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Messaggi del 04/07/2019

Onde gravitazionali, fuoco nucleare, rocce e amore

Post n°2276 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

 


EVOLUZIONE MICROBIOLOGIA FISICA TEORICA
ARCHEOLOGIA POLITICHE DELLA RICERCA

08 maggio 2019
Onde gravitazionali, fuoco nucleare, rocce e amore
di Caleb A. Scharf / Scientific American

Un giallo di cinque miliardi di anni fa rivela

due nuovi attori che hanno preso parte alle

nostre origini: gran parte degli elementi

pesanti presenti nel sistema solare non

derivano nelle esplosioni di supernova,

ma dalla fusione di due stelle di neutroni

avvenuta nelle vicinanze del nostro Sole


ASTROFISICA

ONDE GRAVITAZIONALI

COSMOLOGIA

Il vecchio detto "siamo polvere di stelle" è

così penetrato nella nostra mente da rischiare

di perdere parte della sua poesia.

Sì, elementi più pesanti dell'idrogeno e dell'elio

presenti nell'ambiente terrestre sono stati

forgiati da vari antichi cicli di vita di generazioni

di stelle.

Molte di queste fornaci cosmiche hanno espulso

il loro contenuto nel vuoto, inquinando la nostra

galassia con tracce dei nuclei atomici che

chiamiamo ossigeno, carbonio, ferro e altro

ancora.

E nel corso degli eoni la gravità ha provocato

la ricondensazione di questa materia interstellare.

Come risultato, gli elementi sono stati separati,

permettendo alla materia stellare di diventare

straordinariamente concentrata, creando nuove

stelle, pianeti, e gli ammassi di nuclei pesanti

che costituiscono gli esseri umani e la loro

assurda complessità.

Tutto ciò è fantastico, ma ripetete la storia un

gran numero di volte e comincerà a suonare un

po' banale.

Una parte della ragione è che la narrazione può

diventare vaga - dal parlare in termini generali

di generazioni precedenti di stelle ormai invisibili

fino alle nostre ampie descrizioni della natura della

materia interstellare.

È un po' come quando un parente anziano vi

racconta dell'albero genealogico della vostra

famiglia fino alla quinta generazione.

Ci può essere poco con cui identificarsi, anche

se ci piacerebbe farlo.

La storia diventa molto più interessante quando

si guarda più da vicino.

Per prima cosa, non tutti gli elementi sono prodotti

allo stesso modo.

Forse l'esempio più interessante è quello degli

elementi del cosiddetto "processo r".


All'interno delle stelle puà avvenire la nucleosintesi

di alcuni elementi, ma per quella degli elementi più

pesanti del ferro sono necessari processi ancora

più energetici. (© Science Photo Library / AGF)

Questi elementi hanno nuclei più pesanti del ferro

e sono costruiti da un meccanismo chiamato cattura

rapida dei neutroni.

Come suggerisce il nome, c'è bisogno di qualcosa

per catturare i neutroni, sotto forma di nuclei "seme",

e c'è bisogno di un tremendo flusso di neutroni,

che sia abbastanza veloce da andare a formare

dei nuclei al di là di qualsiasi configurazione intermedia

altamente instabile.

Ma dove si trovano ambienti di questo tipo?

Nel 2017 gli osservatori delle onde gravitazionali LIGO

e Virgo hanno fatto scalpore rilevando la firma di una

fusione di due stelle di neutroni.

Due sfere di massa stellare di materiale nucleare hanno

spiraleggiato una verso l'altra con un urlo di oscillazioni

spazio-temporali di intensità crescente.

A differenza della fusione di un buco nero binario,

quell'evento ha prodotto una quantità prodigiosa

di radiazioni elettromagnetiche nella cosiddetta

kilonova (letteralmente, mille volte l'emissione di

una normale stella nova).

Lo studio telescopico della kilonova ha fornito un

sostegno convincente all'idea che la fusone di

stelle di neutroni rappresenti un paradiso per il

processo r.

Ciò suggerisce che questi eventi cataclismatici

giochino un ruolo importante nel rifornire il nostro

paesaggio galattico di alcuni degli elementi più pesanti.

Dall'oro, platino e iridio al torio e all'uranio, fino a

elementi di breve durata come il plutonio.

Ora, una nuova ricerca di Bartos e Marka, pubblicata

nei giorni scorsi su "Nature", offre una visione creativa

e piuttosto sorprendente delle origini degli elementi

del processo r nel nostro sistema solare.

I ricercatori hanno combinato due analisi chiave.

Una quella dei dati sui meteoriti che conservano le

prove del mix di elementi nel nostro sistema solare

in formazione, circa 4,6 miliardi di anni fa.

L'altra è un ingegnoso modello statistico della storia

delle fusioni di stelle di neutroni della galassia.

La ricerca indica che all'alba della nostra storia

cosmica locale si è verificata una collisione di stelle

di neutroni molto vicina.

Tracce di questo evento unico sembrano essere

presenti nei dettagli dei radioisotopi dovuti al processo

r che hanno irrorato il nostro sistema in formazione

dopo la collisione delle stelle di neutroni.

Raggiungere questa conclusione richiede una certa

flessibilità mentale e un duro lavoro.

Le fusioni di stelle di neutroni sono cosmicamente

rare nella Via Lattea, variando tra uno e cento eventi

per milione di anni in tutta la sua estensione.

Alcuni elementi del processo r, come gli attinidi (

tra cui curio-247, plutonio-244 e iodio-129), hanno

emivite relativamente brevi, nell'ordine delle decine

di milioni di anni, ma hanno lasciato tracce specifiche

nel materiale meteoritico dell'antico sistema solare,

che ci permettono di misurare le loro abbondanze

originali.

Quindi, la quantità di questi elementi che esisteva

durante la finestra di tempo in cui si stava formando

il nostro sistema solare offre uno strumento per

valutare non solo l'epoca in cui sono stati forgiati

quegli elementi, ma anche la distanza a cui doveva

trovarsi quella fucina.

