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Intervista a David Grossman di Silvia Bergero
Post n°129 pubblicato il 04 Dicembre 2008 da atellibrai
«NON ARRENDERSI ALLA PAURA, SCEGLIERE LA VITA E L’AMORE» Solo così si può vivere e non solo sopravvivere. Nel suo nuovo romanzo David Grossman racconta una storia lunga 40 anni: di Israele, di persone comuni, di una famiglia. E di una madre, perché «le donne sono capaci di entrare in contatto con l’anima»e di scrittore. Eppur David Grossman è un signore israeliano di 54 anni, minuto, con gli occhiali, schivo (forse un po’ timido), dal sorriso aperto e dall’intelligenza fuori norma. Come fuori norma è la sua capacità empatica, si tratti di persone reali o dei personaggi della sua immaginazione di scrittore. Eppure la gioia di intervistarlo era accompagnata dalla preoccupazione. Di scegliere le parole giuste: Grossman è attentissimo e abilissimo nel trovare l’espressione più adatta a ciò che vuole esprimere, persino quando parla in inglese. E poi ci sono parole “sue” come vita, amore, sensibilità, compassione, intimità, sfumatura, famiglia. E altre che non ama usare: odio, vendetta. Soprattutto, però, temevo di essere indiscreta e indelicata con le mie domande, perché nella sua vita la finzione e la realtà, per un corto circuito perverso e tragico del destino, si sono sovrapposte. Nell’agosto 2006 David e sua moglie Michal hanno subito la più crudele e innaturale delle perdite: quella del figlio Uri, morto a 21 anni in guerra. All’epoca David stava lavorando al romanzo A un cerbiatto somiglia il mio amore (Mondadori), appena pubblicato in Italia. In una nota fuori testo si legge che la maggior parte era già scritta: «Ciò che era cambiato, era la cassa di risonanza della realtà in cui è avvenuta la sua stesura definitiva». I protagonisti sono Orah, Avram, Ilan amici, sposi, amanti a seconda del tempo e delle circostanze. Orah e Ilan sono sposati, la loro famiglia comprende il figlio Adam e Ofer, il bambino che Orah ha avuto da Avram, il quale non l’ha mai conosciuto. Avram è tornato dalla prigionia ferito, martoriato, torturato nel corpo e nello spirito e ha rinunciato alla vita. Quando Ofer parte per la guerra, la madre, terrorizzata dall’idea di vedere alla porta i tre ufficiali che – secondo protocollo - annunciano alla famiglia la caduta di un soldato, decide di partire a sua volta: se non c’è, non potranno darle la notizia. Recupera Avram e lo trascina in un viaggio a piedi in Galilea, che è anche un racconto minuzioso della vita di Ofer, della sua infanzia, dell’uomo che è diventato. Raccontare di lui, secondo Orah, lo proteggerà, lo terrà in vita. È lo stesso sentire che Grossman dichiara di aver avuto nei confronti di Uri, mentre scriveva il libro. Dunque partiamo dal romanzo. L’inizio è folgorante: nel buio di un ospedale, tre adolescenti in quarantena fanno amicizia. Diventeranno i lati di un triangolo scaleno che durerà tutta la vita. «Inizia come un radiodramma, non si vede nulla, si sentono solo le voci dei tre ragazzi, immersi nel buio del coprifuoco, e Avram dice di adorare i radiodrammi. Allo stesso modo, durante la guerra del Canale di Suez, quando Avram ferito resta da solo nella postazione, mentre stanno arrivando gli egiziani, comincia a parlare a una trasmittente danneggiata, a chiedere aiuto, a delirare - ignorando che da qualche parte Ilan lo sta ascoltando. Ci sono anche altri stili, però: ho voluto regalarmi il tempo per scrivere nei più minuti dettagli le situazioni umane più comuni e anche più interessanti nelle loro sfumature... Per esempio la vita di famiglia, la vita matrimoniale, che cosa significa crescere dei bambini, addirittura cosa significa essere un bambino, come cambia il suo punto di vista del mondo quando improvvisamente non gattona più, le paure dei genitori per i figli». Sembra un’opera pensata a lungo... nel frattempo, magari, ha scritto altro? «No, no, quando lavoro a un libro non riesco a scrivere neanche la lista della spesa. La struttura, all’inizio non mi era chiara. Sapevo di voler scrivere una cosa ampia, non un libro fastfood, un romanzo nella tradizione dei grandi libri, coprendo 40 anni della nostra storia, dalla Guerra dei sei giorni (1967, ndr.) fino a oggi». 40 anni di storia e di storie dei personaggi, ma non in ordine cronologico... «Ci sono continui flashback, salti nel passato e nel futuro, legami tra immagini del passato e del futuro, una parte fa eco all’altra, si rispondono e si chiamano». All’interno di questi rimandi la voce narrante è sempre quella di Orah? «Non ne sono sicuro. Può darsi che sia la voce di Avram, che condivide con lei il ruolo di personaggio principale: se si ricorda a un certo punto lui dice che scriverà questa storia, un giorno o l’altro. Può darsi che sia la sua storia, raccontata anni dopo. Ho lasciato la questione aperta, all’immaginazione di chi legge». Se è la storia della sua generazione, raccontata da Avram, devo dedurre che gli ha imprestato qualcosa di suo, David? «Diciamo che in genere i miei personaggi difficilmente passano attraverso la storia senza che io gli impresti qualcosa di mio, chi più chi meno e... Avram decisamente “più”... Forse è un mio alter ego». La sensibilità, l’emotività, l’intuito