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CabiriaTheBride

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Monologo

Post n°3 pubblicato il 02 Gennaio 2011 da CabiriaTheBride

 

Lettera di un malato terminale a sua figlia

È già da alcune settimane, che penso di scriverti. Poi i dolori, l’abbandono agli effetti dalla morfina, le lunghe visite degli amici, le letture per distrarmi…, tutto ciò me lo ha impedito.

Ho provato a scriverne altre, di lettere, in quest’ultimo anno e mezzo, ma ad un certo punto mi bloccavo, le facevo in mille pezzi e le buttavo via. Erano per tuo fratello, il quale, per la notevole differenza d’età ti ha sempre considerata il suo giocattolo, ma che ormai, preso fra studi, ragazza ed amici quasi non vedi più a casa; per la mamma; e per poche altre persone care.

Fu forte, l’impulso a cercare di lasciare pensieri scritti, dopo l’atroce verdetto di quell’11 novembre. C’era nebbia; silenzio, nell’aria; buio. Ero voluto andare da solo, in ospedale a ritirare le analisi. Stavo bene, sembrava fosse una sciocchezza: "faccia questi esami – mi aveva detto il dottore – , solo per toglierci il dubbio".

Ed il "dubbio" in quel momento era collassato; ma sull’altro versante: quello dell’inferno. Pretesi la verità. Feci domande mirate. Mentii, dicendo che non sarei tornato a casa da solo, che c’erano due amici che mi aspettavano, giù al bar. La dottoressa si rese conto di avere di fronte una persona logica e determinata e non oppose resistenza. 

 

Avevamo festeggiato il mio compleanno, poche settimane prima. Il 21 ottobre. Quarantasette anni. Mi aiutasti a spegnere le candeline, poi facemmo progetti per il futuro. Tutti segreti fra me e te, ce lo giurammo.

"Progetti"! Si sciolse il significato della parola, nella mia mente, quella mattina, appena varcato l’uscio dell’inquietante cubo di cemento avvolto nel grigiore.

Assicurai a me stesso che non avrei esalato il mio ultimo respiro là dentro.

Al ritorno guidai piano, pianissimo. Un tir che avevo dietro stava per travolgermi, nel fitto delle bianche goccioline d’acqua sospese nell’aria. L’autista suonò come un pazzo, lo vidi imprecare e gesticolare; mi feci da parte per farlo passare avanti. Avrei voluto dirgli: "Che fretta c’è? Ci dimeniamo come matti solo per non pensare alla fine che ci tocca, prima o poi. L’unica differenza fra noi è che io so dov’è il mio capolinea. E tu no. Ma cosa sono dieci anni in più o in meno rispetto all’eternità?".

Poi rinsavii. Aveva ragione lui.

Una volta a casa, poggiai le carte sul tavolo e per due giorni interi non dissi una sola parola. A te lasciai intendere che non potevo parlare perché avevo mal di denti.

"Il linguaggio è la casa dell’essere", aveva scritto da qualche parte un pensatore che immagino ora tu conosca. Mi resi conto, quel giorno, che forse era vero. E per questo io non riuscivo a parlare. Non sentivo più il possesso del mio essere; e di conseguenza, non riuscivo ad entrare in quella "casa".

Ma il terzo giorno, un sabato mattina, mi svegliai con animo diverso e decisi di tornare alla normalità. "D’accordo – mi dissi – , prendiamola così: sarebbe potuta finire in un altro momento, magari in maniera brusca, come succede a tanti altri. Non è andata in tal modo. Pazienza. Ora sei come un pellegrino nel deserto; con una sola boraccia piena d’acqua; Sai che devi farne tesoro; bevi lentamente ed a piccoli sorsi, finché ne hai a disposizione; non puoi permetterti di sprecarla; ne apprezzerai il sapore come non avresti mai immaginati potesse essere possibile.

E così sono arrivato fino ad oggi, superando le aspettative vita di oltre un anno. Probabilmente anche grazie all’assunzione di tale atteggiamento, suggeritomi dalla necessità e dagli affetti. La mente ha un gran potere, sul corpo.