Costruendo una simulazione delle fusioni di stelle

di neutroni nella nostra galassia, nel corso della sua

storia fino alla formazione del nostro sistema solare

(nei circa 9 miliardi di anni di esistenza della Via Lattea),

Bartos e Marka hanno potuto esaminare quali scenari

potrebbero aver prodotto la miscela di attinidi ricavata

dalle analisi meteoritiche.


Raffigurazione schematica della rilevazione delle onde

gravitazionali da parte di LIGO, in primo piano a

destra (Science Photo Library / AGF)
Dal risultato dell'analisi sembra che ci sia stata una

sola kilonova prodotta da una fusione di stelle di

neutroni che si darebbe verificata entro 80 milioni di

anni (più o meno 40) dalla formazione del sistema solare

e a circa mille anni luce di distanza.

I ricercatori stimano che un evento di kilonova così

vicino avrebbe occultato tutto il cielo notturno per

oltre un giorno.

Quattro miliardi e mezzo di anni fa, quando gli

elementi appena generati dalla fusione furono

proiettati all'esterno e si diffusero nello spazio

interstellare, circa 10^20 chilogrammi di essi finirono

per depositarsi nel nostro giovane sistema.

Da lì si può capire quanta parte del deposito

terrestre di elementi del processo r proveniva da

quell'unico evento.

Per esempio, l'equivalente di un ciglio circa dello iodio

nel vostro corpo sarà arrivato da quelle stelle di neutroni.

Un'automobile Tesla Model 3 contiene un totale

di circa 5 grammi dei nuclei generati da questa

specifica fusione di stelle di neutroni.

Un moderno reattore a fissione, che usa uranio

arricchito, conterrà circa 200 chilogrammi di materiale

che è stato prodotto in quell'unica esplosione cosmica.

Cosa significativa, lo studio sembra anche escludere

che fra i produttori primari di elementi di processo

r in tutta la galassia vi siano stati eventi come le

supernove a collasso nucleare, legate all'implosione

di stelle massicce.

Quegli eventi, che si verificano centinaia o addirittura

migliaia di volte più frequentemente delle fusioni di

stelle di neutroni, non sembrano corrispondere ai dati.

Nel complesso, sembra che possiamo aggiornare

il racconto delle nostre origini dalla "polvere di stelle".

Non solo siamo in debito con una fisica ancora più

esotica ed estrema di quanto forse immaginassimo,

ma ora dobbiamo collocare sull'albero genealogico

due membri molto specifici della nostra tribù ancestrale:

una coppia di stelle di neutroni amanti, il cui abbraccio

è stato letteralmente infuocato.
----------------
L'autore
Caleb A. Scharf è direttore del Centro di astrobiologia

della Columbia University. E' autore e coautore di

oltre 100 articoli di ricerca in astronomia e astrofisica.

Nel 2012 ha vinto il premio Chambliss dell'AAS.

Per "Le Scienze" ha scritto L'universo in scala, (In)

significanza cosmica, La generosità dei buchi neri.

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L'originale di questo articolo è stato pubblicato su

"Scientific American" il 1° maggio 2019. Traduzione

ed editing a cura di Le Scienze.

Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati.)

 
 
 

Homo di Denisova

Post n°2275 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Internet

Homo di Denisova

.

Ingresso della grotta luogo di ritrovamento

dei resti dell'Homo di Denisova

L'Homo di Denisova o donna X è il nome dato

ad un ominide i cui scarsi resti sono stati ritrovati

nei Monti Altaj in Siberia.

La scoperta è stata annunciata nel marzo 2010,

quando al termine della completa analisi del DNA

mitocondriale (mtDNA) è stato ipotizzato che

possa trattarsi di una nuova specie.

Questo esemplare di ominide è vissuto in un

periodo compreso tra 70.000 e 40.000 anni fa 

in aree popolate principalmente da sapiens e in

parte da neanderthal; ciononostante, la sua

origine e la sua migrazione apparirebbero distinte

da quelle delle altre due specie, e il mtDNA del 

Denisovarisulterebbe differente dai mtDNA di H.

neanderthalensis e H. sapiens

L'uomo di Denisova è strettamente imparentato

con l'uomo di Neanderthal: le due specie si

sarebbero separate circa 300.000 anni or sono.

Scoperta

Un team di scienziati dell'Istituto Max Planck 

di antropologia di Lipsia guidati da Svante Pääbo

 sequenziò il DNA mitocondriale (che si eredita

solo per linea materna), estratto dal frammento

osseo di un dito mignolo di un giovane individuo

di età stimata tra i 5 e i 7 anni e di sesso incerto

nonostante gli fosse stato attribuito il soprannome

di donna X.

Il reperto venne alla luce nel 2008 nelle grotte di

 Denisova sui Monti Altaj in Siberia.

Nello stesso strato di terreno apparvero piccoli oggetti

lavorati riconducibili all'Homo di Denisova.

L'analisi del mtDNA ha inoltre suggerito che

questa nuova specie di ominidi sia il risultato di

una migrazione precoce dall'Africa, distinta dalla

successiva migrazione dall'Africa associata a

uomini di Neanderthal e umani moderni, ma

anche distinta dal precedente esodo africano

di Homo erectus.Pääbo ha rilevato l'esistenza

di questo ramo lontano che crea un quadro

molto più complesso del genere umano durante

il tardo Pleistocene.

Nel 2010, un secondo documento del gruppo

di Svante Pääbo ha riferito di una prima scoperta

del 2000, di un terzo molare superiore di un

giovane adulto, risalente a circa lo stesso periodo

(il dito era nel livello 11 della sequenza della grotta,

il dente nel livello 11.1).

Il dente differiva in diversi aspetti da quelli di

Neanderthal pur avendo caratteristiche arcaiche,

simili ai denti dell'Homo erectus.

