Creato da m.edea il 05/10/2007

Cantina

la cantina del mio cervello

 

 

Come fu che diventai donna (storia di un pesce rosso)

Post n°3 pubblicato il 06 Ottobre 2007 da m.edea
 

Il freddo di fine inverno a Roma è equiparabile alla frescura notturna di agosto nei paesi di montagna. La difficoltà maggiore che si presenta riguarda la scelta degli indumenti. Nicoletta suggeriva di diventare come le cipolle e indossare più vestiti, facili da sfilare e indossare nuovamente. Ho sempre odiato portare troppi abiti, l’idea di sembrare una salsiccia, non mi piaceva. Eravamo in quattro nella casa di Piazza Bologna; Nicoletta, Tati ed infine Desideria ed io. L’anno scorreva tranquillo tra esami all’università, incontri e minuziose elaborazioni mentali sull’esistenza. Diciamo pure che la mia vita dieci anni fa era così.

Ero bella, così dicevano. L’unica a non saperlo sembrava fossi proprio io. In casa l’atmosfera era serena. L’argomento preferito riguardava gli uomini.

Ne sapevo ben poco.

Quel giorno di fine marzo c’era un tumulto di ormoni, di donne desiderose di unire il loro corpo con quello di un altro. Ero l’unica casta, pura e con nessun desiderio fisico. Difficile a credersi.

Tacevo il mio segreto.

Le elucubrazioni e gli incontri li avevano soppiantati tutti. Ascoltavo divertita le loro storie e le loro voglie. Parlavano di relazioni e sesso con me come se fossi una mangiatrice di uomini, era divertente ascoltarle, ma ancor di più rispondere ai loro quesiti con una saggezza lucida e cinica, tipica ormai so, di chi è inesperto.

Desideria, se è vero che il nome è un destino lei il suo incarnava in pieno, quel giorno iniziò a raccontarmi nei dettagli come si sentiva  quando  faceva all’amore. Il contatto con il corpo dell’altro, diceva che, le faceva sentire maggiormente il proprio. Il sudore era il collante che faceva scivolare via il timore di inadeguatezza. Il momento in cui più si esaltava riguardava il raggiungimento del suo piacere, ripeteva che smarriva tutti i pensieri. La mente era completamente sgombra. Era strana la sensazione che mi trasmetteva. Io non avrei mai voluto perdere tutti i pensieri, neanche solo per minuto. Le sue parole mi imbarazzavano e incuriosivano. Parlava in modo lento e cadenzato, spesso questo suo modo mi provocava fastidio, quel giorno era sensuale. Desiderava e trasmetteva desiderio.

Io ascoltavo.

Le fanciulle di casa non sospettavano nulla. Io me ne guardavo bene dal raccontarlo, quel giorno di marzo poi avrei interrotto l’atmosfera di ormoni in festa. Ricordo il blando tentativo di empatizzare, di sentire con il corpo come Desideria diceva. Il mio corpo era lì incuriosito, ma non era in grado di sentire qualcosa che fin a quel momento non aveva conosciuto. Ero stata guardata, osservata, verbalmente apprezzata, ma l’idea di entrare in contatto con il corpo di qualcun altro mi sembrava obbrobriosa.

 

“Umori che si fondono” erano le parole di Tati.

“Corpi che si incastrano” erano le parole di Desideria.

“L’unico modo per comprendere l’altro” erano le parole di Nicoletta.

Ero silenziosa, senza nulla da dire o pensare.

L’arte delle seduzione la conoscevo bene, era il mio gioco preferito. Guardare per attirare l’attenzione, parlare per interessare e poi fuggire via. Sì insomma l’idea era quella di non doversi sporcare mai.

Il sesso è sporco, per questo piace. I corpi che si stringono e uniscono, gli umori che fuoriescono e si fondono, il sudore e tutto il resto hanno poco di pulito, come la morte. La traduzione di orgasmo in francese è “petite morte”, piccole morti estemporanee con relativo ritorno, ecco io di quelle piccole morti di cui parlavano le mie coinquiline non ne sapevo nulla.