Ma ora sento di essere davvero alla fine. Ho chiesto a tua madre di inventare qualche scusa e di non far entrare più nessuno, in questa stanza. Fatta eccezione per te. Questo è il quinto giorno che trascorro così: in silenzio, con tanti libri che non aprirò mai più, e carta bianca sul comodino; e tu – chissà se ne serberai memoria! – che ogni tanto arrivi, giri attorno al mio letto, sali su e ti sistemi a cavalcioni sulle mie gambe, mi abbracci facendomi tante domande e riempiendomi le guance di baci. Quando la tua esuberanza mi provoca dolori, cerco di nascondertelo. Il tuo è l’unico sguardo che riesco a sopportare a lungo: poiché l’età ti porta ad essere completamente immersa nel tempo delle cose e degli eventi; e così diventi la più saggia di tutti, dato che per me, ormai, non esiste che un morso di presente da consumare. E marcio, anche.

Tutti gli altri, non riesco a guardarli negli occhi. Mi dicono che ce la farò, che la fase critica è passata.

So che non è vero. Ma sarebbe sadico, proiettare nei loro animi fragili l’autocoscienza limpida che ho della morte. È probabile che loro, questa mia consapevolezza, l’abbiano intuita e fingano a loro volta. E così continuiamo ad andare avanti senza troppa discontinuità, in questa commedia pirandelliana che è l’esistenza.

Del resto, è la soluzione migliore per tutti.

La vita è come un prezioso oggetto di cristallo buttato giù da un dirupo subito dopo essere stato costruito. Non si sa quanto la voragine sia profonda: solo approssimativamente, in media; e mai il preciso momento dell’impatto. Può anche venir fuori uno spuntone; in qualsiasi istante, sin dall’inizio del percorso; oppure, un difetto di "costruzione", o altro, può far sì che la struttura non regga a lungo all’attrito con l’aria. Nel migliore dei casi, c’è solo da attendere, senza pensarci, l’avvicinarsi del fondo buio; ad una velocità sempre più rapida man mano che si va avanti, nel tunnel del tempo.

Gli animali, forse, si accorgono della fine solo all’ultimo istante. L’uomo, invece ne diviene consapevole sin dall’infanzia. Ma in maniera dapprima vaga, quasi irreale; poi ignorandola, come se fosse cosa improbabile, alla stessa stregua di riuscire a diventare ricchissimi giocando casualmente un euro al lotto.

L’ignoranza del "quando" e del "come" avverrà, lo aiuta in qualche modo a sentirsi immortale, con tutto il bene ed il male che ciò comporta.

Solo la vicinanza di un moribondo, ridesta dall’assopimento e fa emergere il pensiero, sepolto nella coscienza. Si ride con chi ride; si piange con chi piange. Un po’ ci si affaccia nell’ombra della propria morte con chi muore.

Così tutti pensano di dovermi consolare. Ed anche per questo, ho scelto di non vedere più nessuno. Dovrei essere io, a consolare loro; a scusarmi – soprattutto con te – per non essere riuscito a portare a termine quanto dovevo e volevo fare.

Non ho paura. Sono solo arrabbiato. La consapevolezza di dover morire mette solo imbarazzo. Me ne vergogno.

Stamattina è passato Michele. Forse per l’ultima volta. Ci hai fatto amicizia anche tu, a furia di vederlo a casa.

La sua presenza non mi ha mai dato fastidio: mi ha attaccato la flebo mentre sparava una delle sue solite battute. Lui è abituato a camminare sul bordo; e lo ha vinto da tempo, il terrore della fine riflessa nell’abisso degli altri. Mi ha guardato come lo avrebbe fatto se mi avesse incontrato in un bar, in un giorno qualsiasi, in una situazione diversa, banale, quotidiana. Eppure deve aver capito. Gli ho rifiutato la dose quotidiana di morfina.

Mi sento stranamente bene, oggi. Penso che potrei mettermi in piedi, con un po’ di buona volontà. E questo non può che significare una cosa: l’inizio della fine. Lo avevo sempre sentito dire, che i malati terminali qualche ora prima dell’istante fatidico migliorano notevolmente. Non so se esista una spiegazione scientifica, per questo. Io però una idea me la sono fatta: la sofferenza, nell’organismo vivente, non è un fardello imposto da una Natura cinica e sadica; è uno stimolo alla difesa, anche se spesso esagerato ed inutilmente protratto nel tempo. Ma quando davvero nulla è più possibile, è lo stesso corpo a rendersene conto: ed allora si prodiga per rendere la sua stessa fine più dignitosa. Scaricando a valanga le droghe naturali delle cui riserve esso abbonda.