Il gruppo eseguì nuovamente l'analisi del DNA

mitocondriale sul dente e rilevò che la sequenza

era diversa, ma simile a quella dell'osso del dito,

indicando un tempo di divergenza di circa 7500

anni, e suggerendo che appartenesse ad un

individuo differente della stessa popolazione.

Nel 2011 un osso del dito di un piede è stato

scoperto nello strato 11 della grotta, quindi

contemporaneo all'osso del dito della mano.

La caratterizzazione preliminare del DNA

mitocondriale del midollo suggerisce che appartenesse

ad un uomo di Neanderthal e non ad un Denisovano.

La grotta Altaj contiene anche reperti ossei e strumenti

di pietra fatti da esseri umani moderni e Pääbo ha

commentato: "L'unico posto in cui siamo sicuri che

tutte e tre le forme umane hanno vissuto anche se

in diversi periodi temporali, è qui nella grotta Denisova".

Ibridazione con Homo sapiens

Studi genetici indicano che approssimativamente il

4% del DNA dell'Homo sapiens non africano è lo

stesso trovato nell'Homo neanderthalensis suggerendo

una origine comune.I test che mettano in comparazione

il genoma dell'Homo di Denisova con quello di 6 differenti 

Homo sapiens come un ǃKung dal Sudafrica, un

nigeriano, un francese, un Papua della Nuova

Guinea, un abitante dell'isola di Bougainville e

uno della stirpe Han, dimostrano che dal 4 al

6% del genoma deimelanesiani (rappresentato

dagli uomini dell'isola di Bougainville), derivano

dalla popolazione di Denisova.

Questi geni sono stati verosimilmente introdotti

durante la prima migrazione umana degli antenati

dei melanesiani nel sud-est asiatico.

Quindi, concludendo, è verosimile ipotizzare

un'ibridazione tra Homo di Denisova e Homo sapiens,

che ha interessato le popolazioni del sud-est asiatico

antico e quelle, loro dirette discendenti, australiane.

L'apporto genetico denisoviano alle altre popolazioni

asiatiche è limitato e, come in quelle europee e

amerindie, deriva in buona parte dall'ibridazione,

avvenuta in precedenza, con i Neanderthal (che

a loro volta si erano ibridati con i Denisova).

Nel 2019, un team internazionale di ricercatori,

dopo aver analizzato il genoma completo di 161

persone provenienti da 14 gruppi differenti in

Indonesia e Papua Nuova Guinea, suggerisce

l'ipotesi che un gruppo di denisoviani si sia ibridato

tardivamente con le popolazioni locali diHomo sapiens

 circa 15.000 anni fa. Come affermato nello studio gli

abitanti della Papua Nuova Guinea recano infatti

tracce nel dna di due popolazioni denisoviane

differenti, denominate D1 e D2, e divergenti tra

loro di circa 283.000 anni.

Mentre la seconda tipologia è molto più diffusa,

la prima è identificabile unicamente negli abitanti

dell'isola.

Non tutto il mondo accademico tuttavia si è detto

convinto delle conclusioni della ricerca.

Un altro scenario ipotizzato prevede un primo incontro

tra umani moderni e denisoviani.

Dopo un'ibridazione iniziale, il gruppo si sarebbe

separato portando con sé due differenti "set" di geni

denisoviani.

Infine, le due popolazioni sarebbero venute nuovamente

a contatto, incrociando nuovamente il dna.

Aspetto fisico

Data l'estrema limitatezza dei reperti, ben poco si sa

sulle caratteristiche fisiche di questi individui.

Il sequenziamento del genoma estratto dalla falange

ritrovata nel 2008 a Denisova (Siberia meridionale) ha

permesso di definire che il soggetto esaminato, una

femmina, avesse carnagione scura con occhi e capelli

castani.

Dalle ultime analisi del mtDNA e del DNA nucleare risulta

che l'Uomo di Denisova si sarebbe separato dal comune

antenato di Neanderthal e uomo moderno circa 1.000.000

di anni fa e che in seguito si sarebbe incrociato con

l'Homo sapiensprogenitore dei moderni abitanti della

Papua Nuova Guinea, con i quali condivide il 4-6%

del genoma; provando così (come già con l'uomo di

Neanderthal) l'Ipotesi multiregionale di interscambio

genetico tra antichi e moderni Homo sapiens

Analisi del DNA mitocondriale

Il DNA mitocondriale (mtDNA) proveniente dall'osso

del dito è diverso da quello degli esseri umani moderni

per 385 basi (nucleotidi), su un totale di circa 16.500

basi presenti in un lfilamento del DNA mitocondriale,

mentre la differenza tra gli esseri umani moderni ed i

Neanderthal è di circa 202 basi.

Considerando che la differenza tra scimpanzé e gli esseri

umani moderni è di circa 1.462 paia di basi del DNA

mitoconpdriale ciò suggerisce un tempo di divergenza

di circa un milione di anni.

L'mtDNA di un dente aveva una somiglianza elevata con

quella dell'osso del dito, indicando che entrambi

appartenevano alla stessa popolazione.

È stata recuperata una sequenza di mtDNA su un secondo

dente che ha mostrato un numero inaspettatamente

elevato di differenze genetiche rispetto a quella riscontrata

nell'altro dente e nel dito, suggerendo un elevato

grado di diversità mtDNA.

Questi due individui, rinvenuti nella stessa grotta,

hanno mostrato una diversità tra loro maggiore di

quella rilevata campionando gli uomini di Neanderthal

di tutta l'Eurasia.

Un tasso di diversità paragonabile a quello che

distingue gli esseri umani moderni provenienti da

diversi continenti

Analisi del DNA nucleare

Nello stesso studio del 2010, gli autori hanno

effettuato l'isolamento e il sequenziamento del

DNA nucleare dell'osso del dito del Denisova.

