Creato da CabiriaTheBride il 10/12/2010

CabiriaTheBride

Qui Non Arrivano Gli Ordini...

 

La parola è per metà di colui che parla,
per metà di colui che ascolta
(Montaigne)

 

 

te lo dico
sottovoce...

 

 

  ...se d'improvviso mi dimentichi
               non cercarmi
      che già ti avrò dimenticato...

 

 

 

 

 

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Il lavoro nobilita?

Post n°6 pubblicato il 04 Gennaio 2011 da CabiriaTheBride

Il lavoro non sempre lo puoi scegliere

a volte tra te e i tuoi sogni ci sono necessità, scadenze e obblighi che richiedono un compromesso… e allora dici: “ma sì, lo farò solo per qualche mese… finisco di pagare quel prestito, metto qualcosa da parte e poi mi dedico nuovamente ai miei progetti”

 

…e così mi sono ritrovata a fare la commessa in un negozio di abbigliamento.

“bellooo, interessante”  qualcuno aveva avuto anche il coraggio di commentare…

Cosa ci trovassero di bello e interessante nel vendere vestiti a persone spesso indecise, assillanti e complessate non lo so…

 

E poi ho iniziato.

 

Il proprietario non c’è mai… ma ci sono i responsabili.

Lei sposata, lui pure, non tra di loro… però…

Però a vederli…

E ci sono le altre commesse, tutte trattate come animali… tutte tranne una.

L’amica della responsabile che ormai si atteggia a “padrona di casa” anche lei. Mangia e impartisce ordini, spesso stupidi e privi di senso. Anche lei è sposata.

Osservando questo trio medusa, la seconda cosa che verrebbe voglia di fare, (la prima non si può dire) è quella di dedicarsi allo spionaggio e, come un agente 007, far sapere ai rispettivi mariti, alla moglie, al vero proprietario… tutto quello che succede.

 

Quando arrivano le due signore, truccate come Moira Orfei e sorridenti come iene, si siedono e mangiano come fossero maiali: brioche, biscotti, merendine, cioccolate, cappuccini… tutto offerto dall’altro responsabile a cui è stato promesso qualcosa. Le formalità con loro si sono perse da un pezzo; non salutano, non offrono e se è la tua giornata fortunata, non ti considerano affatto. Ma se è qualcun altro ad andare a prendere un caffè e non offrire, se quando arrivano non ci si mette tutti sull’attenti per salutare “apriti cielo” tacciati come cafoni, maleducati, villani, rozzi, incivili! E affermano tutto con molta convinzione!

 

Arrivano i clienti, è il momento del vittimismo amichevole. Le senti lamentarsi dei mariti, poverine… vittime di quegli stronzi che non le capiscono (e infatti se avessero capito qualcosa…) poi arrivano i rappresentanti o qualche cliente dall’aria tenebrosa, procede così la trasformazione, prima maiali, poi agnelli sacrificali e adesso vacche.

Entra una cliente, dice alle altre commesse che la commessa manager è la sua preferita perché molto garbata. Quando la cliente va via, la molto garbata la manda a quel paese. Suona il telefono, rispondo io, è il responsabile che mi dice di dire all’altra responsabile “sta venendo”

Poco dopo entra il proprietario del negozio, le vacche adesso sono due formichine laboriose.

La responsabile parla col proprietario, ammicca e si mostra molto interessata ai suoi affari.

Davvero interessanti i commenti del trio medusa sul proprietario dopo che questi è andato via.

Ma adesso alle due formiche spuntano le ali e possono andar a fare una passeggiata per qualche ora, “tanto quello non torna fino a stasera” mentre l’altro, l’insetto che striscia, rimane a vigilare.

 

Approfittando dell’assenza di quelle due specie di anellidi, il responsabile mi fa capire che gli piaccio, che se sc..o con lui non devo sco..are il pavimento. Di colpo è dolcissimo, premuroso, attento, si preoccupa per me. Ma quando le appartenenti alla sottoclasse hirudinea tornano, anche lui si trasforma e per timore che le sanguisughe possano sospettare qualcosa mi tratta malissimo davanti a loro, tanto che una delle due prima applaude e poi lo premia con un bacio con tanto di schiocco! Che schifo di gente.

