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Messaggi del 04/07/2019
Post n°2276 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
due nuovi attori che hanno preso parte alle nostre origini: gran parte degli elementi pesanti presenti nel sistema solare non derivano nelle esplosioni di supernova, ma dalla fusione di due stelle di neutroni avvenuta nelle vicinanze del nostro Sole
così penetrato nella nostra mente da rischiare di perdere parte della sua poesia. Sì, elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio presenti nell'ambiente terrestre sono stati forgiati da vari antichi cicli di vita di generazioni di stelle. Molte di queste fornaci cosmiche hanno espulso il loro contenuto nel vuoto, inquinando la nostra galassia con tracce dei nuclei atomici che chiamiamo ossigeno, carbonio, ferro e altro ancora. E nel corso degli eoni la gravità ha provocato la ricondensazione di questa materia interstellare. Come risultato, gli elementi sono stati separati, permettendo alla materia stellare di diventare straordinariamente concentrata, creando nuove stelle, pianeti, e gli ammassi di nuclei pesanti che costituiscono gli esseri umani e la loro assurda complessità. Tutto ciò è fantastico, ma ripetete la storia un gran numero di volte e comincerà a suonare un po' banale. Una parte della ragione è che la narrazione può diventare vaga - dal parlare in termini generali di generazioni precedenti di stelle ormai invisibili fino alle nostre ampie descrizioni della natura della materia interstellare. È un po' come quando un parente anziano vi racconta dell'albero genealogico della vostra famiglia fino alla quinta generazione. Ci può essere poco con cui identificarsi, anche se ci piacerebbe farlo. La storia diventa molto più interessante quando si guarda più da vicino. Per prima cosa, non tutti gli elementi sono prodotti allo stesso modo. Forse l'esempio più interessante è quello degli elementi del cosiddetto "processo r".
di alcuni elementi, ma per quella degli elementi più pesanti del ferro sono necessari processi ancora più energetici. (© Science Photo Library / AGF) Questi elementi hanno nuclei più pesanti del ferro e sono costruiti da un meccanismo chiamato cattura rapida dei neutroni. Come suggerisce il nome, c'è bisogno di qualcosa per catturare i neutroni, sotto forma di nuclei "seme", e c'è bisogno di un tremendo flusso di neutroni, che sia abbastanza veloce da andare a formare dei nuclei al di là di qualsiasi configurazione intermedia altamente instabile. Ma dove si trovano ambienti di questo tipo? Nel 2017 gli osservatori delle onde gravitazionali LIGO e Virgo hanno fatto scalpore rilevando la firma di una fusione di due stelle di neutroni. Due sfere di massa stellare di materiale nucleare hanno spiraleggiato una verso l'altra con un urlo di oscillazioni spazio-temporali di intensità crescente. A differenza della fusione di un buco nero binario, quell'evento ha prodotto una quantità prodigiosa di radiazioni elettromagnetiche nella cosiddetta kilonova (letteralmente, mille volte l'emissione di una normale stella nova). Lo studio telescopico della kilonova ha fornito un sostegno convincente all'idea che la fusone di stelle di neutroni rappresenti un paradiso per il processo r. Ciò suggerisce che questi eventi cataclismatici giochino un ruolo importante nel rifornire il nostro paesaggio galattico di alcuni degli elementi più pesanti. Dall'oro, platino e iridio al torio e all'uranio, fino a elementi di breve durata come il plutonio. Ora, una nuova ricerca di Bartos e Marka, pubblicata nei giorni scorsi su "Nature", offre una visione creativa e piuttosto sorprendente delle origini degli elementi del processo r nel nostro sistema solare. I ricercatori hanno combinato due analisi chiave. Una quella dei dati sui meteoriti che conservano le prove del mix di elementi nel nostro sistema solare in formazione, circa 4,6 miliardi di anni fa. L'altra è un ingegnoso modello statistico della storia delle fusioni di stelle di neutroni della galassia. La ricerca indica che all'alba della nostra storia cosmica locale si è verificata una collisione di stelle di neutroni molto vicina. Tracce di questo evento unico sembrano essere presenti nei dettagli dei radioisotopi dovuti al processo r che hanno irrorato il nostro sistema in formazione dopo la collisione delle stelle di neutroni. Raggiungere questa conclusione richiede una certa flessibilità mentale e un duro lavoro. Le fusioni di stelle di neutroni sono cosmicamente rare nella Via Lattea, variando tra uno e cento eventi per milione di anni in tutta la sua estensione. Alcuni elementi del processo r, come gli attinidi ( tra cui curio-247, plutonio-244 e iodio-129), hanno emivite relativamente brevi, nell'ordine delle decine di milioni di anni, ma hanno lasciato tracce specifiche nel materiale meteoritico dell'antico sistema solare, che ci permettono di misurare le loro abbondanze originali. Quindi, la quantità di questi elementi che esisteva durante la finestra di tempo in cui si stava formando il nostro sistema solare offre uno strumento per valutare non solo l'epoca in cui sono stati forgiati quegli elementi, ma anche la distanza a cui doveva trovarsi quella fucina. Costruendo una simulazione delle fusioni di stelle di neutroni nella nostra galassia, nel corso della sua storia fino alla formazione del nostro sistema solare (nei circa 9 miliardi di anni di esistenza della Via Lattea), Bartos e Marka hanno potuto esaminare quali scenari potrebbero aver prodotto la miscela di attinidi ricavata dalle analisi meteoritiche.