Questo esemplare ha mostrato un insolito grado

di conservazione del DNA e un basso livello di

contaminazione.

Sono stati in grado di raggiungere quasi il completo

sequenziamento genomico, consentendo un confronto

dettagliato con i Neanderthal e gli umani moderni.

Da questa analisi hanno concluso, nonostante l

'apparente divergenza della loro sequenza mitocondriale,

che gli uomini di Denisova e i Neanderthal hanno

condiviso un ramo comune ancestrale che porta

ai moderni esseri umani africani.

Il tempo medio stimato di divergenza tra le sequenze

dei denisoviani e dei Neanderthal è di circa 640 000

anni fa, mentre il tempo di divergenza tra le sequenze

di ciascuno di essi e le sequenze degli africani moderni

è di 804 000 anni fa.

Ciò suggerisce che la divergenza dei risultati mitocondriali

del Denisova derivi o dalla persistenza di un lignaggio

epurato dagli altri rami attraverso deriva genetica

oppure da un'introgressione di un lignaggio di un ominide

più arcaico.

Nel 2013, la sequenza di mtDNA prelevata dal femore di

un Homo heidelbergensis di 400.000 anni fa proveniente

dalla Grota Sima in Spagna è risultata essere simile a

quella di Denisova.

 
 
 

L'acqua: una risorsa preziosissima..

Post n°2274 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

 

L'acqua è sempre più scarsa nel mondo e

aumentano i dissalatori e il recuperoI costi

della dissalazione sono in calo.

La polemica sulla salamoia e i consumi energetici
www.greenreport.itAlla terza conferenza

internazionale Action4Good, "Creare soluzioni

resilienti ai bisogni idrici", organizzata a Santa

Margherita Ligure dal 12 al 14 maggio dall'International

Desalination Association (IDA), con il sostegno

di Fao, European Desalination Society, Global Clean

Water Desalination Alliance e Global Solar

Council, e il patrocinio di dell'amministrazione di

centro.destra di Genova e dei Rotary Club di La

Spezia e Lunigiana, sono state esaminate le

questioni energetiche e ambientali legate alla

desalinizzazione e «Il ruolo della desalinizzazione

e del trattamento avanzato delle acque nella

creazione di un mondo più sostenibile». la segretaria

generale dell'Ida, Shannon McCarthy, ha sottolineato

che «Ida supporta un obiettivo H20-C02 e sostiene

il ruolo fondamentale che svolgono l'efficienza

energetica, l'energia rinnovabile e la minimizzazione

dell'impatto ambientale nei sistemi di desalinizzazione

e riutilizzo dell'acqua nel raggiungimento di questo

obiettivo, per garantire che la crescita nel settore

della desalinizzazione e del riutilizzo dell'acqua

vada di pari passo con la responsabilità sociale».

Al centro della discussione a Santa Margherita

ci sono stati i dati dell'IDA Water Security Handbook,

pubblicato a gennaio dall'l'International desalination

association e da Global Water Intelligence (Gwi)

che rappresenta l'ultima e più completa del

mercato della desalinizzazione e del riutilizzo

dell'acqua e dal quale emerge che, dopo 3 anni i

n cui il mercato globale della desalinizzazione è

rimasto stabile, si prevede che il 2019 vedrà la

maggiore crescita della desalinizzazione

dell'acqua marina dalla fine degli anni 2000.

Attualmente nel mondo si riutilizzano più di 200

milioni di acqua al giorno e ci sono più di 20.000

impianti di dissalazione, A trainare la crescita

della dissalazione nel 2019 sarà il Medio Oriente

dove, nella prima metà del 2018, la dissalazione

dell'acqua è aumentata del 28% e sono annunciati

importanti progetti.

Aumentano anche i contratti di dissalazione negli

Usa, mentre la dissalazione di acqua a bassa

concentrazione salina rappresenta ormai il 25%

del totale, Inoltre, negli ultimi anni anche la

dissalazione per uso industriale ha avuto un

aumento considerevole, con un aumento del

21% tra il 2016 e il 2017, dovuto soprattutto

all'incremento della dissalazione nell'industria

petrolifera e gasiera, per le miniere per l'elettronica.

Il mercato globale continua ad essere dominato

(90%) dalle tecnologie di dissalazione a membrana,

con in testa l'osmosi inversa che ha conquistato

anche i Paesi del Medio Oriente dove, tradizionalmente,

si utilizzavano le tecnologie a evaporazione che

creano più salamoia.

Chi dice che le grandi imprese della dissalazione

non vogliono sentir parlare di riutilizzo dell'acqua

sbaglia: spesso si tratta delle stesse imprese e

infatti L'IDA Water Security Handbook sottolinea

con grande evidenza che «Il riutilizzo di acqua come

soluzione ai crescenti problemi idrici nel mondo si

è incrementato significativamente negli ultimi anni»

e fa l'esempio di Città del Capo in Sudafrica e

della California che stanno spingendo per il

riutilizzo delle acque reflue, mentre la Cina punta

molto su riutilizzo delle acque industriali, che

rappresentano il 49% della capacità contrattata

tra il 2010 e il 2017, anche India e Taiwan

stanno incentivando fortemente questo settore.

Gli Usa sono il secondo più grande mercato del

mondo (10% del totale) per il riutilizzo dell'acqua,

mentre anche in Messico, Perù ed Egitto nell'ultimo

anno c'è stata una bona crescita.

In Europa il Paese leader nel riutilizzo dell''acqua

è la Spagna e con la nuova regolamentazione per

l'utilizzo agricolo approvata recentemente dal

Parlamento europeo, nei prossimi anni questo

settore nell'Ue potrebbe crescere vertiginosamente,

passando dagli attuali 3 milioni di m3 al giorno

fino a 18 milioni m3/giorno.

