strappavano un pezzo di stoffa o un filo. Già si vedeva la casupola di legno inclinata da un lato sotto il peso del tetto spigoloso e irregolare e tutt’intorno non c’era nessuno, non un rumore interrompeva il silenzio del cammino. Solo i corvi si alzavano a volte in un volo improvviso e spaventato, ma la fame sembrava aver indebolito anche i loro slanci neri e veloci.
 
La porta era aperta.

L’oscurità in un primo momento impedì loro di distinguere gli oggetti nella stanza. Con voce allegra si annunciarono all’amico ma non ricevettero che un lamento di risposta. A poco a poco cominciarono a distinguere le cose avvolte nella penombra. Frederick giaceva tra i suoi giornali e non sembrava intenzionato ad alzarsi. Frederick, non ti abbiamo portato niente da mangiare, pensò Matt. Non c’è mai il tempo di pensare agli altri, quando si ha fame. I sensi di colpa avevano fatto ammutolire i due, si guardarono e continuarono a tacere. Frederick era troppo malato per poter affrontare il freddo e le lunghe camminate verso il centro della città e loro due erano troppo presi da se stessi per poter pensare a lui. Non ce l’avrebbero mai fatta a trovare da mangiare anche per il loro amico.

Frederick aveva bisogno di medicine, di un medico. Non sarebbe servito a nulla rinunciare al mezzo panino e alle salsine colorate e puzzolenti di pesce per farlo sopravvivere. Ad un tratto si sollevò sulle braccia, li guardò con aria interrogativa e loro gli porsero le birre. Bevvero fino a stordirsi, tra le galline tramortite e deboli, così spennacchiate che il rosa della pelle le faceva sembrare quasi di plastica. Matt e James pensavano che se le avessero uccise ad una ad una avrebbero avuto di che mangiare per un po’. Frederick tossiva e il sangue che sputava schizzava via come un grumo pestato a colpi di martello. Si era raggomitolato su se stesso e non la finiva più di lamentarsi e di tenersi il fianco. Il respiro non era che un rantolo affannoso e spietato. Matt uscì.

Tornò dopo due ore con altre bottiglie. Bevvero fino a stordirsi tutti e tre. Quasi incapaci di reggere le bottiglie da soli, se le passavano e se le strappavano cantando. Era davvero una bella festa. Il barbone col pianoforte era ricco, dicevano, sotto il piano crescevano le sue cose e non aveva bisogno di cercare cibo tra la spazzatura. La gente pagava per sentire un artista accattone simulare allegria dall’alto del suo disprezzo. La sua non era emarginazione, no, era alterigia, era orgoglio, era scelta. Il rantolo di Frederick si fece insopportabile.
 
La notte era scesa sul pollaio e sui campi coprendo tutto con il suo manto di complicità e silenzio.

James si sollevò sui gomiti e senza parlare tramortì Frederick con un bastone. Poi lo coprì di carta e tenne la fiamma della candela lì vicino, dopo averlo cosparso di alcool. Matt osservava inebetito James che ripeteva frasi incomprensibili. Soffre troppo soffri troppo amico lascia che ti liberi dal dolore come tu vuoi ti faremo morire nel fuoco e sarai alleviato da ogni peso da ogni angoscia. Anche Matt cominciò allora a cospargere di alcool tutto il pavimento, spinse fuori dal pollaio James, chiuse la porta lasciando dentro i polli starnazzanti e impazziti e si augurò che non fosse di carne bruciata l’odore che gli otturava le radici.

La notte era come incendiata dal loro dolore, ma le gambe li sorreggevano appena e, lentamente, come due fantasmi sul cui volto si era disegnato l’orrore, rifecero il cammino verso la città raggelata.

Seduti sui gradini della chiesa con la testa abbandonata tra le spalle, simili a due piccioni malati, restarono lì, giorno e notte, a sostenersi, non sapendo più dove andare. Pensavano che non si sarebbero più sentiti in colpa per non aver portato da mangiare al loro Frederick, e che per questo Natale il regalo più bello glielo avevano fatto davvero. Il pianoforte gridava sotto le dita appassionate del giovane musicista senzatetto e loro si sentivano più buoni degli altri, più buoni di quelli che regalavano monetine, più buoni di quanti lasciavano i loro mezzi panini nei cestini, più buoni dell’asfalto che aveva smesso di spezzare punte di lance cadute da chissà dove, più buoni di tutti, in questo Natale in cui avevano regalato il fuoco a chi aveva freddo e la pace a chi era stanco di masticare sangue e respirare dolore. Ancora una volta erano stati più veloci e più furbi del destino, più veloci e più furbi del cielo.

Frederick aveva visto realizzato il suo unico desiderio ed ora sembrava loro che fosse lì, anche lui a cercare tra i cestini, anche lui ad ascoltare il piano e a guardare la gente entrare e uscire dai negozi.

 
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