 

Ogni tanto si chiudono in camerino, indossano qualche nuovo arrivo e se il responsabile approva (dopo una sua attenta valutazione che spesso prevede il toccare con mano) l’abito finisce magicamente in borsa (che è più una valigia) senza passare dalla cassa.

 

Il mio ultimo giorno di lavoro.

 

Le due sorellastre malefiche commentano che il responsabile con me è diventato troppo generoso, educato, addirittura gentile. La mia presenza lo distrae da loro, sembra perfino più tollerante con le altre ragazze. Quando le rimprovera non urla, è paziente ma soprattutto è sempre meno incline a quei pettegolezzi da pollaio a cui le due galline sembrano invece non poter proprio fare a meno.

Ho portato scompiglio!

La sera prima ho fatto io la chiusura cassa e tutto (assegni, contanti, prelievi), tutto quadrava perfettamente. La commessa manager all’ora di pranzo, cioè dopo una mezza giornata di lavoro, dice che mancano 50€ e che sicuramente ho sbagliato io la sera prima. Devo metterli di tasca mia. Ma non basta, cenerentola merita una punizione coi fiocchi. Un intero pomeriggio di pretese insensate, di gesti meschini, di cattiverie gratuite.

Nel frattempo assisto al solito troi..io: una donna in camerino sta provando alcuni vestiti. Il marito, che l’aspetta alla cassa, ride e scherza con la responsabile. Sono amici, si conoscono da tempo. Lei prende un peluche e inizia a fare battute inizialmente maliziose poi sempre più esplicite, volgari… espressioni che farebbero rabbrividire anche il più triviale degli scaricatori di porto. La donna esce dal camerino per chiedere un parere al marito, il marito si secca, sbraita, la manda a cag…e, poi si volta verso la responsabile e con occhi languidi ritornano alle loro battutine.  Questo teatrino dura un po’. Prima di andare via la responsabile invita l’uomo ad una cena con altri amici “lo lasci venire vero?” “è un po’ gelosa” risponde l’uomo…(vabbè "uomo") “in passato abbiamo litigato diverse volte per la sua gelosia” “ma non gelosa di me… di me lo sai che ti puoi fidare” insiste la responsabile; infine la poveretta prende la parola “sì di te mi fido, lo so che sei mia amica” risponde con l’aria docile e gli occhi tristi. Provo pena per lei, rabbia per quegli atteggiamenti luridi, vorrei urlagli in faccia quanto li trovi entrambi ripugnanti. La sera alla chiusura cassa mancano 150€.  Dobbiamo fare a metà, io e l’altra ragazza… le due naturalmente non verseranno un centesimo.

Quando ne parlo con l’altra ragazza risponde che ormai non c’è niente da fare, che bisogna adattarsi se non si vuole perdere il posto di lavoro.

Io non mi voglio adattare. Non voglio considerare l’ingiustizia un’abitudine.

Decido di parlarne con il proprietario… è uno alla buona.

Ma un giorno non c’è, un altro ha troppa fretta e un altro ancora non è il momento.

Chissà forse quegli individui scorretti su cui pone tanta fiducia un po’ se li merita.

In ogni caso non è più un problema mio.

ME  NE VADO e, mentre chiudo educatamente la porta, nella mia mente galoppa questo cavallo di battaglia...

 

 

 

 

...

CabiriaTheBride

 

 

 

 

 
 
 

h.00:56

Post n°5 pubblicato il 04 Gennaio 2011 da CabiriaTheBride

Io sono il lupo.
La
fame è la mia compagna,
la solitudine la mia sicurezza
un'eterna, triste condanna.
Io sono l'istinto.
Passi svelti nella notte,
il freddo è il mio giaciglio,
il vento la mia sola coperta.
Io sono il silenzio.
Un'ombra nella foresta
impronte lungo il fiume
occhi di brace nel profondo buio.
Io sono il mistero.
Canti d'amore alla luna,
lunghe corse inseguendo fantasmi,
ombre e tracce di odori e suoni.
Io sono il sogno.
La libertà pura, assoluta
che tracima violenta
su stagioni senza tempo.
Io sono alfa e omega
neve rossa d'ignare prede,
soffio di nuova vita
chiusura del naturale anello.
Io sarò forse ucciso,
mai disperso, cancellato
come immortale spirito del bosco
di nuovo vigore sarò creato.
Io sono il lupo.