La Spagna è anche leader europeo (e uno dei

primi al mondo) per la dissalazione e ha costruito

e sta costruendo diversi impianti all'estero: 8

delle 20 maggiori imprese a livello mondiale

sono spagnole.

Il presidente Ida, Miguel Angel Sanz, ha sot-

tolineato che «L'Ida ha sempre appoggiato

soluzioni per la scarsità idrica, sostenendo lo

sviluppo della dissalazione e l'industria del

riutilizzo dell'acqua per garantire acqua e risorse

naturali sostenibili.

Negli ultimi decenni, il nostro settore ha raggiunto

un'importante riduzione dei costi dell'acqua non

convenzionale e una maggiore qualità per

garantire la sostenibilità idrica, Dato che il

cambiamento climatico continua ad avere un

impatto sul mondo, insieme alla crescita industriale

e demografica, la domanda di acqua potabile aumenta.

La desalinizzazione e riutilizzo dell'acqua, soluzioni

di approvvigionamento idrico non convenzionali e

rispettose dell'ambiente, sono in linea con l'economia

circolare dell'acqua e offrono soluzioni per la scarsità

idrica».

La Shannon ha aggiunto: «I trend che stiamo

osservando indicano un ampio riconoscimento

del fatto che queste soluzioni avanzate di trattamento

delle acque sono essenziali per la salute e il benessere

delle persone e delle economie di tutto il mondo,

sia ora che in futuro».

Secondo Christopher Gasson di Gwi, «Il grande

successo dello scorso anno è stato il costo della

dissalazione.

I recenti bandi di gara in Arabia Saudita e Abu

Dhabi l'hanno visto scendere per la prima volta

sotto gli 0,50 dollari/m3. Dopo un decennio in cui i

l prezzo è salito verso l'alto a causa degli alti costi

dei materiali e dei maggiori costi energetici, questa

è una buona notizia. In effetti, ci aspettiamo che il

2019 sia l'anno migliore in assoluto nel mercato

della desalinizzazione».

Ma le critiche non mancano: come fa notare Bruce

Stanley di Bloomberg sul Washington Post «E' una

crudele ironia per il pianeta blu: la maggior parte

della Terra è inondata negli oceani, eppure l'acqua

marina è imbevibile.

Gli sforzi su vasta scala per rimuovere il sale

dall'acqua di mare - il processo noto come desaliniz-

zazione - risalgono agli anni '50 e oggi quasi 20.000

strutture dalla Cina al Messico stanno rendendo

potabile l'acqua salata per sostenere la crescita

delle popolazioni.

Ma questa alchimia moderna è sotto esame perché

i critici si chiedono se i benefici della desalinizzazione

giustificano il suo potenziale danno agli ambienti

marini e il contributo al riscaldamento globale».

Le critiche riguardano soprattutto due questioni:

la salamoia e i consumi energetici.

Ma è soprattutto la salamoia a preoccupare, in

particolare dopo la pubblicazione dello studio

"The state of desalination and brine production:

A global outlook", pubblicato su Science of the

Total Environment da un team di ricercatori

dell'United Nations University (UNU - Canada),

dell'università olandese di Wageningen e del

Gwangju Institute of Science and Technology

(Corea del sud) che accusa - soprattutto Arabia

Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar -

di inquinare il mare con un concentrato salato

che può contenere residui di sostanze chimiche

anti-incrostanti e anti-fouling utilizzate negli

impianti. Ida ha risposto che lo studio non fa

differenza tra tecnologie termiche e a membrane

e che «Ha mostrato una mancanza di conoscenza

reale.

Lo studio è l'opinione di alcune persone che

lavorano in un'università e non un'opinione

ufficiale delle Nazioni Unite sulla desalinizzazione».

Va anche ricordato che lo stesso studio non mette

in dubbio la necessità di realizzare dissalatori

dove ce n'è bisogno e di estendere la tecnologia

ai Paesi i via di sviluppo.

Lo studio UNU è stato anche analizzato (e smontato)

dagli ingegneri e dagli scienziati dell'Asociación Española

de Desalación y Reutilización (AEDyR) che hanno

ricordato che «Tutti i processi di dissalazione separano

l'acqua in entrata (marina o salmastra) in due flussi

diversi: uno di acqua potabile (l'acqua dissalata prodotta)

e un flusso conosciuto come salamoia (chiamato anche

concentrato o rifiuto) e che è la stessa acqua in ingresso

con una maggiore concentrazione di sali, essendo questi

diluiti in una minore quantità d'acqua.

La salinità della salamoia dipende dalla concentrazione di

sale che ha l'acqua in entrata.

La percentuale di acqua dissalata e di salamoia è

differente in ogni impianto di dissalazione, poiché dipende

dai livelli di conversione dell'acqua che permettono

l'efficienza del processo di dissalazione di ogni impianto.

Le differenti tecniche di dissalazione sono associate a

diversi rapporti di conversione dell'acqua e, a questo

proposito, i processi a membrane (osmosi inversa,

nanofiltrazione e elettrodialisi, con l'osmosi inversa

che è la più utilizzata nella desalinizzazione in Spagna

e globalmente) sono associati a rapporti di conversione

molto più elevati rispetto ai processi ad evaporazione

(MSF, MES)».

Anche la qualità dell'acqua in entrata è importante

per determinare i rapporti di conversione ed è molto

più complesso e costoso gestire impianti di dissalazione

con un elevato rapporto di conversione, quando la

salinità dell'acqua in ingresso è maggiore.

La salinità media dell'acqua di mare è compresa tra i

35 e i 45 grammi per litro (l'acqua consumabile da un

essere umano varia da 3 a 25 grammi di sale per litro),

ma all'AEDyR sottolineano che varia secondo il mare,

la zona e la profondità alla quale viene presa e che

quella del Mediterraneo - con 36 - 39 g/l - è l'acqua

"ideale" per la dissalazione- Quella più salata (se si

escludono mari interni come il Mar Morto e il Mar Caspio )

è quella del Mar Rosso (42 - 46 g/l), seguita da quella del

Golfo Persico (40 - 44 g/l).