Ecco perché sto vivendo uno stato di benessere fisico e di beatitudine mentale. Quanti pensieri chiari e distinti; quanti ricordi nitidi. Quante cose potrei fare se avessi a disposizione anche solo un altro mese, in questo stato. Invece devo affrettarmi. Completare e sigillare questi fogli, affidarli a tua madre e raccomandarle quando e come darteli; poi salutarvi, abbracciarvi trattenendo le lacrime. Ho cercato di prepararti, a ciò che sta succedendo, in queste ultime settimane: ti ho raccontato come meglio potevo il mio punto di vista sul senso dell’essere al mondo; di quanto sia effimera questa realtà; della felicità che mi avresti donato serbando di me un ricordo non inquinato dal dolore per la mancanza; perché forse dovevo andar via col corpo – ti ho detto – ma che sarei rimasto nella tua memoria per sempre. Ti ho anche regalato dei libri, da leggere quando fossi stata abbastanza grande per comprenderli: Platone, Spinoza, Schopenhauer... Anche tutti gli altri, li ho lasciati a te. Chissà se ne hai letto qualcuno; se ti hanno aiutato a capire; se li conservi ancora.

Stanotte ho sognato tanto. Ho vagato per luoghi e coscienze. Ricordo due occhi neri, ed un sorriso. Poi sei comparsa tu. lo ero già morto, ne ero cosciente, ma non coglievo la differenza con l’essere vivi. Condividevamo uno spazio irreale e ci capivamo senza bisogno di parlare. Stavamo bene: "Visto che avevo ragione a dirti di non preoccuparti? Sono rimasto con te. Dillo a tutti, che la morte non esiste, e che la vita è solo un’illusione delle nostre menti". Questo, ti dicevo accarezzandoti.

Quando mi sono svegliato non avevo dolori. Ed ho capito.

‘Ora, non mi resta che cercare di raccoglierla fra le mani, l’essenza del mio essere’, ho pensato. Gli occhi dapprima chiusi, poi socchiusi, infine spalancati; il corpo debole, arreso alla gravità, ma estraneo alla mente; non avvertivo neanche più lo scorrere del tempo: solo un lungo presente. Sono stato felice di essermi destato per l’ultima volta nel letto di casa. Quello che era giusto tentare, è stato fatto qui. Non l’avrei sopportata, una fine così lenta e lucida in un ospedale; dove l’accettazione della malattia e della morte perde finanche la sua aura d’eroismo.

In fondo, mi sento fortunato. La fine dell’abisso era là che attendeva. Non era che una questione di tempo. Sono sempre stato terribilmente curioso. In tutto vi è del bene e del male. Troverò del bene anche in quest’ultima esperienza rapida ed intensa.

È estate. Non saprei dire l’ora; non hanno più alcun senso per me gli orologi. È quasi buio. C’è qualcosa che comincia a non andare, è ancora impercettibile, ma lo sento.

Morirò questa notte.

Ho posato i fogli sul comodino e ti ho chiamata. Mi ha dato un’emozione terribile, sapere di poterti guardare ancora una sola volta; non sono riuscito a parlarti. Doveva essere così per quelli che si imbarcavano su un bastimento per l’America. È vero, c’era sempre la speranza, ma anche la vita a rendere insopportabile il distacco. Io non ho speranza, ma non avrò neanche più una mente per pensare.

Ti ho solo detto che mi bruciavano gli occhi, che ero stanco; e che dovevi andare a dormire dalla zia. Quando sei andata via, convinta di tornare al mattino e ritrovarmi, ho completato in fretta queste ultime righe sperando che arrivasse presto ciò che doveva arrivare.

Ho pensato ai pochi, pochissimi che avrei voluto davvero vedere e non potevo. Avrei voluto ringraziare coloro che mi hanno curato, che si sono prodigati per risparmiarmi quantomeno la sofferenza. In questo letto che è mio e che mi consola.

 

Non passano mai, le ultime ore.

Ora chiuderò la lettera in una busta sulla quale scriverò il tuo nome. "Da aprire non prima del 23 giugno 2021", vi aggiungerò. Non so neanche bene perché sto facendo questo. Forse è un modo per continuare ad esistere su un immaginario ponte proteso oltre la morte. Per ricordarti che sono ancora con te, dopo tanti anni. Per lasciare un’impronta di questi ultimi istanti vissuti serenamente.

Goditi sempre il tempo, amore mio, epurandolo dalle impurità inessenziali.

Non le sopporto proprio, queste ultime ore. Non hanno senso.

Non hanno un futuro in cui sbocciare.

Aspetterò la fine pensandoti.

 

 
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