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LA CIAMBELLA E IL BUCO


di Ugo Trivellato - www.lavoce.infoLe critiche del ministro Tremonti all'Istat lasciano allibiti. L'accertamento dello stato di disoccupazione è fatto in modo stringente, sulla base di un insieme di quesiti che mirano a rilevare una situazione oggettiva. E' un sistema utilizzato in tutti i paesi sviluppati, che consente confronti credibili nel tempo e nello spazio. Minare la credibilità dell'informazione statistica ufficiale o ridurre gli spazi di autonomia di istituzioni con cruciali funzioni tecniche e scientifiche non aiuta a uscire dalla crisi. A meno che non si vogliano illudere i cittadini con finzioni.Ma vale la pena di mettere nero su bianco le dichiarazioni, aspre e irridenti, del ministro dell’Economia all’assemblea della Confcommercio di qualche giorno fa. «Voi avete idea di come si fanno la statistiche dal lato dell’Istat?» – ha detto riferendosi alla rilevazione sulle forze di lavoro, che per il primo trimestre di quest’anno segnala, oltre a un calo dell’occupazione, una crescita della disoccupazione di 220mila unità rispetto allo stesso trimestre di un anno fa, portando così i disoccupati prossimi ai 2 milioni. E si è dato la risposta: «Con un campione con mille telefonate. Ti chiamano a casa e ti dicono: “Sei disoccupato?”. (Reazione:) “Vai a quel paese”. Risposta (cioè, quel che sarebbe il risultato della rilevazione): “Molto disoccupato”».COME SI MISURA IL “BUCO” DELLA DISOCCUPAZIONEC’è di che restare allibiti. Ma vediamo innanzitutto di mettere ordine. Cominciando dalle definizioni. Chi contiamo come disoccupati? “È più facile misurare la ciambella (dell’occupazione) che il buco (della disoccupazione)”. Questo, in sostanza, il senso di un articolo di Julius Shishkin, allora commissario del Bureau of Labor Statistics statunitense, di oltre trent’anni fa, che ha influenzato in maniera decisiva il dibattito sulla misura della disoccupazione.  La risposta, progressivamente affinata e condivisa da tutti i paesi sviluppati, è nelle raccomandazioni dell’International Labour Office e negli orientamenti dell’Eurostat, definiti in un regolamento dell’Unione Europea.Muove dalla preliminare definizione di occupato: è considerato tale ogni persona di 15 anni o più che nella settimana di riferimento dell’intervista abbia svolto almeno un’ora di lavoro retribuita.  I disoccupati sono successivamente individuati fra i non occupati, quindi con esclusione di ogni occupato marginale, ad esempio chi abbia servito in una pizzeria o fatto il/la baby-sitter per una sola ora, anche se nello stesso tempo cerca un lavoro.Per definire una persona disoccupata non viene poi posta una sola domanda, né tanto meno viene chiesto alla persona se si ritiene tale. L’accertamento dello stato di disoccupazione è fatto in modo stringente sulla base di un insieme di quesiti che mirano a rilevare la situazione oggettiva della persona. Avendo acquisito che la persona non ha un lavoro (l’abbiamo appena visto, gli occupati sono identificati e contati per primi), si chiede se lo ha cercato nelle ultime quattro settimane; se la risposta è affermativa, si chiede se ha svolto almeno una delle azioni di ricerca attiva segnalate: tra queste, la visita a un Centro dell’impiego, la ricerca tramite internet, la consultazione delle offerte di lavoro sui giornali, lo svolgimento di colloqui di lavoro e così via. Se almeno una di queste azioni è stata svolta, si chiede se sarebbe disponibile a lavorare entro due settimane. Solo se ha risposto positivamente a questa serie di quesiti, la persona è considerata disoccupata. In sintesi, è disoccupata una persona che, essendo in età compresa fra i 15 e 74 anni, nella settimana alla quale si riferisce l’intervista non è stata occupata – nemmeno un’ora,  ha compiuto azioni attive di ricerca di lavoro nell’ultimo mese, e  è disponibile a lavorare nell’arco delle due settimane successive. IL CAMPIONEIl secondo aspetto toccato in maniera errata nell’intervento del ministro Tremonti è il campione sul quale si basano le stime della disoccupazione: le “mille