Il Mar dei Caraibi ha una salinità simile a quella del

Mediterraneo (34 - 38 g/l), seguito dall'Oceano indiano

(33 - 37 g/l) e dagli oceani Pacifico e Atlantico (33 - 36 g/l),

mentre il Mar Baltico tecnicamente è un mare salmastro

con una salinità di appena 6 - 18 g/l.

Ma quello che sottolinea maggiormente AEDyR è che

«Nonostante nella salinità del mare possano esserci

degli squilibri locali, è importante sottolineare che, a

livello globale, il bilancio marino del mare è costante».

Inoltre, la salinità del mare dipende da diversi fattori:

l'evaporazione superficiale provocata dall'energia

solare (e quindi può essere diversa secondo le stagioni);

nelle zone tropicali, che sono più calde, c'è una

maggiore salinità che in mari come il Mediterraneo

e quelli delle latitudini più elevate.

Ad abbassare la salinità è anche la presenza di foci di

fiumi (ma lì di solito non servono dissalatori).

In profondità, dove le temperature sono costanti e più

basse, la salinità è inferiore.

Le correnti influenzano poco la salinità del mare.

Per questo è molto più costoso e complesso gestire

dissalatori in mari come il Mar Rosso e il Golfo Persico

dove la salinità è più alta e i prelievi e gli scarichi

avvengono su bassi fondali.

In mare sono stati identificati 70 elementi chimici,

la maggioranza in quantità estremamente piccole.

I più abbondanti sono: cloruro, sodio, magnesio,

zolfo, calcio, potassio, bicarbonato, bromo, stronzio,

boro e fluoro. I

ricercatori spagnoli fanno notare che «Insieme, questi

sali costituiscono più del 99% della massa di soluti

dissolti nell'acqua di mare.

Tra loro il cloruro e il sodio (che formano il cloruro di

odio, cioè i componenti del sale da tavola comune)

costituiscono più dell'85% del totale dei sali dissolti

nell'acqua marina.

Le quantità dei restanti elementi sono minoritarie,

dato che sono in concentrazioni molto piccole, con

percentuali inferiori all'1%. Anche alcuni di loro,

come fosforo, ferro, manganese, iodio e rame

sono in concentrazioni costanti, mentre, al

contrario, titanio, cadmio, cromo, antimonio,

germanio, tallio e cloro hanno concentrazioni

variabili, lo stesso avviene con i gas (ossigeno,

anidride carbonica e azoto) disciolti nelle acque

marine, in quanto la loro presenza è legata ad

alterazioni da parte di organismi biologici o

reazioni fisico-chimiche.

Anche se sembra ovvio, è importante sottolineare

che l'acqua di mare non è semplicemente una

soluzione di sali e gas disciolti, ma che gli organismi

che vivono nel mare esercitano un'influenza sulla

composizione delle acque.

Per esempio, i molluschi estraggono calcio dall'acqua

marina per fabbricare le loro conchiglie e corpi e le

spugne e alcuni tipi di alghe marine eliminano lo

iodio del mare».

Rispondendo ancora allo studio dell'UNU, l'AEDyR

spiega che «Il progetto di ogni impianto di dissalazione

è unico.

Non esistono due impianti uguali, poiché è necessario

adattare il suo design alle specifiche condizioni locali.

E lo scarico della salamoia è specificamente progettato

per ridurre al minimo l'impatto di ogni impianto date

quelle specifiche condizioni locali.

I sistemi di scarico della salamoia sono progettati

attraverso la costruzione di emissari con diffusori e

una precedente diluizione che fanno in modo che la

salamoia, quando viene a contatto con il mare e le

correnti marine, si dissolve rapidamente.

Tutti gli impianti di dissalazione sono soggetti a

periodici studi di fattibilità e impatto ambientale

approvati dall'autorità competente, per analizzare

in profondità il possibile impatto della salamoia.

Vi sono numerosi studi nazionali e internazionali

che confermano l'innocuità del rigetto della

salamoia nell'ambiente marino quando lo scarico

viene è effettuata correttamente.

La Spagna ha guidato la protezione ambientale

rispetto alla salamoia con progetti di ricerca del

Cedex e di diverse università, dando vita a

raccomandazioni per progetti e piani di monitoraggio

ambientale negli impianti di desalinizzazione che

sono stati adottati anche da altri Paesi».

E i ricercatori spagnoli evidenziano che secondo

lo stesso studio UNU esistono nuove tecniche pe

trattare e recuperare i componenti della salamoia:

«La ricerca di nuove soluzioni per migliorare l'efficienza

delle tecniche di dissalazione e l'uso di nuove

tecniche per il trattamento delle salamoie interessate

dallo studio a cui facciamo riferimento si stanno

sviluppando in diversi progetti in Spagna e nel resto

del mondo, quindi non è escluso che nei prossimi

anni ci saranno degli sviluppi in questi settori.

Secondo i dati dello studio, prendendo in considera-

zione l'acqua desalinizzata prodotta e la salamoia

sversata a seconda delle aree geografiche, vediamo

che, a livello globale, i tassi di recupero (rapporti

di conversione) sono circa dello 0,50.

Ciò si verifica in tutte le aree geografiche ad eccezione

del Medio Oriente, che è, secondo lo studio, il luogo

in cui viene prodotta la percentuale più elevata di

salamoia globale (70,3%). Senza entrare in valutazioni

su queste cifre, si fa notare che questa area geografica

è quella dove si concentrano la maggior parte degli

impianti di dissalazione a evaporazione di grandi

dimensioni (principalmente MSF, impianti di dissalazione

che in Spagna non costruiamo più a partire dagli anni '90),

che hanno rapporti di conversione nella produzione di

acqua inferiore all'osmosi inversa e quindi maggiori

rese in salamoia.