Nessuno aveva esplorato nulla.

Ero vergine.

Avevo ventidue anni.

Gli uomini adorano le donne vergini, le donne invece le deridono. Per me l’idea che qualcuno potesse intaccare la mia unità era assurda e spaventosa, non concepivo, in linea teorica, l’idea che qualcuno mi potesse entrare dentro far morire e poi far tornare.  

Rimandavo il momento. 

Le biblioteche erano i miei luoghi d’incontro preferiti, in quel periodo studiavo per  l’esame di letteratura moderna e contemporanea. Adoravo Dostojevski e Rimbaud, mi piaceva Pasolini e Montale, non c’era spazio per altro o almeno così volevo credere. Quel giorno si avvicinò Amir, studente fuori corso in medicina, alto, atletico, moro, e soprattutto il fascino esotico dello straniero, è iraniano. Non ricordo cosa mi abbia detto; fece qualche complimento e le paure di mio padre si avverarono tutte.

C’è un preciso momento della vita di ognuno in cui ci si sgancia dai ruoli, guardandosi come persone nel mondo, mio padre osservandomi immagino vedesse la mia ingenuità, la mia bellezza e il mio torpore, sapeva, da uomo, che quella era l’arma di seduzione più pericolosa perché carica di inconsapevolezza, e di conseguenza non gestibile. Usava dire:

- I complimenti sono ipocrisia!-

L’iraniano mi chiese di uscire, accettai senza esitare. Tornai a casa con l’urgenza di raccontare che l’uomo più bello della casa dello studente mi aveva invitata a trascorrere una serata insieme. Non ci pensai più fino al giorno prestabilito. Quel pomeriggio lo dedicai alla preparazione di me; rito fatto di maschere all’argilla, oli profumati e unguenti per capelli, sfilate in casa con le mie amiche. Quando Amir citofonò ero emozionata, celai il mio imbarazzo con delle comuni battute:

- Lo faccio aspettare cinque minuti! -

Desi uscì di casa qualche minuto prima di me per buttare la spazzatura, incontrandoci sul portone facemmo finta di non conoscerci, il suo sguardo era pieno di approvazione.

Le ragazze erano divertite dal mio modo.

Ero ignara rispetto a cosa andassi incontro. Pensavo che il ragazzo più bello della biblioteca mi aveva invitato ad uscire, mi aspettava, era lì per me. Mi appariva tutto bellissimo. Scese dall’auto, una Uno bianca ricoperta di polvere, mi guardò da capo a piedi, aprendo la portiera chiese dove volessi andare, proposi un locale lì vicino dove suonavano musica dal vivo, sorrise, salii in macchina, girò la chiave, ci fu qualche mio tentativo di dialogo che miseramente decadde, nessuno dei due aprii più bocca. Cercavo di capire che strada stessimo percorrendo, era buio pesto, non un lampione, né una luce.

-Siamo arrivati!- Furono le sue prime parole.

Smarrita replicai che il pub non era lì. Rise, senza dire nulla. Mi disse di seguirlo, lo feci; oggi non so se per curiosità o paura di rimanere lì fuori, in un luogo completamente sconosciuto e cupo, scoprì presto che era più oscuro il posto dove da lì a poco mi sarei ritrovata.

