Altro contributo mandato da Angelo
Luigi Giussani, il prete di Desio
Il libro di Claudio Risé dal titolo "Felicità è donarsi" verrà presentato il 28 agosto al Meeting di Rimini. Ne anticipiamo alcune pagine che raccontano l'incontro avvenuto tra l'autore e mons. Luigi Giussani.
A 16 anni, volli la «scuola pubblica». Volevo vedere quel mondo di alunni e insegnanti che le scuole un po' protette che mi avevano accolto fino ad allora mi avevano nascosto. Le esperienze non mancarono.
Ma, sul dono, e la felicità, una fu quella centrale. Ricordo che l'uomo, al suo primo ingresso con noi, si fece avanti a passo veloce, come uno che non ha un minuto da perdere.
Molto diverso dagli altri professori, anche bravi, che entravano in classe dopo aver percorso avanti e indietro il corridoio infinite volte, in conversazioni fra loro cui si strappavano a fatica, prolungando all'infinito l'intervallo, mentre noi dovevamo aspettarli in classe, chiacchierando a nostra volta, ma senza far chiasso, in modo che in presidenza tutto sembrasse normale. L'uomo con la tonaca era il nostro nuovo insegnante di religione, appena arrivato al liceo Berchet, la roccaforte della borghesia laica.
Ci guardava sorridendo, si capiva che teneva a noi, ma non aveva complessi. I miei compagni, i ragazzi della fucina dell'intellighentia milanese, lo guardavano, inizialmente, con sufficienza.
Si capiva che l'eleganza formale, e i manierismi della borghesia colta non lo interessavano affatto, che li vedeva come forme di difesa da qualcos'altro, più sostanziale. Per me, invece, fu proprio questo, al primo incontro, a interessarmi.
L'uomo di Desio, il cui nome era Luigi Giussani, aveva (anche nel contatto fisico, ricco di pacche, strette, spintoni), una specie di spontanea selvatichezza, eccezionalmente vitale e arcaica, in un ambiente in cui le nevrosi della ipercivilizzazione si tagliavano già con il coltello, impregnando le aule, le lezioni, gli intervalli, le amicizie, gli amori.
Mi ricordo il suo arrivo come una specie di ciclone, dopo il quale nulla nella scuola fu più come prima, né per gli altri, né per me. Si spendeva senza economia, per far battere il nostro cuore, che presentava già leggeri strati di pietrificazione. Ma il suo interesse non aveva nulla di materno, non era preoccupato di rassicurarci, di avere il nostro consenso. Era piuttosto, con ogni evidenza, un giovane padre esigente, che ci sollecitava allo spasimo a tirar fuori ciò che avevamo dentro, a essere coraggiosi, a spenderci, come faceva lui.
Ci chiedeva di non essere avari, perché questo conduceva a una povertà affettiva, spirituale, intellettuale. «Tirate fuori quel che avete dentro», imprecava. E incalzava ricordando brani del Vangelo già allora poco popolari: «Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha» (Mt 13,12; 25,29). Questo suo insistere sulla ricchezza da tirar fuori, e spendere, assieme alla sua vitale selvatichezza, mi piacque molto.
Finalmente un prete che presentava il cristianesimo come una religione della ricchezza e del dispendio, mentre tutti intorno lo mostravano come una specie di gigantesca, millenaria, Caritas, ossessionata dalla povertà, e dominata dall'imperativo del soddisfacimento del bisogno. Un cristianesimo, quello ufficiale (molto diverso da quello di Giussani, che infatti di lì a poco fu spedito in America), distante quindi anni luce dalla passione del desiderio, che era quello che a me importava (ma mi sembrava che anche per Gesù il punto fosse quello: «Non di solo pane vive l'uomo...»).
Al prete di Desio, invece, non interessava affatto che ci esponessimo in generiche posizioni morali. Il cristianesimo, insisteva, non è una morale, un discorso, una filosofia, un sistema di pensiero.