gravitazionali da parte di LIGO, in primo piano a destra (Science Photo Library / AGF) sola kilonova prodotta da una fusione di stelle di neutroni che si darebbe verificata entro 80 milioni di anni (più o meno 40) dalla formazione del sistema solare e a circa mille anni luce di distanza. I ricercatori stimano che un evento di kilonova così vicino avrebbe occultato tutto il cielo notturno per oltre un giorno. Quattro miliardi e mezzo di anni fa, quando gli elementi appena generati dalla fusione furono proiettati all'esterno e si diffusero nello spazio interstellare, circa 10^20 chilogrammi di essi finirono per depositarsi nel nostro giovane sistema. Da lì si può capire quanta parte del deposito terrestre di elementi del processo r proveniva da quell'unico evento. Per esempio, l'equivalente di un ciglio circa dello iodio nel vostro corpo sarà arrivato da quelle stelle di neutroni. Un'automobile Tesla Model 3 contiene un totale di circa 5 grammi dei nuclei generati da questa specifica fusione di stelle di neutroni. Un moderno reattore a fissione, che usa uranio arricchito, conterrà circa 200 chilogrammi di materiale che è stato prodotto in quell'unica esplosione cosmica. Cosa significativa, lo studio sembra anche escludere che fra i produttori primari di elementi di processo r in tutta la galassia vi siano stati eventi come le supernove a collasso nucleare, legate all'implosione di stelle massicce. Quegli eventi, che si verificano centinaia o addirittura migliaia di volte più frequentemente delle fusioni di stelle di neutroni, non sembrano corrispondere ai dati. Nel complesso, sembra che possiamo aggiornare il racconto delle nostre origini dalla "polvere di stelle". Non solo siamo in debito con una fisica ancora più esotica ed estrema di quanto forse immaginassimo, ma ora dobbiamo collocare sull'albero genealogico due membri molto specifici della nostra tribù ancestrale: una coppia di stelle di neutroni amanti, il cui abbraccio è stato letteralmente infuocato. della Columbia University. E' autore e coautore di oltre 100 articoli di ricerca in astronomia e astrofisica. Nel 2012 ha vinto il premio Chambliss dell'AAS. Per "Le Scienze" ha scritto L'universo in scala, (In) significanza cosmica, La generosità dei buchi neri. ------------------------- "Scientific American" il 1° maggio 2019. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.) |
Post n°2275 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Internet Homo di Denisova Ingresso della grotta luogo di ritrovamento dei resti dell'Homo di Denisova L'Homo di Denisova o donna X è il nome dato ad un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati nei Monti Altaj in Siberia. La scoperta è stata annunciata nel marzo 2010, quando al termine della completa analisi del DNA mitocondriale (mtDNA) è stato ipotizzato che possa trattarsi di una nuova specie. Questo esemplare di ominide è vissuto in un periodo compreso tra 70.000 e 40.000 anni fa in aree popolate principalmente da sapiens e in parte da neanderthal; ciononostante, la sua origine e la sua migrazione apparirebbero distinte da quelle delle altre due specie, e il mtDNA del Denisovarisulterebbe differente dai mtDNA di H. neanderthalensis e H. sapiens. L'uomo di Denisova è strettamente imparentato con l'uomo di Neanderthal: le due specie si sarebbero separate circa 300.000 anni or sono. Scoperta Un team di scienziati dell'Istituto Max Planck di antropologia di Lipsia guidati da Svante Pääbo sequenziò il DNA mitocondriale (che si eredita solo per linea materna), estratto dal frammento osseo di un dito mignolo di un giovane individuo di età stimata tra i 5 e i 7 anni e di sesso incerto nonostante gli fosse stato attribuito il soprannome di donna X. Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di Denisova sui Monti Altaj in Siberia. Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti lavorati riconducibili all'Homo di Denisova. L'analisi del mtDNA ha inoltre suggerito che questa nuova specie di ominidi sia il risultato di una migrazione precoce dall'Africa, distinta dalla successiva migrazione dall'Africa associata a uomini di Neanderthal e umani moderni, ma anche distinta dal precedente esodo africano di Homo erectus.Pääbo ha rilevato l'esistenza di questo ramo lontano che crea un quadro molto più complesso del genere umano durante il tardo Pleistocene. Nel 2010, un secondo documento del gruppo di Svante Pääbo ha riferito di una prima scoperta del 2000, di un terzo molare superiore di un giovane adulto, risalente a circa lo stesso periodo (il dito era nel livello 11 della sequenza della grotta, il dente nel livello 11.1). Il dente differiva in diversi aspetti da quelli di Neanderthal pur avendo caratteristiche arcaiche, simili ai denti dell'Homo erectus. Il gruppo eseguì nuovamente l'analisi del DNA mitocondriale sul dente e rilevò che la sequenza era diversa, ma simile a quella dell'osso del dito, indicando un tempo di divergenza di circa 7500 anni, e suggerendo che appartenesse ad un individuo differente della stessa popolazione. Nel 2011 un osso del dito di un piede è stato scoperto nello strato 11 della grotta, quindi contemporaneo all'osso del dito della mano. La