Va rilevato che, negli ultimi anni, l'osmosi inversa è la

tecnologia più applicata nei nuovi impianti nella regione,

per cui si prevede che questa tendenza sarà invertita

nel corso del tempo verso gli indici globali più coerenti.

Sebbene questi squilibri locali possano causare

preoccupazione, è necessario chiarire che l'equilibrio

salino complessivo del mare è costante.

L'acqua desalinizzata dopo il suo utilizzo viene

nuovamente trattata negli impianti di trattamento

delle acque reflue e torna direttamente al mare

attraverso gli scarichi».

Stanley sul Washington Post fa notare che,

nonostante i dubbi di qualcuno, «La necessità di

rendere potabile l'acqua di mare non mostra segni

di rallentamento.

Con gli attuali tassi di consumo, il più grande emirato

degli Emirati Arabi Uniti potrebbe esaurire le scorte

di acque sotterranee naturali "nel giro di pochi decenni",

ha affermato l' Abu Dhabi Environment Agency in un

rapporto del 2017.

Tuttavia, l'aumento della domanda di risorse idriche

limitate sta stimolando nuove idee per la produzione

alimentare tanto quanto per la desalinizzazione.

L'International Center for Biosaline Agriculture di

Dubai ricicla la salamoia per irrigare le piante tolleranti

al sale come la salicornia, che può essere mangiata

o utilizzata per i biocarburanti.

L'istituto di ricerca coltiva anche colture alimentari

come la quinoa che prosperano in terreni salati e

desertici».
Anche per quanto riguarda l'atro grosso problema

(e il maggior costo dei dissalatori), i consumi energetici,

le cose stanno migliorando: attualmente un impianto di

dissalazione a osmosi inversa consuma circa 3 kWh/m3,

i primi impianti a evaporazione consumavano più di 50

kWh/m3. I ricercatori spagnoli spiegano ancora:

« Per mettere questa cifra in prospettiva, se consideriamo

che il consumo energetico di una famiglia media in Spagna

è di 13.141 kWh/anno e che il consumo medio annuale

pro-capite è di 150 litri/giorno, prendendo come riferimento

che il consumo di energia medio per produrre 1 m3 di acqua

desalinizzata è 3kWh/m3, con il consumo energetico di una

famiglia media si è in grado di rifornire 80 persone con

acqua di mare desalinizzata per tutto l'anno».

La maggiore efficienza energetica dei dissalatori è

avvenuta grazie a interventi che hanno riguardato

l'intero processo di dissalazione: tubazioni, pompe,

membrane, recupero di energia, utilizzo di energie

rinnovabili e recupero dei prodotti chimici.

La percentuale più elevata di consumi energetici di un

dissalatore viene dalle pompe ad alta e bassa

pressione utilizzate nelle diverse fasi del processo

di dissalazione.

Le pompe a bassa pressione servono soprattutto

a caricare e scaricare l'acqua e a seconda delle prese

(costiere, in pozzi o con condotte sottomarine) e il

consumo di energia varia notevolmente da un

impianto all'altro.
Le pompe ad alta pressione servono a far passare

l'acqua di mare attraverso le membrane con una pres-

sione di circa 65-70 bar. Per sfruttare la pressione della

salamoia in uscita, che ha la stessa pressione (meno le

perdite di carico stimate in circa 3 bar), sono stati

progettati sistemi di recupero energetico e dalle iniziali

pompe invertite, mosse dalla pressione e dalla portata

della salamoia, si è passati prima alle turbine Pelton

che hano maggiori prestazioni di recupero e ora alle

camere di interscambio della pressione, con prestazioni

di recupero ancora migliori, che sono diventate il nuovo

standard dei moderni dissalatori.

I ricercatori AEDyR concludono: «Attualmente, le possibilità

di migliorare le prestazioni delle apparecchiature e dei

circuiti idraulici della desalinizzazione ad osmosi inversa

sono molto limitate, poiché i limiti termodinamici sono stati

quasi raggiunti, quindi il prossimo passo è ridurre

significativamente il consumo energetico di un impianto

a osmosi inversa sta nell'abbassare le pressioni di lavoro,

vale a dire trovare membrane che consentano il funzionamento

a pressioni più basse con una produzione uguale o superiore

o un tipo di membrana che possa funzionare con

pretrattamenti meno esigenti di quelli attuali».

 
 
 

Altre notizie sul tyrannosaurus rex

Post n°2273 pubblicato il 04 Luglio 2019 da blogtecaolivelli

Fonte: Le Scienze
Grazie allo studio genetico di molti

uccelli viventi e all'analisi del cervello

di alcuni esemplari di dinosauri, gli

scienziati hanno scoperto che T. rex

era dotato di un olfatto simile a quello

del gatto domestico

di Michael Greshko

dinosauri,cretaceo,paleontologia,genetica,dna

Tyrannosaurus rex era probabilmente dotato

di uno spiccato senso dell'olfatto, leggermente

inferiore a quello dell'attuale gatto domestico.

Illustrazione di Roger Hall, Alamy

Secondo un nuovo studio, il predatore 

Tyrannosaurus rex e i gruppi a lui imparentati

erano dotati di uno spiccato senso dell'olfatto,

che superava quello di tutti gli altri dinosauri

estinti.

Lo studio, pubblicato su Proceedings of the

Royal Society B, si propone di verificare a grandi

linee la quantità di geni coinvolti nelle abilità

olfattive di T. rex, decine di milioni di anni dopo

il decadimento del suo DNA.

La convinzione che i tirannosauri avessero un

forte senso dell'olfatto non è affatto recente.

Nel 2008, per esempio, i ricercatori hanno

dimostrato che in T. rex e nei gruppi imparentati

ampie porzioni del cervello venivano utilizzate

per elaborare gli odori.