(dal Web)

 
 
 

Monologo

Post n°3 pubblicato il 02 Gennaio 2011 da CabiriaTheBride

 

Lettera di un malato terminale a sua figlia

È già da alcune settimane, che penso di scriverti. Poi i dolori, l’abbandono agli effetti dalla morfina, le lunghe visite degli amici, le letture per distrarmi…, tutto ciò me lo ha impedito.

Ho provato a scriverne altre, di lettere, in quest’ultimo anno e mezzo, ma ad un certo punto mi bloccavo, le facevo in mille pezzi e le buttavo via. Erano per tuo fratello, il quale, per la notevole differenza d’età ti ha sempre considerata il suo giocattolo, ma che ormai, preso fra studi, ragazza ed amici quasi non vedi più a casa; per la mamma; e per poche altre persone care.

Fu forte, l’impulso a cercare di lasciare pensieri scritti, dopo l’atroce verdetto di quell’11 novembre. C’era nebbia; silenzio, nell’aria; buio. Ero voluto andare da solo, in ospedale a ritirare le analisi. Stavo bene, sembrava fosse una sciocchezza: "faccia questi esami – mi aveva detto il dottore – , solo per toglierci il dubbio".

Ed il "dubbio" in quel momento era collassato; ma sull’altro versante: quello dell’inferno. Pretesi la verità. Feci domande mirate. Mentii, dicendo che non sarei tornato a casa da solo, che c’erano due amici che mi aspettavano, giù al bar. La dottoressa si rese conto di avere di fronte una persona logica e determinata e non oppose resistenza. 

 

Avevamo festeggiato il mio compleanno, poche settimane prima. Il 21 ottobre. Quarantasette anni. Mi aiutasti a spegnere le candeline, poi facemmo progetti per il futuro. Tutti segreti fra me e te, ce lo giurammo.

"Progetti"! Si sciolse il significato della parola, nella mia mente, quella mattina, appena varcato l’uscio dell’inquietante cubo di cemento avvolto nel grigiore.

Assicurai a me stesso che non avrei esalato il mio ultimo respiro là dentro.

Al ritorno guidai piano, pianissimo. Un tir che avevo dietro stava per travolgermi, nel fitto delle bianche goccioline d’acqua sospese nell’aria. L’autista suonò come un pazzo, lo vidi imprecare e gesticolare; mi feci da parte per farlo passare avanti. Avrei voluto dirgli: "Che fretta c’è? Ci dimeniamo come matti solo per non pensare alla fine che ci tocca, prima o poi. L’unica differenza fra noi è che io so dov’è il mio capolinea. E tu no. Ma cosa sono dieci anni in più o in meno rispetto all’eternità?".

Poi rinsavii. Aveva ragione lui.

Una volta a casa, poggiai le carte sul tavolo e per due giorni interi non dissi una sola parola. A te lasciai intendere che non potevo parlare perché avevo mal di denti.

"Il linguaggio è la casa dell’essere", aveva scritto da qualche parte un pensatore che immagino ora tu conosca. Mi resi conto, quel giorno, che forse era vero. E per questo io non riuscivo a parlare. Non sentivo più il possesso del mio essere; e di conseguenza, non riuscivo ad entrare in quella "casa".

Ma il terzo giorno, un sabato mattina, mi svegliai con animo diverso e decisi di tornare alla normalità. "D’accordo – mi dissi – , prendiamola così: sarebbe potuta finire in un altro momento, magari in maniera brusca, come succede a tanti altri. Non è andata in tal modo. Pazienza. Ora sei come un pellegrino nel deserto; con una sola boraccia piena d’acqua; Sai che devi farne tesoro; bevi lentamente ed a piccoli sorsi, finché ne hai a disposizione; non puoi permetterti di sprecarla; ne apprezzerai il sapore come non avresti mai immaginati potesse essere possibile.