caratterizzazione preliminare del DNA mitocondriale del midollo suggerisce che appartenesse ad un uomo di Neanderthal e non ad un Denisovano. La grotta Altaj contiene anche reperti ossei e strumenti di pietra fatti da esseri umani moderni e Pääbo ha commentato: "L'unico posto in cui siamo sicuri che tutte e tre le forme umane hanno vissuto anche se in diversi periodi temporali, è qui nella grotta Denisova". Ibridazione con Homo sapiens Studi genetici indicano che approssimativamente il 4% del DNA dell'Homo sapiens non africano è lo stesso trovato nell'Homo neanderthalensis suggerendo una origine comune.I test che mettano in comparazione il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti Homo sapiens come un ǃKung dal Sudafrica, un nigeriano, un francese, un Papua della Nuova Guinea, un abitante dell'isola di Bougainville e uno della stirpe Han, dimostrano che dal 4 al 6% del genoma deimelanesiani (rappresentato dagli uomini dell'isola di Bougainville), derivano dalla popolazione di Denisova. Questi geni sono stati verosimilmente introdotti durante la prima migrazione umana degli antenati dei melanesiani nel sud-est asiatico. Quindi, concludendo, è verosimile ipotizzare un'ibridazione tra Homo di Denisova e Homo sapiens, che ha interessato le popolazioni del sud-est asiatico antico e quelle, loro dirette discendenti, australiane. L'apporto genetico denisoviano alle altre popolazioni asiatiche è limitato e, come in quelle europee e amerindie, deriva in buona parte dall'ibridazione, avvenuta in precedenza, con i Neanderthal (che a loro volta si erano ibridati con i Denisova). Nel 2019, un team internazionale di ricercatori, dopo aver analizzato il genoma completo di 161 persone provenienti da 14 gruppi differenti in Indonesia e Papua Nuova Guinea, suggerisce l'ipotesi che un gruppo di denisoviani si sia ibridato tardivamente con le popolazioni locali diHomo sapiens circa 15.000 anni fa. Come affermato nello studio gli abitanti della Papua Nuova Guinea recano infatti tracce nel dna di due popolazioni denisoviane differenti, denominate D1 e D2, e divergenti tra loro di circa 283.000 anni. Mentre la seconda tipologia è molto più diffusa, la prima è identificabile unicamente negli abitanti dell'isola. Non tutto il mondo accademico tuttavia si è detto convinto delle conclusioni della ricerca. Un altro scenario ipotizzato prevede un primo incontro tra umani moderni e denisoviani. Dopo un'ibridazione iniziale, il gruppo si sarebbe separato portando con sé due differenti "set" di geni denisoviani. Infine, le due popolazioni sarebbero venute nuovamente a contatto, incrociando nuovamente il dna. Aspetto fisico Data l'estrema limitatezza dei reperti, ben poco si sa sulle caratteristiche fisiche di questi individui. Il sequenziamento del genoma estratto dalla falange ritrovata nel 2008 a Denisova (Siberia meridionale) ha permesso di definire che il soggetto esaminato, una femmina, avesse carnagione scura con occhi e capelli castani. Dalle ultime analisi del mtDNA e del DNA nucleare risulta che l'Uomo di Denisova si sarebbe separato dal comune antenato di Neanderthal e uomo moderno circa 1.000.000 di anni fa e che in seguito si sarebbe incrociato con l'Homo sapiensprogenitore dei moderni abitanti della Papua Nuova Guinea, con i quali condivide il 4-6% del genoma; provando così (come già con l'uomo di Neanderthal) l'Ipotesi multiregionale di interscambio genetico tra antichi e moderni Homo sapiens Analisi del DNA mitocondriale Il DNA mitocondriale (mtDNA) proveniente dall'osso del dito è diverso da quello degli esseri umani moderni per 385 basi (nucleotidi), su un totale di circa 16.500 basi presenti in un lfilamento del DNA mitocondriale, mentre la differenza tra gli esseri umani moderni ed i Neanderthal è di circa 202 basi. Considerando che la differenza tra scimpanzé e gli esseri umani moderni è di circa 1.462 paia di basi del DNA mitoconpdriale ciò suggerisce un tempo di divergenza di circa un milione di anni. L'mtDNA di un dente aveva una somiglianza elevata con quella dell'osso del dito, indicando che entrambi appartenevano alla stessa popolazione. È stata recuperata una sequenza di mtDNA su un secondo dente che ha mostrato un numero inaspettatamente elevato di differenze genetiche rispetto a quella riscontrata nell'altro dente e nel dito, suggerendo un elevato grado di diversità mtDNA. Questi due individui, rinvenuti nella stessa grotta, hanno mostrato una diversità tra loro maggiore di quella rilevata campionando gli uomini di Neanderthal di tutta l'Eurasia. Un tasso di diversità paragonabile a quello che distingue gli esseri umani moderni provenienti da diversi continenti Analisi del DNA nucleare Nello stesso studio del 2010, gli autori hanno effettuato l'isolamento e il sequenziamento del DNA nucleare dell'osso del dito del Denisova. Questo esemplare ha mostrato un insolito grado di conservazione del DNA e un basso livello di contaminazione. Sono stati in grado di raggiungere quasi il completo sequenziamento genomico, consentendo un confronto dettagliato con i Neanderthal e gli umani moderni. Da questa analisi hanno concluso, nonostante l 'apparente divergenza della loro sequenza