interviste” sono una boutade tra l’infelice e l’insultante. Come ha precisato l’Istat in un asciutto comunicato-stampa «sono 280mila le famiglie (per un totale di circa 680mila individui) che in un anno partecipano all’indagine sulle forze di lavoro in qualità di rispondenti. La rilevazione è dunque ampia e affidabile con un tasso di risposta tra i più elevati d’Europa: pari all’88 per cento. [Inoltre,] l’indagine è condotta non solo telefonicamente, ma per circa metà presso il domicilio delle famiglie con interviste faccia a faccia, che sono successivamente intervistate telefonicamente. Ciò consente il raggiungimento delle persone senza telefono e quelle che hanno più difficoltà a comprendere l’italiano, come nel caso della popolazione straniera». QUEL CHE ERA CREDIBILE IERI, NON LO È PIÙ OGGICosì si misura la disoccupazione in Italia. Così la si misura nei ventisette paesi dell’Unione Europea, e in maniera analoga in tutti le nazioni sviluppate. Il che consente credibili confronti nel tempo e nello spazio.Il richiamo ai confronti dell'Istat rivela immediatamente la strumentalità di dichiarazioni, come quella del ministro Tremonti, che oggi attaccano e sviliscono le statistiche dell’Istat sul lavoro. Basta confrontarle con le dichiarazioni di autorevoli membri del governo di meno di un anno fa, quando la disoccupazione calava – o restava stabile – e l’occupazione ancora cresceva. Quelle dichiarazioni citavano, a ragione (anzi, forse piegandoli a un eccessivo ottimismo), i dati dell’Istat come credibile evidenza che il mercato del lavoro italiano andava bene. E, se mai servisse aggiungerlo, la definizione di disoccupato, il metodo e la qualità della rilevazione erano gli stessi utilizzati oggi.Che cos’è cambiato? L’affidabilità dello strumento di misura o l’andamento dell’economia e del mercato del lavoro?I profeti di sventura non aiutano a uscire dalla crisi. Ma ancora meno aiuta mettere la testa sotto la sabbia. Occorre muovere dalla consapevolezza che questa crisi è grave. Per chi nutrisse dubbi in proposito, è consigliabile guardare al documentato confronto che Barry Eichengreen e Kevin O’ Rouke fanno fra l’attuale recessione e la grande depressione degli anni Trenta.Per scelte di politica economica che siano all’altezza dei problemi che la crisi pone, evidenza informata e ragionevoli previsioni sono un ingrediente indispensabile, così come per il medico lo sono diagnosi e prognosi per la scelta di terapie appropriate. Invocare il silenzio degli analisti, auspicare una sorta di moratoria delle previsioni, ancor più mettere in dubbio la credibilità dell’informazione statistica ufficiale è grave, pericoloso.Certo, dati più dettagliati e tempestivi, che risultino da un’intelligente integrazione fra fonti amministrative – l’Inps innanzitutto – e indagini statistiche sarebbero quanto mai utili. Se il ministro Tremonti, e il governo, sono interessati a questa prospettiva, più che evocare la generica ipotesi di una banca dati presso il ministero dell’Economia, è opportuno che considerino la raccomandazione per l’istituzione di un Sistema di Archivi per Analisi sul lavoro, approvata oltre un anno fa dalla Commissione di indagine sul lavoro istituita dai presidenti di Camera, Senato e Cnel. E assicurino al sistema le competenze e l’indipendenza necessarie incardinandone il coordinamento presso l’Istat.Non servono dati graditi; servono dati veri. Servono a governo e Parlamento per prendere le decisioni giuste. E servono per essere comunicati con trasparenza all’opinione pubblica, perché il paese intero abbia cognizione delle difficoltà e concorra nell’impegno per contrastare la crisi e poi per avviare una non flebile ripresa. A meno che non ci si illuda e ancor più si voglia illudere l’opinione pubblica con finzioni. Anche cercando di ridurre gli spazi di autonomia di istituzioni con cruciali funzioni tecniche e scientifiche. Tra queste vi è l’Istat. L’ormai prossima nomina del suo nuovo presidente è una importante cartina di tornasole per capire se la scelta obbedirà ai criteri-guida della competenza, dell’autorevolezza e dell’indipendenza di giudizio.