E così sono arrivato fino ad oggi, superando le aspettative vita di oltre un anno. Probabilmente anche grazie all’assunzione di tale atteggiamento, suggeritomi dalla necessità e dagli affetti. La mente ha un gran potere, sul corpo.

Ma ora sento di essere davvero alla fine. Ho chiesto a tua madre di inventare qualche scusa e di non far entrare più nessuno, in questa stanza. Fatta eccezione per te. Questo è il quinto giorno che trascorro così: in silenzio, con tanti libri che non aprirò mai più, e carta bianca sul comodino; e tu – chissà se ne serberai memoria! – che ogni tanto arrivi, giri attorno al mio letto, sali su e ti sistemi a cavalcioni sulle mie gambe, mi abbracci facendomi tante domande e riempiendomi le guance di baci. Quando la tua esuberanza mi provoca dolori, cerco di nascondertelo. Il tuo è l’unico sguardo che riesco a sopportare a lungo: poiché l’età ti porta ad essere completamente immersa nel tempo delle cose e degli eventi; e così diventi la più saggia di tutti, dato che per me, ormai, non esiste che un morso di presente da consumare. E marcio, anche.

Tutti gli altri, non riesco a guardarli negli occhi. Mi dicono che ce la farò, che la fase critica è passata.

So che non è vero. Ma sarebbe sadico, proiettare nei loro animi fragili l’autocoscienza limpida che ho della morte. È probabile che loro, questa mia consapevolezza, l’abbiano intuita e fingano a loro volta. E così continuiamo ad andare avanti senza troppa discontinuità, in questa commedia pirandelliana che è l’esistenza.

Del resto, è la soluzione migliore per tutti.

La vita è come un prezioso oggetto di cristallo buttato giù da un dirupo subito dopo essere stato costruito. Non si sa quanto la voragine sia profonda: solo approssimativamente, in media; e mai il preciso momento dell’impatto. Può anche venir fuori uno spuntone; in qualsiasi istante, sin dall’inizio del percorso; oppure, un difetto di "costruzione", o altro, può far sì che la struttura non regga a lungo all’attrito con l’aria. Nel migliore dei casi, c’è solo da attendere, senza pensarci, l’avvicinarsi del fondo buio; ad una velocità sempre più rapida man mano che si va avanti, nel tunnel del tempo.

Gli animali, forse, si accorgono della fine solo all’ultimo istante. L’uomo, invece ne diviene consapevole sin dall’infanzia. Ma in maniera dapprima vaga, quasi irreale; poi ignorandola, come se fosse cosa improbabile, alla stessa stregua di riuscire a diventare ricchissimi giocando casualmente un euro al lotto.

L’ignoranza del "quando" e del "come" avverrà, lo aiuta in qualche modo a sentirsi immortale, con tutto il bene ed il male che ciò comporta.

Solo la vicinanza di un moribondo, ridesta dall’assopimento e fa emergere il pensiero, sepolto nella coscienza. Si ride con chi ride; si piange con chi piange. Un po’ ci si affaccia nell’ombra della propria morte con chi muore.

Così tutti pensano di dovermi consolare. Ed anche per questo, ho scelto di non vedere più nessuno. Dovrei essere io, a consolare loro; a scusarmi – soprattutto con te – per non essere riuscito a portare a termine quanto dovevo e volevo fare.

Non ho paura. Sono solo arrabbiato. La consapevolezza di dover morire mette solo imbarazzo. Me ne vergogno.

Stamattina è passato Michele. Forse per l’ultima volta. Ci hai fatto amicizia anche tu, a furia di vederlo a casa.

La sua presenza non mi ha mai dato fastidio: mi ha attaccato la flebo mentre sparava una delle sue solite battute. Lui è abituato a camminare sul bordo; e lo ha vinto da tempo, il terrore della fine riflessa nell’abisso degli altri. Mi ha guardato come lo avrebbe fatto se mi avesse incontrato in un bar, in un giorno qualsiasi, in una situazione diversa, banale, quotidiana. Eppure deve aver capito. Gli ho rifiutato la dose quotidiana di morfina.