mitocondriale, che gli uomini di Denisova e i Neanderthal hanno condiviso un ramo comune ancestrale che porta ai moderni esseri umani africani. Il tempo medio stimato di divergenza tra le sequenze dei denisoviani e dei Neanderthal è di circa 640 000 anni fa, mentre il tempo di divergenza tra le sequenze di ciascuno di essi e le sequenze degli africani moderni è di 804 000 anni fa. Ciò suggerisce che la divergenza dei risultati mitocondriali del Denisova derivi o dalla persistenza di un lignaggio epurato dagli altri rami attraverso deriva genetica oppure da un'introgressione di un lignaggio di un ominide più arcaico. Nel 2013, la sequenza di mtDNA prelevata dal femore di un Homo heidelbergensis di 400.000 anni fa proveniente dalla Grota Sima in Spagna è risultata essere simile a quella di Denisova. |
Post n°2274 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
L'acqua è sempre più scarsa nel mondo e aumentano i dissalatori e il recuperoI costi della dissalazione sono in calo. La polemica sulla salamoia e i consumi energetici internazionale Action4Good, "Creare soluzioni resilienti ai bisogni idrici", organizzata a Santa Margherita Ligure dal 12 al 14 maggio dall'International Desalination Association (IDA), con il sostegno di Fao, European Desalination Society, Global Clean Water Desalination Alliance e Global Solar Council, e il patrocinio di dell'amministrazione di centro.destra di Genova e dei Rotary Club di La Spezia e Lunigiana, sono state esaminate le questioni energetiche e ambientali legate alla desalinizzazione e «Il ruolo della desalinizzazione e del trattamento avanzato delle acque nella creazione di un mondo più sostenibile». la segretaria generale dell'Ida, Shannon McCarthy, ha sottolineato che «Ida supporta un obiettivo H20-C02 e sostiene il ruolo fondamentale che svolgono l'efficienza energetica, l'energia rinnovabile e la minimizzazione dell'impatto ambientale nei sistemi di desalinizzazione e riutilizzo dell'acqua nel raggiungimento di questo obiettivo, per garantire che la crescita nel settore della desalinizzazione e del riutilizzo dell'acqua vada di pari passo con la responsabilità sociale». Al centro della discussione a Santa Margherita ci sono stati i dati dell'IDA Water Security Handbook, pubblicato a gennaio dall'l'International desalination association e da Global Water Intelligence (Gwi) che rappresenta l'ultima e più completa del mercato della desalinizzazione e del riutilizzo dell'acqua e dal quale emerge che, dopo 3 anni i n cui il mercato globale della desalinizzazione è rimasto stabile, si prevede che il 2019 vedrà la maggiore crescita della desalinizzazione dell'acqua marina dalla fine degli anni 2000. Attualmente nel mondo si riutilizzano più di 200 milioni di acqua al giorno e ci sono più di 20.000 impianti di dissalazione, A trainare la crescita della dissalazione nel 2019 sarà il Medio Oriente dove, nella prima metà del 2018, la dissalazione dell'acqua è aumentata del 28% e sono annunciati importanti progetti. Aumentano anche i contratti di dissalazione negli Usa, mentre la dissalazione di acqua a bassa concentrazione salina rappresenta ormai il 25% del totale, Inoltre, negli ultimi anni anche la dissalazione per uso industriale ha avuto un aumento considerevole, con un aumento del 21% tra il 2016 e il 2017, dovuto soprattutto all'incremento della dissalazione nell'industria petrolifera e gasiera, per le miniere per l'elettronica. Il mercato globale continua ad essere dominato (90%) dalle tecnologie di dissalazione a membrana, con in testa l'osmosi inversa che ha conquistato anche i Paesi del Medio Oriente dove, tradizionalmente, si utilizzavano le tecnologie a evaporazione che creano più salamoia. Chi dice che le grandi imprese della dissalazione non vogliono sentir parlare di riutilizzo dell'acqua sbaglia: spesso si tratta delle stesse imprese e infatti L'IDA Water Security Handbook sottolinea con grande evidenza che «Il riutilizzo di acqua come soluzione ai crescenti problemi idrici nel mondo si è incrementato significativamente negli ultimi anni» e fa l'esempio di Città del Capo in Sudafrica e della California che stanno spingendo per il riutilizzo delle acque reflue, mentre la Cina punta molto su riutilizzo delle acque industriali, che rappresentano il 49% della capacità contrattata tra il 2010 e il 2017, anche India e Taiwan stanno incentivando fortemente questo settore. Gli Usa sono il secondo più grande mercato del mondo (10% del totale) per il riutilizzo dell'acqua, mentre anche in Messico, Perù ed Egitto nell'ultimo anno c'è stata una bona crescita. In Europa il Paese leader nel riutilizzo dell''acqua è la Spagna e con la nuova regolamentazione per l'utilizzo agricolo approvata recentemente dal Parlamento europeo, nei prossimi anni questo settore nell'Ue potrebbe crescere vertiginosamente, passando dagli attuali 3 milioni di m3 al giorno fino a 18 milioni m3/giorno. La Spagna è anche leader europeo (e uno dei primi al mondo) per la dissalazione e ha costruito e sta costruendo diversi impianti all'estero: 8 delle 20 maggiori imprese a livello mondiale sono spagnole. Il presidente Ida, Miguel Angel Sanz, ha sot- tolineato che «L'Ida ha sempre