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L’invasione dei randagi - Oltre 600 mila i cani senza controllo


Massimo De Maio non sopporta di dover usare il suo accalappiacani, «una corda da roccia fissata a un tubo che si stringe come un cappio»: in oltre vent’anni gli è capitato soltanto tre volte. «Mi avvicino con dolcezza—racconta —, un biscotto in una mano e l’altra aperta a promettere una carezza. Di solito, superata la diffidenza iniziale, alla fine te li ritrovi in braccio. I casi più difficili? Li risolvo grazie a una gabbia con dentro un pezzo di würstel».Marco Lupoli l’accalappiacani lo odia con tutto il cuore — «il cane si rotola per terra, sbava, si ferisce» — ma non può permettersi il lusso di lasciarlo in macchina: «Mi capita di trovarmi a tu per tu con Dobermann e Rottweiler. Se invece incappi in un branco e ne prendi uno, gli altri ti saltano addosso e comincia il delirio, si scagliano contro di te e azzannano persino il loro compagno. L’ultima volta erano una dozzina e ne sono uscito con le gambe piene di morsi e di lividi, ma poteva andarmi molto, molto peggio».Massimo De Maio e Marco Lupoli sono due animalisti e a tutti e due capita spesso di andare a recuperare i cani per strada. Il primo è il presidente della Lega per la difesa del cane di Vercelli e gestisce per conto di un’ottantina di Comuni un canile in una regione, il Piemonte, dove secondo le stime del ministero della Salute i randagi non sono più di 3 mila. Il secondo è il responsabile del rifugio dell’Ente nazionale protezione animali a Manfredonia, in Puglia, regione sul cui territorio sarebbero in circolazione oltre 70 mila cani senza padrone. Stesso lavoro, stesso amore per gli animali. La differenza — concordano loro —è più o meno quella che passa tra un medico che lavora in un ospedale milanese e un suo collega che opera in una zona di guerra. Il randagismo spacca l’Italia in due. Al Nord è un fenomeno sotto controllo, al Sud incontrollato da decenni e, almeno per il momento, ai limiti dell’incontrollabile. Sempre secondo il ministero nel nostro Paese ci sono in tutto 441 mila cani in libertà (molti di più, assicurano però le associazioni, che parlano di «almeno 600 mila animali »).Ma se Liguria ed Emilia Romagna insieme non raggiungono quota 12 mila, la Campania da sola ne ha 70 mila, la Calabria 65 mila, il Lazio 60 mila. Un’emergenza che ha due pesanti aggravanti: in Italia abbiamo delle norme per la prevenzione del randagismo considerate ottime dalla maggior parte degli esperti e, dal 2001 a oggi, per combatterlo lo Stato ha stanziato qualcosa come 30 milioni di euro. Perché allora nel Meridione può ancora capitare che dei bambini vengano sbranati da branchi di cani allo stato semi-selvaggio? Per tre motivi, principalmente: una cattiva amministrazione, un alto tasso di abbandono degli animali e un modo di accudirli e di farli riprodurre non proprio responsabile. «La legge 281 del 1991 stabilisce che gli animali randagi non debbano essere soppressi e che i sindaci devono prendersi cura di quelli che si trovano sul loro territorio », spiega Carla Rocchi, ex senatrice e presidente nazionale dell’Enpa.Tramite le Regioni, agli amministratori locali vengono messi a disposizione i fondi per costruire i canili oppure per appaltare la loro gestione alle associazioni o ai privati. «Le Asl hanno invece il dovere di sterilizzare i cani e sorvegliare sulla loro salute. Ecco, purtroppo è molto semplice: al Sud sindaci e Asl non fanno ciò che per legge sono tenuti a fare». Sui 1.650 Comuni che non dispongono di un canile, l’80 per cento sono infatti meridionali. Emblematico è proprio il caso siciliano: in sei anni la Regione ha ottenuto 3 milioni di euro, il 60 per cento dei quali da impiegare nelle sterilizzazioni. Risultato: 10 mila cani nei canili, 68 mila in giro alla mercé dei loro istinti. Il randagismo, dicono gli esperti, è anche un problema culturale. Nasce dall’abbandono, naturalmente. Un dato fornito dall’Aidaa, l’Associazione per la difesa degli animali, è piuttosto significativo: nell’estate del 2008 su strade e autostrade sono stati lasciati 14 mila cani, il 19 per cento in meno rispetto al 2007.Ma se a Milano gli abbandoni sono calati del 25 per cento, tra Sicilia, Puglia, Sardegna e Campania sono cresciuti del 5 per cento, con punte drammatiche fino al 30 per cento. «In queste regioni il tasso di natalità dei cani è troppo alto — afferma Laura Rossi, presidente della Lega nazionale per la difesa del cane —: si tende infatti a far riprodurre liberamente gli animali magari con l’idea di regalare poi ad amici e parenti i cuccioli, ma alla fine la maggior parte di essi finisce per doversela cavare da soli». «Nei piccoli centri del Sud i cani sono lasciati troppo all’aperto—aggiunge Carla Rocchi —, spesso vivono giorno e notte senza mai essere tenuti in luoghi recintati e ciò non aiuta certo a tenere sotto controllo né il loro comportamento né il ritmo riproduttivo». Ecco allora spiegata l’esistenza dei branchi, composti da cani abbandonati e dai loro figli: «Questi ultimi sono animali rinselvatichiti, non li chiamerei nemmeno più cani, assomigliano piuttosto ai lupi —, dice Carlotta Bernasconi, vicepresidente della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Veterinari —.Sono predatori, per nutrirsi vanno a caccia e, se affamati, diventano aggressivi con l’uomo. La fame: ecco il motivo per cui la muta ha assalito quel povero bambino di Modica». Il modo per abbassare la soglia di aggressività di questi animali? La legge parla chiaro: tutti i randagi devono essere individuati, catturati e sterilizzati. È vero, poi mancano i canili per alloggiarli però, sostiene Carla Rocchi, «questo non è un buon motivo per non intervenire con un piano straordinario di sterilizzazione attraverso delle ambulanze: basterebbe almeno a ridurre la pericolosità dei branchi». Un’altra nota dolente riguarda le strutture gestite da imprenditori spesso molto più interessati ad intascare le sovvenzioni che alla salute degli animali: «Al Sud praticamente tutti i canili sono in mano ai privati — continua Laura Rossi —, molti sono dei veri e propri lager e in alcuni casi il Comune arriva a pagare una retta per ogni cane catturato e un’altra per ogni carcassa incenerita: è chiaro che a queste condizioni, e senza i dovuti controlli delle Asl, gli animali diventano solo merce da smaltire».Fabio CutriFonte: corriere.it