femminile di Orah però sono la cifra di tutto. «Sono assolutamente d’accordo con lei». Perché le donne - così precisamente descritte nelle minime sfumature - sono il fulcro delle sue storie? «Perché sono decisamente più interessanti degli uomini. Le donne che ho conosciuto sono sempre state più capaci di essere in contatto con l’anima, con le dinamiche interiori. Hanno anche più coraggio di osare, sono più flessibili degli uomini nel rapporto con la realtà, più sfaccettate. Specialmente qui, dove volevo descrivere le fondamenta della vita, come occorre stare attenti ai bambini, alla loro crescita, come si reagisce ai loro bisogni anche quando non li esprimono e quelle ondate di amore che i bambini provano. Allora ho pensato: sarò certamente più persuasivo se le vedo con gli occhi di una donna che è anche madre». La narrazione di Orah, protettiva nei confronti di Ofer, e la sua - il libro - sono un antidoto alla realtà? «Le donne sono più sovversive degli uomini. È il maschio che ha creato il sistema con tutte le sovrastrutture che in genere servono proprio a impoverire il potere intellettuale della donna. È come se le donne guardassero tutto ciò con un sorrisetto ironico e dicessero: è il solito gioco da uomini. Orah non è una rivoluzionaria, non è una ribelle nata, è una donna normalissima che conosce i suoi limiti, sa di non poter cambiare la realtà in Israele, dove è così fossilizzata. Allora ricorre a un atto pratico, andandosene da casa. Quest’azione però ha un grande significato simbolico, è un sacrificio enorme, perché non si rende disponibile per il proprio figlio in guerra, non sta attaccata al telefono ad aspettare le notizie. Decide di seguire il suo intuito, di voltare le spalle al mondo e di partire. Beh, per quanto le possa sembrare strano, questo comportamento non l’ho inventato io, l’ha pensato Orah... Spesso succede che i personaggi diano delle indicazioni, ma questa ha sorpreso anche me. Quando Orah me l’ha suggerito, però, ho pensato che avrebbe funzionato e l’ho lasciata fare. Lei obbedisce alla legge degli uomini perché non la può cambiare e perché suo figlio - che è un uomo - ha deciso di andare in guerra, ma ciò non fa parte della sua realtà. E allora ripesca Avram, lo salva dall’abisso di infelicità in cui era piombato, restituendogli il senso di vivere». L’ultima frase su Ofer è: fino a ieri sera stava bene. Non solo: la scena degli ufficiali che bussano alla porta, accade solo in un incubo di Orah. Il finale è aperto? «Non sappiamo se Orah salverà Ofer, ma intanto ha riportato Avram alla vita. Se ciò salverà Ofer, io questo non lo so». È un libro pervaso dal senso di minaccia e di paura: la guerra, prendere l’autobus, accompagnare i bambini a scuola. Poi c’è l’amore, altrettanto pervasivo. «La fotografia che lei ha tracciato è la realtà di tutti i giorni, quella in cui viviamo. In ogni momento, anche il più intimo, c’è sempre la guerra presente o la paura della guerra e ho cercato di mostrarlo: come nella scena d’amore tra Orah e Ilan, c’è sempre l’associazione violenza - amore. È come se la guerra si appropriasse della nostra vita intima, la confiscasse, la nazionalizzasse. E quando ce la fa è come se gli esseri umani si accartocciassero su se stessi dalla paura, dall’odio, dal sospetto e cercassero di vivere al minimo, perché se per un momento ti concedi il lusso di provare un sentimento, sarai sopraffatto dalla violenza della realtà. Io invece voglio mostrare il potere e la forza della vita, come l’immaginazione possa cambiare la storia, come sia possibile non sentirsi sempre impotenti, dopotutto, ma riuscire anche a superare la paura della guerra, la paura costante di perdere i tuoi figli. È questo che ci salva in Israele, scegliere la vita, non arrendersi mai alla paura, non arrendersi mai alla morte». Non ha mai pensato di andare a vivere altrove? «Io e mia moglie, la mia famiglia, ci siamo posti tante domande, dopo quello che ci è successo. Ci siamo chiesti se valesse la pena di vivere in un luogo così pericoloso, ma la mia risposta è: Israele è casa mia. Prima di me 80 generazioni di ebrei hanno trovato casa in Polonia, in Francia, ovunque, ma la loro aspirazione era Sion, la Palestina. Io sono stato fortunato perché sono nato quando lo Stato di Israele c’era già, ed è l’unico posto in cui non mi sento straniero, l’unico paese in cui si parla ebraico e io non vedo me stesso in un luogo dove l’ebraico non è la lingua madre. Certo sarebbe meglio che in Israele avessimo davvero la pace. Non solo quella tra noi e i palestinesi, ma quella cosa per cui ti senti bene, ti senti in pace, appunto, senza paura del futuro, senza pensare che potrebbe rovinarti addosso la casa, proprio ora. È questa paura permanente che ho cercato di descrivere nel libro, ma continuo anche a sperare che Israele possa diventare la mia casa nel mondo e anche - come Stato - parte integrante della famiglia delle genti. Forse è un sogno che vale la pena di sognare e forse vale la pena combattere perché il sogno si avveri. Anche se è vero che di solito si paga un prezzo molto alto per realizzare i propri sogni». Silvia Bergero è caposervizio libri e spettacoli «Grazia»
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