appoggiato soluzioni per la scarsità idrica, sostenendo lo sviluppo della dissalazione e l'industria del riutilizzo dell'acqua per garantire acqua e risorse naturali sostenibili. Negli ultimi decenni, il nostro settore ha raggiunto un'importante riduzione dei costi dell'acqua non convenzionale e una maggiore qualità per garantire la sostenibilità idrica, Dato che il cambiamento climatico continua ad avere un impatto sul mondo, insieme alla crescita industriale e demografica, la domanda di acqua potabile aumenta. La desalinizzazione e riutilizzo dell'acqua, soluzioni di approvvigionamento idrico non convenzionali e rispettose dell'ambiente, sono in linea con l'economia circolare dell'acqua e offrono soluzioni per la scarsità idrica». La Shannon ha aggiunto: «I trend che stiamo osservando indicano un ampio riconoscimento del fatto che queste soluzioni avanzate di trattamento delle acque sono essenziali per la salute e il benessere delle persone e delle economie di tutto il mondo, sia ora che in futuro». Secondo Christopher Gasson di Gwi, «Il grande successo dello scorso anno è stato il costo della dissalazione. I recenti bandi di gara in Arabia Saudita e Abu Dhabi l'hanno visto scendere per la prima volta sotto gli 0,50 dollari/m3. Dopo un decennio in cui i l prezzo è salito verso l'alto a causa degli alti costi dei materiali e dei maggiori costi energetici, questa è una buona notizia. In effetti, ci aspettiamo che il 2019 sia l'anno migliore in assoluto nel mercato della desalinizzazione». Ma le critiche non mancano: come fa notare Bruce Stanley di Bloomberg sul Washington Post «E' una crudele ironia per il pianeta blu: la maggior parte della Terra è inondata negli oceani, eppure l'acqua marina è imbevibile. Gli sforzi su vasta scala per rimuovere il sale dall'acqua di mare - il processo noto come desaliniz- zazione - risalgono agli anni '50 e oggi quasi 20.000 strutture dalla Cina al Messico stanno rendendo potabile l'acqua salata per sostenere la crescita delle popolazioni. Ma questa alchimia moderna è sotto esame perché i critici si chiedono se i benefici della desalinizzazione giustificano il suo potenziale danno agli ambienti marini e il contributo al riscaldamento globale». Le critiche riguardano soprattutto due questioni: la salamoia e i consumi energetici. Ma è soprattutto la salamoia a preoccupare, in particolare dopo la pubblicazione dello studio "The state of desalination and brine production: A global outlook", pubblicato su Science of the Total Environment da un team di ricercatori dell'United Nations University (UNU - Canada), dell'università olandese di Wageningen e del Gwangju Institute of Science and Technology (Corea del sud) che accusa - soprattutto Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar - di inquinare il mare con un concentrato salato che può contenere residui di sostanze chimiche anti-incrostanti e anti-fouling utilizzate negli impianti. Ida ha risposto che lo studio non fa differenza tra tecnologie termiche e a membrane e che «Ha mostrato una mancanza di conoscenza reale. Lo studio è l'opinione di alcune persone che lavorano in un'università e non un'opinione ufficiale delle Nazioni Unite sulla desalinizzazione». Va anche ricordato che lo stesso studio non mette in dubbio la necessità di realizzare dissalatori dove ce n'è bisogno e di estendere la tecnologia ai Paesi i via di sviluppo. Lo studio UNU è stato anche analizzato (e smontato) dagli ingegneri e dagli scienziati dell'Asociación Española de Desalación y Reutilización (AEDyR) che hanno ricordato che «Tutti i processi di dissalazione separano l'acqua in entrata (marina o salmastra) in due flussi diversi: uno di acqua potabile (l'acqua dissalata prodotta) e un flusso conosciuto come salamoia (chiamato anche concentrato o rifiuto) e che è la stessa acqua in ingresso con una maggiore concentrazione di sali, essendo questi diluiti in una minore quantità d'acqua. La salinità della salamoia dipende dalla concentrazione di sale che ha l'acqua in entrata. La percentuale di acqua dissalata e di salamoia è differente in ogni impianto di dissalazione, poiché dipende dai livelli di conversione dell'acqua che permettono l'efficienza del processo di dissalazione di ogni impianto. Le differenti tecniche di dissalazione sono associate a diversi rapporti di conversione dell'acqua e, a questo proposito, i processi a membrane (osmosi inversa, nanofiltrazione e elettrodialisi, con l'osmosi inversa che è la più utilizzata nella desalinizzazione in Spagna e globalmente) sono associati a rapporti di conversione molto più elevati rispetto ai processi ad evaporazione (MSF, MES)». Anche la qualità dell'acqua in entrata è importante per determinare i rapporti di conversione ed è molto più complesso e costoso gestire impianti di dissalazione con un elevato rapporto di conversione, quando la salinità dell'acqua in ingresso è maggiore. La salinità media dell'acqua di mare è compresa tra i 35 e i 45 grammi per litro (l'acqua consumabile da un essere umano varia da 3 a 25 grammi di sale per litro), ma all'AEDyR sottolineano che varia secondo il mare, la zona e la profondità alla quale viene presa e che quella del Mediterraneo - con 36 - 39 g/l - è l'acqua "ideale" per la dissalazione- Quella più salata (se si escludono mari interni come il Mar Morto e il Mar Caspio ) è quella del Mar Rosso (42 - 46 g/l), seguita da quella del Golfo Persico (40 - 44 g/l). Il Mar dei Caraibi ha una salinità simile a quella del Mediterraneo (34 - 38 g/l), seguito dall'Oceano indiano (33 - 37 g/l) e dagli oceani Pacifico e Atlantico (33 - 36 g/l), mentre il Mar Baltico tecnicamente è un mare salmastro con una salinità di appena 6 - 18 g/l. Ma quello che sottolinea maggiormente AEDyR è che «Nonostante nella salinità del mare possano esserci degli squilibri locali, è importante sottolineare che, a livello globale, il bilancio marino del mare è costante». Inoltre, la salinità del mare dipende da diversi fattori: l'evaporazione superficiale provocata dall'energia solare (e quindi può essere diversa secondo le stagioni); nelle zone tropicali, che sono più calde, c'è una maggiore salinità che in mari come il Mediterraneo e quelli delle latitudini più elevate. Ad abbassare la salinità è anche la presenza di foci di fiumi (ma lì di solito non servono dissalatori). In profondità, dove le temperature sono costanti e più basse, la salinità è inferiore. Le correnti influenzano poco la salinità del mare. Per questo è molto più costoso e complesso gestire dissalatori in mari come il Mar Rosso e il Golfo Persico dove la salinità è più alta e i prelievi e gli scarichi avvengono su bassi fondali. In mare sono stati identificati 70 elementi chimici, la maggioranza in quantità estremamente piccole. I più abbondanti sono: cloruro, sodio, magnesio, zolfo, calcio, potassio, bicarbonato, bromo, stronzio, boro e fluoro. I ricercatori spagnoli fanno notare che «Insieme, questi sali costituiscono più del 99% della massa di soluti dissolti nell'acqua di mare. Tra loro il cloruro e il sodio (che formano il cloruro di odio, cioè i componenti del sale da tavola comune) costituiscono più dell'85% del totale dei sali dissolti nell'acqua marina. Le quantità dei restanti elementi sono minoritarie, dato che sono in concentrazioni molto piccole, con percentuali inferiori all'1%. Anche alcuni di loro, come fosforo, ferro, manganese, iodio e rame sono in concentrazioni costanti, mentre, al contrario, titanio, cadmio, cromo, antimonio, germanio, tallio e cloro hanno concentrazioni variabili, lo stesso avviene con i gas (ossigeno, anidride carbonica e azoto) disciolti nelle acque marine, in quanto la loro presenza è legata ad alterazioni da parte di organismi biologici o reazioni fisico-chimiche. Anche se sembra ovvio, è importante sottolineare che l'acqua di mare non è semplicemente una soluzione di sali e gas disciolti, ma che gli organismi che vivono nel mare esercitano un'influenza sulla composizione delle acque. Per esempio, i molluschi estraggono calcio dall'acqua marina per fabbricare le loro conchiglie e corpi e le spugne e alcuni tipi di alghe marine eliminano lo iodio del mare». Rispondendo ancora allo studio dell'UNU, l'AEDyR spiega che «Il progetto di ogni impianto di dissalazione è unico. Non esistono due impianti uguali, poiché è necessario adattare il suo design alle specifiche condizioni locali. E lo scarico della salamoia è specificamente progettato per ridurre al minimo l'impatto di ogni impianto date quelle specifiche condizioni locali. I sistemi di scarico della salamoia sono progettati attraverso la costruzione di emissari con diffusori e una precedente diluizione che fanno in modo che la salamoia, quando viene a contatto con il mare e le correnti marine, si dissolve rapidamente. Tutti gli impianti di dissalazione sono soggetti a periodici studi di fattibilità e impatto ambientale approvati dall'autorità competente, per analizzare in profondità il possibile impatto della salamoia. Vi sono numerosi studi nazionali e internazionali che confermano l'innocuità del rigetto della salamoia nell'ambiente marino quando lo scarico viene è effettuata correttamente. La Spagna ha guidato la protezione ambientale rispetto alla salamoia con progetti di ricerca del Cedex e di diverse università, dando vita a raccomandazioni per progetti e piani di monitoraggio ambientale negli impianti di desalinizzazione che sono stati adottati anche da altri Paesi». E i ricercatori spagnoli evidenziano che secondo lo stesso studio UNU esistono nuove tecniche pe trattare e recuperare i componenti della salamoia: «La ricerca di nuove soluzioni per migliorare l'efficienza delle tecniche di dissalazione e l'uso di nuove tecniche per il trattamento delle salamoie interessate dallo studio a cui facciamo riferimento si stanno sviluppando in diversi progetti in Spagna e nel resto del mondo, quindi non è escluso che nei prossimi anni ci saranno degli sviluppi in questi settori. Secondo i dati dello studio, prendendo in considera- zione l'acqua desalinizzata prodotta e la salamoia sversata a seconda delle aree geografiche, vediamo che, a livello globale, i tassi di recupero (rapporti di conversione) sono circa dello 0,50. Ciò si verifica in tutte le aree geografiche ad eccezione del Medio Oriente, che è, secondo lo studio, il luogo in cui viene prodotta la percentuale più elevata