Mi sento stranamente bene, oggi. Penso che potrei mettermi in piedi, con un po’ di buona volontà. E questo non può che significare una cosa: l’inizio della fine. Lo avevo sempre sentito dire, che i malati terminali qualche ora prima dell’istante fatidico migliorano notevolmente. Non so se esista una spiegazione scientifica, per questo. Io però una idea me la sono fatta: la sofferenza, nell’organismo vivente, non è un fardello imposto da una Natura cinica e sadica; è uno stimolo alla difesa, anche se spesso esagerato ed inutilmente protratto nel tempo. Ma quando davvero nulla è più possibile, è lo stesso corpo a rendersene conto: ed allora si prodiga per rendere la sua stessa fine più dignitosa. Scaricando a valanga le droghe naturali delle cui riserve esso abbonda.

Ecco perché sto vivendo uno stato di benessere fisico e di beatitudine mentale. Quanti pensieri chiari e distinti; quanti ricordi nitidi. Quante cose potrei fare se avessi a disposizione anche solo un altro mese, in questo stato. Invece devo affrettarmi. Completare e sigillare questi fogli, affidarli a tua madre e raccomandarle quando e come darteli; poi salutarvi, abbracciarvi trattenendo le lacrime. Ho cercato di prepararti, a ciò che sta succedendo, in queste ultime settimane: ti ho raccontato come meglio potevo il mio punto di vista sul senso dell’essere al mondo; di quanto sia effimera questa realtà; della felicità che mi avresti donato serbando di me un ricordo non inquinato dal dolore per la mancanza; perché forse dovevo andar via col corpo – ti ho detto – ma che sarei rimasto nella tua memoria per sempre. Ti ho anche regalato dei libri, da leggere quando fossi stata abbastanza grande per comprenderli: Platone, Spinoza, Schopenhauer... Anche tutti gli altri, li ho lasciati a te. Chissà se ne hai letto qualcuno; se ti hanno aiutato a capire; se li conservi ancora.

Stanotte ho sognato tanto. Ho vagato per luoghi e coscienze. Ricordo due occhi neri, ed un sorriso. Poi sei comparsa tu. lo ero già morto, ne ero cosciente, ma non coglievo la differenza con l’essere vivi. Condividevamo uno spazio irreale e ci capivamo senza bisogno di parlare. Stavamo bene: "Visto che avevo ragione a dirti di non preoccuparti? Sono rimasto con te. Dillo a tutti, che la morte non esiste, e che la vita è solo un’illusione delle nostre menti". Questo, ti dicevo accarezzandoti.

Quando mi sono svegliato non avevo dolori. Ed ho capito.

‘Ora, non mi resta che cercare di raccoglierla fra le mani, l’essenza del mio essere’, ho pensato. Gli occhi dapprima chiusi, poi socchiusi, infine spalancati; il corpo debole, arreso alla gravità, ma estraneo alla mente; non avvertivo neanche più lo scorrere del tempo: solo un lungo presente. Sono stato felice di essermi destato per l’ultima volta nel letto di casa. Quello che era giusto tentare, è stato fatto qui. Non l’avrei sopportata, una fine così lenta e lucida in un ospedale; dove l’accettazione della malattia e della morte perde finanche la sua aura d’eroismo.

In fondo, mi sento fortunato. La fine dell’abisso era là che attendeva. Non era che una questione di tempo. Sono sempre stato terribilmente curioso. In tutto vi è del bene e del male. Troverò del bene anche in quest’ultima esperienza rapida ed intensa.

È estate. Non saprei dire l’ora; non hanno più alcun senso per me gli orologi. È quasi buio. C’è qualcosa che comincia a non andare, è ancora impercettibile, ma lo sento.

Morirò questa notte.

Ho posato i fogli sul comodino e ti ho chiamata. Mi ha dato un’emozione terribile, sapere di poterti guardare ancora una sola volta; non sono riuscito a parlarti. Doveva essere così per quelli che si imbarcavano su un bastimento per l’America. È vero, c’era sempre la speranza, ma anche la vita a rendere insopportabile il distacco. Io non ho speranza, ma non avrò neanche più una mente per pensare.