Un lungo corridoio con delle porte sia a destra, sia a sinistra. Dal silenzio profondo dedussi che qualcuno stava dormendo. La completa assenza di rumore metteva paura, immaginavo che se avessi urlato nessuno avrebbe udito la mia voce. Mi portò in camera sua, un quadrato asettico, privo di personalità, di libri e di tutto il resto, neanche una foto. Mi si avvicinò, sentivo le sue mani dappertutto, la sua lingua mi si sbrodolava addosso, in quel momento ricordo che risi, pensavo al viscidume della scia che lasciano le lumache. Si fermò, e guardandomi negli occhi, in modo fermo ordinò:

-Spogliati.-

Risi ancora, ed ero già senza gli strati di abiti che mi difendevano. Ero nuda, davanti ad uomo di cui non conoscevo nulla, stesa sul letto, la salma di me stessa, non mi muovevo più. Pensavo ai racconti di Desi, alle parole di Tati e Nicoletta. Niente era simile a quello che avevo ascoltato.

Sarei voluta essere altrove. Iniziai a dimenarmi, mi disse che se ero lì, se ero arrivata fin lì era quello che volevo. Mi fece male, urlai prima che lui con la mano bloccasse la mia bocca. Nessuno udii la mia voce. Il mio corpo si rifiutava di sentire qualsiasi cosa. Anche il dolore che provava. Suppongo, che intuii che era la mia prima volta, quando decise di non usare il preservativo. Si muoveva su di me agitandosi, cercavo i suoi occhi, speravo finisse presto e mi riportasse a casa. L’operazione chirurgica terminò, io non ebbi il coraggio di dire niente. Mi raggomitolai su me stessa usando il lenzuolo per nascondermi. Si addormentò, dopo poco anch’io. Un sonno buio e nero quella notte, nessuna immagine che mi scaldasse almeno un po’. Mi portò il caffè a letto la mattina molto presto, non lo bevvi, accesi una sigaretta, aspettai che uscisse dalla stanza per rivestirmi, poi gli chiesi di riportarmi a casa solo perché non sapevo neanche dove mi trovassi.  Nicoletta mi aspettava, Desideria voleva sapere nei minimi dettagli, Tati non c’era. Io ero confusa con parole nella mente che si scontravano eliminandosi a vicenda. Qualcosa era cambiato. Le ragazze chiedevano, domandavano, volevano i particolari della mia notte trascorsa fuori, non ero in grado di descriverla. Avevo solo una certezza riguardo all’uomo più bello della biblioteca, non l’avrei voluto più vedere. Seguirono delle sue telefonate. Dissi alle ragazze di non passarmelo. Divertite eseguirono, i loro commenti riguardavano la mia capacità di non coinvolgimento. Non ne parlai con nessuno.

Il segreto era cambiato.

Qualche giorno dopo Desideria mi regalò un pesce rosso, lo chiamai Amir. Fui molto felice il giorno in cui lo vidi saltare fuori dalla boccia di vetro, volare per terra, agonizzare per qualche minuto sul marmo del pavimento e poi: morire.

 

 
 
 

 

Post n°1 pubblicato il 05 Ottobre 2007 da m.edea
 

Ringraziamenti

 

 

Devo molto

A quelli che non amo

 Il sollievo con cui accetto

Che siano più vicini a un altro

 La gioia di non essere io

Il lupo dei loro agnelli.

 Mi sento in pace con loro

E in libertà con loro,

e questo l’amore non può darlo,

né riesce a toglierlo.

Non li aspetto

Dalla porta alla finestra.

Paziente

Quasi come una meridiana,

capisco

ciò che l’amore non capisce,

perdono

ciò che l’amore mai perdonerebbe.

Da un incontro a una lettera

Passa non un’ eternità,

ma solo qualche giorno o settimana.

I viaggi con loro vanno sempre bene,

i concerti sono ascoltati fino in fondo,

le cattedrali visitate,

i paesaggi nitidi.

E quando ci separano

Sette monti e fiumi,

sono monti e fiumi

che trovi su ogni atlante.

 È merito loro

Se vivo in tre dimensioni,

in uno spazio non lirico e non retorico,

con un orizzonte vero, perché mobile.

Loro stessi non sanno

quanto portano nelle mani vuote.

“non devo dire nulla”-

direbbe l’amore

sulla questione aperta.

 (Zimboskawa)

 
 
 
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