di salamoia globale (70,3%). Senza entrare in valutazioni su queste cifre, si fa notare che questa area geografica è quella dove si concentrano la maggior parte degli impianti di dissalazione a evaporazione di grandi dimensioni (principalmente MSF, impianti di dissalazione che in Spagna non costruiamo più a partire dagli anni '90), che hanno rapporti di conversione nella produzione di acqua inferiore all'osmosi inversa e quindi maggiori rese in salamoia. Va rilevato che, negli ultimi anni, l'osmosi inversa è la tecnologia più applicata nei nuovi impianti nella regione, per cui si prevede che questa tendenza sarà invertita nel corso del tempo verso gli indici globali più coerenti. Sebbene questi squilibri locali possano causare preoccupazione, è necessario chiarire che l'equilibrio salino complessivo del mare è costante. L'acqua desalinizzata dopo il suo utilizzo viene nuovamente trattata negli impianti di trattamento delle acque reflue e torna direttamente al mare attraverso gli scarichi». Stanley sul Washington Post fa notare che, nonostante i dubbi di qualcuno, «La necessità di rendere potabile l'acqua di mare non mostra segni di rallentamento. Con gli attuali tassi di consumo, il più grande emirato degli Emirati Arabi Uniti potrebbe esaurire le scorte di acque sotterranee naturali "nel giro di pochi decenni", ha affermato l' Abu Dhabi Environment Agency in un rapporto del 2017. Tuttavia, l'aumento della domanda di risorse idriche limitate sta stimolando nuove idee per la produzione alimentare tanto quanto per la desalinizzazione. L'International Center for Biosaline Agriculture di Dubai ricicla la salamoia per irrigare le piante tolleranti al sale come la salicornia, che può essere mangiata o utilizzata per i biocarburanti. L'istituto di ricerca coltiva anche colture alimentari come la quinoa che prosperano in terreni salati e desertici». (e il maggior costo dei dissalatori), i consumi energetici, le cose stanno migliorando: attualmente un impianto di dissalazione a osmosi inversa consuma circa 3 kWh/m3, i primi impianti a evaporazione consumavano più di 50 kWh/m3. I ricercatori spagnoli spiegano ancora: « Per mettere questa cifra in prospettiva, se consideriamo che il consumo energetico di una famiglia media in Spagna è di 13.141 kWh/anno e che il consumo medio annuale pro-capite è di 150 litri/giorno, prendendo come riferimento che il consumo di energia medio per produrre 1 m3 di acqua desalinizzata è 3kWh/m3, con il consumo energetico di una famiglia media si è in grado di rifornire 80 persone con acqua di mare desalinizzata per tutto l'anno». La maggiore efficienza energetica dei dissalatori è avvenuta grazie a interventi che hanno riguardato l'intero processo di dissalazione: tubazioni, pompe, membrane, recupero di energia, utilizzo di energie rinnovabili e recupero dei prodotti chimici. La percentuale più elevata di consumi energetici di un dissalatore viene dalle pompe ad alta e bassa pressione utilizzate nelle diverse fasi del processo di dissalazione. Le pompe a bassa pressione servono soprattutto a caricare e scaricare l'acqua e a seconda delle prese (costiere, in pozzi o con condotte sottomarine) e il consumo di energia varia notevolmente da un impianto all'altro. l'acqua di mare attraverso le membrane con una pres- sione di circa 65-70 bar. Per sfruttare la pressione della salamoia in uscita, che ha la stessa pressione (meno le perdite di carico stimate in circa 3 bar), sono stati progettati sistemi di recupero energetico e dalle iniziali pompe invertite, mosse dalla pressione e dalla portata della salamoia, si è passati prima alle turbine Pelton che hano maggiori prestazioni di recupero e ora alle camere di interscambio della pressione, con prestazioni di recupero ancora migliori, che sono diventate il nuovo standard dei moderni dissalatori. I ricercatori AEDyR concludono: «Attualmente, le possibilità di migliorare le prestazioni delle apparecchiature e dei circuiti idraulici della desalinizzazione ad osmosi inversa sono molto limitate, poiché i limiti termodinamici sono stati quasi raggiunti, quindi il prossimo passo è ridurre significativamente il consumo energetico di un impianto a osmosi inversa sta nell'abbassare le pressioni di lavoro, vale a dire trovare membrane che consentano il funzionamento a pressioni più basse con una produzione uguale o superiore o un tipo di membrana che possa funzionare con pretrattamenti meno esigenti di quelli attuali». |
Post n°2273 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli
Fonte: Le Scienze uccelli viventi e all'analisi del cervello di alcuni esemplari di dinosauri, gli scienziati hanno scoperto che T. rex era dotato di un olfatto simile a quello del gatto domestico di Michael Greshko Tyrannosaurus rex era probabilmente dotato di uno spiccato senso dell'olfatto, leggermente inferiore a quello dell'attuale gatto domestico. Illustrazione di Roger Hall, Alamy Secondo un nuovo studio, il predatore Tyrannosaurus rex e i gruppi a lui imparentati erano dotati di uno spiccato senso dell'olfatto, che superava quello di tutti gli altri dinosauri estinti. Lo studio, pubblicato su Proceedings of the Royal Society B, si propone di verificare a grandi linee la quantità di geni coinvolti nelle abilità olfattive di T. rex, decine di milioni di anni dopo il decadimento del suo DNA. forte senso dell'olfatto non è affatto recente. Nel 2008, per esempio, i ricercatori hanno dimostrato che in T. rex e nei gruppi imparentati ampie porzioni del cervello venivano utilizzate per elaborare gli odori. Ma quello appena pubblicato è soltanto l'ultimo studio fra i tanti mirati a mettere in relazione il DNA degli animali attuali con le loro abilità corporee e sensoriali, con l'obiettivo di comprendere in modo più approfondito le capacità e i comportamenti dei loro antenati che si estinsero molto tempo prima. Graham Hughes, biologo computazionale dello University College Dublin, responsabile dello studio, in riferimento all'intenzione degli scienziati del film di ricostruire il DNA dei dinosauri. "Si sta cercando di comprendere in che modo l'evoluzione sensoriale abbia giocato un ruolo fondamentale, a prescindere dal posizionamento all'apice della catena alimentare". un nuovo contributo a studi di questo genere, in cui le persone utilizzano le informazioni genetiche e morfologiche per dedurre le funzioni sensoriali e i ruoli ecologici delle specie estinte", dichiara Deborah Bird, ricercatrice post-doc dell'Università della California, Los Angeles, che ha utilizzato tecniche simili per ricostruire il repertorio olfattivo di Smilodon, il gatto dai denti a sciabola. allo University College Dublin, desideravano da sempre studiare i sensi nei dinosauri e si sono concentrati in particolare sull'olfatto. Tutti si chiedono che aspetto avesse, ma che profumo si sentiva?", si chiede Hughes. sulla forma del cervello dei dinosauri, che può preservarsi parzialmente grazie al residuo dell'impronta sulla superficie interna di crani in buono stato di conservazione. Riuscire a conoscere i dettagli potrebbe sembrare un compito arduo, ma per fortuna i ricercatori hanno potuto fare affidamento su animali tuttora esistenti: gli uccelli, discendenti dei dinosauri. recettori olfattivi - proteine che si legano con particolari molecole olfattive - tendono ad avere bulbi olfattivi (vale a dire le regioni del cervello che elaborano gli odori) sproporzionatamente grandi. Così Hughes e Finarelli hanno passato al setaccio la letteratura scientifica alla ricerca di informazioni riguardanti le dimensioni del bulbo olfattivo e hanno misurato le proporzioni delle dimensioni del cervello di 42 uccelli viventi, due uccelli estinti, l'alligatore del Mississippi e 28 dinosauri non aviani. Inoltre, hanno individuato il DNA di molti uccelli attuali e, successivamente, hanno incrociato questi dati con quelli provenienti da uno studio pubblicato in precedenza, allo scopo di costruire un nuovo database dei geni recettori olfattivi negli animali viventi. risultante dallo studio degli animali viventi ai dinosauri hanno scoperto che Tyrannosaurus rex aveva probabilmente tra 620 e 645 geni che codificavano i recettori olfattivi, una quantità di geni leggermente inferiore a quella presente nei polli e nei gatti domestici. E anche altri dinosauri predatori, come Albertosaurus, avevano una grande quantità di geni recettori olfattivi. Gli animali si servono dell'olfatto per riconoscere i loro parenti, marcare il territorio, attrarre gli individui dell'altro sesso e individuare i predatori. Tra tutti i vertebrati viventi, l'elefante detiene il record di geni recettori olfattivi: l'animale erbivoro possiede infatti circa 2.500 di questi geni. Con un olfatto così sviluppato, gli elefanti riescono a percepire la quantità di cibo soltanto grazie all'odore. dinosauri erbivori facevano un maggiore affidamento sull'odore rispetto ad alcuni predatori. In uno degli erbivori analizzati da Hughes e Finarelli, il teropode Erlikosaurus, la presenza di geni recettori olfattivi stimata era maggiore rispetto a Velociraptor e a molti dei gruppi con lui imparentati. Nonostante ciò, T. rex e Albertosaurus continuano a detenere un'abilità olfattiva senza pari. di cosa, esattamente, T. rex e i suoi parenti annusas- sero nell'Era dei dinosauri. I dati esistenti consentono a Hughes e Finarelli di individuare alcuni odori presenti nel repertorio olfattivo dei dinosauri, come il sangue e la vegetazione. Ma interi gruppi di geni recettori olfattivi non sono ancora stati ricondotti a particolari odori. funzionamento dell'olfatto, ma ne abbiamo così poche sulla tipologia di proteine che si lega a particolari molecole olfattive", afferma Hughes. "È possibile che vi siano aziende che producono profumi a conoscenza di tali informazioni. Ma dal punto di vista scientifico, non abbiamo ancora delle risposte: è una delle grandi sfide della scienza". bero essere in grado di individuare i fattori che hanno determinato l'evoluzione sensoriale nel tempo; per esempio, l'adattamento di alcuni mammiferi alla vita acquatica avrebbe determinato l'indebolimento dell'olfatto nei discendenti. Hughes ritiene che un simile studio potrebbe prendere in considerazione i dinosauri non aviani. è stato incredibile poter dare il mio modesto contributo alla conoscenza dei dinosauri". |
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