Gli interessava però qualcosa di molto più impegnativo, più personale, e che era molto più conturbante, almeno per me.
Il cristianesimo, incalzava, è tutto in un fatto, un incontro. Quello con Gesù Cristo. Un uomo che diceva di essere Dio. E a questo punto diventava pressante, non era più disposto a mollare la presa: «Voi cosa ne pensate? Lo avete incontrato? Volete incontrarlo o no? Lo era veramente, Dio? Era un impostore, un pazzo? Tutta la vostra vita dipende dalla risposta che date a queste domande.
Anche perché Gesù potrete incontrarlo ogni giorno, se solo lo volete». Su questa domanda martellante (così, almeno, io la percepivo) del prete la scuola si divideva. Molti, in genere chi aveva una salda educazione cattolica, aderivano entusiasticamente a questo annuncio di un uomo-Dio, vivo, di carne, che dava loro la possibilità, ri/annunciandolo, di fare di ogni incontro umano un incontro sacro, dotato della stessa energia, e senso.
Chi veniva da un'educazione laica a volte veniva colpito, e provava a «vedere», come giocasse a poker. Più spesso, però, usava gli strumenti che, aveva più sottomano, positivismo, idealismo, marxismo, per liquidare la questione come una favola, o una visione patologica, che la Chiesa ripeteva per conservarsi. Per quanto mi riguardava, sentivo oscuramente che la domanda dell'insegnante di religione, «il Gius» (come lo chiamavano i molti che avevano preso ad amarlo), aveva a che fare con l'impiego delle luce ricevuta, e con il trovare finalmente il modo di spenderla, di rimetterla in circolazione, a disposizione degli altri. Io non avevo nessun dubbio su Gesù, di cui cercavo la carne e il sangue appena potevo, fin dalla Prima comunione.
Però quella domanda insistente, tu cosa ne fai di quest'incontro, tu come lo annunci agli altri, come lo metti al centro della tua vita, mi metteva in forte difficoltà.
Mi irritava anche, era diventata una presenza con-turbante, come una ragazza di cui sei innamorato, ma con la quale non osi farti avanti perché senti che rischia di essere una storia per la vita. E, avaramente, ti trattieni. Alla fine, in un tira e molla di interesse, e repulsione, non ci misi molto a capire che, semplicemente, io quell'incontro, con Gesù, non lo annunciavo.
Certo, non ero cattivo, non facevo consapevolmente del male, o almeno cercavo di non farlo, amavo la vita, gli altri, spesso ero anche generoso. Ma non in quello, nell'annuncio del mio incontro con l'uomo-Dio. Quello me lo tenevo per me. Non avevo ancora smesso di coltivare le mie, non ancora riconosciute, avarizie. Che erano poi i miei personali, e anche egoistici piaceri, cui non volevo rinunciare, anche se non volevo nemmeno rinunciare al corpo di Gesù Cristo. Volevo il dono, e lo praticavo dove mi veniva naturale, ma non ero disposto a darmi a quelle persone e in quei modi che me l'avrebbero reso più costoso. La luce era arrivata, ma io ero ancora un giovane della middle upper class che voleva soprattutto divertirsi.
La convenzionalità borghese era ancora una strada che mi toccava percorrere, fino in fondo. Anche se, nel corso del tempo, proprio quel manierismo micragnoso mi avrebbe dato sempre più fastidio, e infine, finalmente, fatto orrore, fino a dedicare tutto il mio lavoro, sia nella psicologia sia nelle scienze sociali, allo svelamento delle sue patologie, e della sua distruttività. E tuttavia, dice Carl Gustav Jung, nessuno può deporre il proprio bicchiere prima di averlo svuotato. Io certamente non ne sono stato capace. Il problema, quando il liquido contiene una buona dose di veleni, è quello di arrivare a svuotare il bicchiere, riuscendo a sopravvivergli.
Tratto da: Claudio Risè, Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell'altro, Sperling, 2004, pag. 35-39
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