Ma quello appena pubblicato è soltanto l'ultimo

studio fra i tanti mirati a mettere in relazione il

DNA degli animali attuali con le loro abilità corporee

e sensoriali, con l'obiettivo di comprendere in modo

più approfondito le capacità e i comportamenti dei

loro antenati che si estinsero molto tempo prima.

"Non stiamo parlando di Jurassic Park", afferma 

Graham Hughes, biologo computazionale dello

University College Dublin, responsabile dello studio,

in riferimento all'intenzione degli scienziati del film

di ricostruire il DNA dei dinosauri.

"Si sta cercando di comprendere in che modo

l'evoluzione sensoriale abbia giocato un ruolo

fondamentale, a prescindere dal posizionamento

all'apice della catena alimentare".

"Accolgo con favore questo lavoro, che costituisce

un nuovo contributo a studi di questo genere,

in cui le persone utilizzano le informazioni

genetiche e morfologiche per dedurre le funzioni

sensoriali e i ruoli ecologici delle specie estinte",

dichiara Deborah Bird, ricercatrice post-doc

dell'Università della California, Los Angeles,

che ha utilizzato tecniche simili per ricostruire

il repertorio olfattivo di Smilodon, il gatto dai

denti a sciabola.

Fiutare gli indizi

Hughes e il collega John Finarelli, paleontologo

allo University College Dublin, desideravano da

sempre studiare i sensi nei dinosauri e si sono

concentrati in particolare sull'olfatto.

"Di cosa odorava l'ambiente nel Cretaceo?

Tutti si chiedono che aspetto avesse, ma che

profumo si sentiva?", si chiede Hughes.

Nello studio, i due ricercatori si sono concentrati

sulla forma del cervello dei dinosauri, che può

preservarsi parzialmente grazie al residuo

dell'impronta sulla superficie interna di crani

in buono stato di conservazione.

Riuscire a conoscere i dettagli potrebbe sembrare

un compito arduo, ma per fortuna i ricercatori

hanno potuto fare affidamento su animali tuttora

esistenti: gli uccelli, discendenti dei dinosauri.

In generale, gli uccelli odierni dotati di diversi

recettori olfattivi - proteine che si legano con

particolari molecole olfattive - tendono ad avere

bulbi olfattivi (vale a dire le regioni del cervello

che elaborano gli odori) sproporzionatamente

grandi.

Così Hughes e Finarelli hanno passato al setaccio

la letteratura scientifica alla ricerca di informazioni

riguardanti le dimensioni del bulbo olfattivo e

hanno misurato le proporzioni delle dimensioni

del cervello di 42 uccelli viventi, due uccelli

estinti, l'alligatore del Mississippi e 28 dinosauri

non aviani.

Inoltre, hanno individuato il DNA di molti uccelli

attuali e, successivamente, hanno incrociato

questi dati con quelli provenienti da uno studio

pubblicato in precedenza, allo scopo di costruire

un nuovo database dei geni recettori olfattivi

negli animali viventi.

Quando i ricercatori hanno adattato il modello

risultante dallo studio degli animali viventi ai

dinosauri hanno scoperto che Tyrannosaurus

rex aveva probabilmente tra 620 e 645 geni

che codificavano i recettori olfattivi, una

quantità di geni leggermente inferiore a quella

presente nei polli e nei gatti domestici.

E anche altri dinosauri predatori, come

 Albertosaurus, avevano una grande quantità

di geni recettori olfattivi.

Ma l'odore non è utile solo a procacciarsi il cibo.

Gli animali si servono dell'olfatto per riconoscere

i loro parenti, marcare il territorio, attrarre gli

individui dell'altro sesso e individuare i predatori.

Tra tutti i vertebrati viventi, l'elefante detiene

il record di geni recettori olfattivi: l'animale

erbivoro possiede infatti circa 2.500 di questi

geni.

Con un olfatto così sviluppato, gli elefanti

riescono a percepire la quantità di cibo

soltanto grazie all'odore.

Di certo, come dimostrano le evidenze, alcuni

dinosauri erbivori facevano un maggiore

affidamento sull'odore rispetto ad alcuni

predatori.

In uno degli erbivori analizzati da Hughes

e Finarelli, il teropode Erlikosaurus, la presenza

di geni recettori olfattivi stimata era maggiore

rispetto a Velociraptor e a molti dei gruppi con

lui imparentati.

Nonostante ciò, T. rex e Albertosaurus continuano

a detenere un'abilità olfattiva senza pari.

Un salto nell'ignoto

Studi futuri potrebbero dedicarsi alla comprensione

di cosa, esattamente, T. rex e i suoi parenti annusas-

sero nell'Era dei dinosauri.

I dati esistenti consentono a Hughes e Finarelli di

individuare alcuni odori presenti nel repertorio

olfattivo dei dinosauri, come il sangue e la vegetazione.

Ma interi gruppi di geni recettori olfattivi non sono

ancora stati ricondotti a particolari odori.

"È molto strano: abbiamo molte informazioni sul

funzionamento dell'olfatto, ma ne abbiamo così

poche sulla tipologia di proteine che si lega a

particolari molecole olfattive", afferma Hughes.

"È possibile che vi siano aziende che producono

profumi a conoscenza di tali informazioni.

Ma dal punto di vista scientifico, non abbiamo

ancora delle risposte: è una delle grandi sfide

della scienza".

I ricercatori sostengono che studi futuri potreb-

bero essere in grado di individuare i fattori che

hanno determinato l'evoluzione sensoriale nel

tempo; per esempio, l'adattamento di alcuni

mammiferi alla vita acquatica avrebbe determinato

l'indebolimento dell'olfatto nei discendenti.

Hughes ritiene che un simile studio potrebbe

prendere in considerazione i dinosauri non aviani.

"Sono appassionato di dinosauri sin da bambino:

è stato incredibile poter dare il mio modesto

contributo alla conoscenza dei dinosauri". 

 
 
 

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