Ti ho solo detto che mi bruciavano gli occhi, che ero stanco; e che dovevi andare a dormire dalla zia. Quando sei andata via, convinta di tornare al mattino e ritrovarmi, ho completato in fretta queste ultime righe sperando che arrivasse presto ciò che doveva arrivare.

Ho pensato ai pochi, pochissimi che avrei voluto davvero vedere e non potevo. Avrei voluto ringraziare coloro che mi hanno curato, che si sono prodigati per risparmiarmi quantomeno la sofferenza. In questo letto che è mio e che mi consola.

 

Non passano mai, le ultime ore.

Ora chiuderò la lettera in una busta sulla quale scriverò il tuo nome. "Da aprire non prima del 23 giugno 2021", vi aggiungerò. Non so neanche bene perché sto facendo questo. Forse è un modo per continuare ad esistere su un immaginario ponte proteso oltre la morte. Per ricordarti che sono ancora con te, dopo tanti anni. Per lasciare un’impronta di questi ultimi istanti vissuti serenamente.

Goditi sempre il tempo, amore mio, epurandolo dalle impurità inessenziali.

Non le sopporto proprio, queste ultime ore. Non hanno senso.

Non hanno un futuro in cui sbocciare.

Aspetterò la fine pensandoti.

 

 
 
 

C'era una volta...

Post n°2 pubblicato il 29 Dicembre 2010 da CabiriaTheBride

 

"La speranza appartiene ai figli.
Noi adulti abbiamo già sperato, e quasi sempre abbiamo perso."  (Mazzantini)

15 centesimi

Ai tempi in cui un gelato con sciroppo e frutta costava molto meno, un ragazzo di 10 anni entrò nel bar di un albergo e si sedette a un tavolo. Una cameriera mise un bicchiere d'acqua davanti a lui.
"Quanto costa un gelato con sciroppo e frutta?"
"50 centesimi" replicò la cameriera.
Il ragazzino tirò fuori la mano dalla tasca ed esaminò il numero di monete che aveva.
"Quanto costa una porzione di gelato normale?", s'informò.
Alcune persone stavano cercando un tavolo e la cameriera era un po' impaziente.
"35 centesimi" disse bruscamente. Il ragazzino contò ancora le monete.
"Prendo il gelato normale" disse.
La cameriera portò il gelato, mise il conto sul tavolo e se ne andò. Il ragazzino finì il gelato, pagò al cassiere e se ne andò. Quando la cameriera iniziò a pulire il tavolo rimase di stucco per quello che vide. Accanto al piatto vuoto, messi ordinatamente, c'erano 15 centesimi, la sua mancia.

tratto dal libro "L'importante è la Rosa" di Bruno Ferrero.

 
 
 

Ed io che sognavo...

Post n°1 pubblicato il 24 Dicembre 2010 da CabiriaTheBride
Foto di CabiriaTheBride

 

Sognavo un futuro

Un futuro presente solo in un passato distante

 

Sognavo di pace tolleranza e saggezza

Vedevo nell’arte la sola bellezza

 

Sognavo di giochi di sfide di corse e di fate

In spiagge e in colline di eterne risate

 

Sognavo momenti di tenerezza e d’amore

Il mio polo magnetico puntava al cuore

 

Sognavo il momento di andare lontano

E quello in cui ti avrei preso per mano

 

Sognavo un natale uguale per tutti

Senza fame violenze né note stridenti

 

Sognavo di sogni ormai persi arrestati

Sconfitti sbiaditi già abbandonati

 

Del profumo di viole di pioggia e di terra

Non resta che aria di rabbia e di guerra…  CabiriaTheBride

 

 
 
 
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 *Hana Wa Sakura
Gi Hito Wa Bushi*

 

LA FOLLIA E IL SUO GIOCO

 

 

 

IL MIO TEMPO SOGNATO...

 

 Coloro che danzavano erano considerati folli
da quelli che non riuscivano a sentire la musica.
(Monet)

 

 

 

 

 

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storia carina
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