Creato da carlocorallo il 08/04/2008
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L'imprenditore-padrone e il dipendente-schiavo

Post n°3 pubblicato il 08 Aprile 2008 da carlocorallo

Come è noto, “l’imprenditore è colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”, così almeno recita testualmente l’art. 2082 del codice civile.

                Naturalmente, se ci rifacciamo alla suddetta definizione e agli articoli successivi sempre riguardanti l’imprenditore e l’impresa in generale, possiamo concludere che ben pochi degli imprenditori che abitualmente conosciamo ci rientrano a pennello, soprattutto analizzando le caratteristiche pecuniarie che ne derivano e cioè la professionalità, l’organizzazione e l’attività economica.

                Specialmente nel nostro profondo sud (e penso almeno fino all’altezza di Roma e dintorni), la figura dell’imprenditore ha subìto nel corso degli anni un lento ma progressivo deterioramento che né i Governi e né il Parlamenti italiani sono stati in grado di modificare se non con interventi palliativi e di forma ma poco sostanziali. Solo l’entrata del nostro paese nell’era dell’Euro ci ha permesso se non di recuperare il divario, almeno di rendercene conto.

La nostra mentalità sempre individualista, che oggi purtroppo anche nei grandi imprenditori del nord-italia viene affiorando, basti pensare alla nostra reazione all’invasione cinese nel nostro mercato, si è sempre dimostrata un handicap difficile da superare.

Il principale difetto dei nostri imprenditori locali, che poi è il limite di tutta l’imprenditoria meridionale, è quella di sentirsi sempre i migliori, i più giusti, i più onesti, i più buoni, i più capaci, sempre in buonafede, insomma “unici”; tutti gli altri, a cominciare da quelli che gli stanno più vicino e cioè soci, dipendenti, consulenti, fino ad arrivare ai loro concorrenti, sono i peggiori, i più ingiusti, disonesti, cattivi, incapaci e sempre in malafede. Nessuno, insomma, riesce a mettersi nei panni egli altri e a guardare globalmente le situazioni. E questo è naturalmente colpa anche dello Stato che è l’imprenditore più grande per definizione.

                In questo mondo malato dove alla fine chi la fa da padrone sono le istituzioni pubbliche, i partiti politici, i sindacati e le banche, chi ci rimette è e rimane il comune cittadino dipendente, l’ultimo anello di una catena interminabile.

                Mi rendo conto che fare l’imprenditore non è certo facile oggi giorno, con tutti quei lacci e lacciuoli a cui ci si trova imbrigliati. Però non mi sembra neanche giusto prendersela col malcapitato dipendente, scaricando su di esso tutti gli oneri, senza peraltro riconoscerli alcun onore.

                L’imprenditore finisce per comportarsi come un padrone e il dipendente è costretto a subire come se fosse uno schiavo: l’impresa viene vista come una mucca da mungere fin quando ce ne; pochi, purtroppo, la vedono come un cavallo di razza capace di trainare un grosso carico per un lungo periodo.

                L’imprenditore, invece di creare un clima ideale di lavoro nel quale, dopo aver scelto con cura le persone di cui circondarsi, permette a loro di esprimersi al massimo delle loro potenzialità, ognuno nel suo campo di appartenenza, in una sana e stimolante concorrenza fra essi, tanto da creare un circolo virtuoso, ottenendo alla fine il risultato che si è prefissato, si ostina per ignoranza, superbia e innata arroganza a creare un irreale clima di tensioni e situazioni di stress, giocando quasi con le forze umane, essendone il padrone assoluto senza “se” e senza “ma”, creando così una sorta di cortocircuito vizioso, peraltro autolesionistico.

Malgrado fin dal 1970 con la legge n. 300 denominata “Statuto dei lavoratori” il legislatore abbia cercato di tutelare e riequilibrare il rapporto esistente fra la parte forte (il datore) e la parte debole (il dipendente), numerose sono le situazioni di stress e pressione psicologica che quotidianamente si verificano nell’ambiente di lavoro e che la ormai la letteratura ha catalogato come forme di “mobbing”. Una in particolare è data dal sistematico e scientifico ritardato pagamento del salario o stipendio.

 L’imprenditore cerca così di indurre il dipendente alla sottomissione psicologica, senza possibilità alcuna di difesa per chi la subisce e senza possibilità di sanzionare chi la effettua: un vero e proprio capriccio di chi, pur avendo già ricevuto una prestazione o un servizio, non vuole riconoscerlo o ritiene il pagamento un “optional”, convincendosi anzi di aver creato impunemente una efficace regola di comportamento. L’imprenditore fa questo ragionamento contorto, ma chiaramente giusto dal suo punto di vista: se io pago regolarmente il dipendente, questi si rilassa, si siede sugli allori e mi rende di meno; se invece lo tengo sulla corda, per paura di perdere il lavoro, il dipendente non si rilassa e mi rende di più!

                In sostanza, l’imprenditore-acquirente si comporta con il dipendente-venditore come in una qualsiasi trattativa di compravendita con un normale fornitore di servizi, di cui però gode della esclusività. Con uno sforzo di fantasia l’imprenditore privato è paragonabile allo Stato quando ci vende in monopolio un servizio al prezzo e alle condizioni che esso decide di darci senza alcuna possibilità di trattativa.

                C’è il dipendente che malgrado tutto riesce a trovare lo stimolo per andare avanti, dando il massimo nell’attesa di ricevere dall’imprenditore gratitudine morale e sostanziale; c’è invece chi ha bisogno di ricevere fiducia e sostegno per dare il massimo. Ed è questo che difficilmente riesce ad entrare nella testolina dell’imprenditore.

                In questo clima teso di sguardi e interessi che si incrociano fra il padrone e lo schiavo si dovrebbe realizzare la produzione o lo scambio di beni e di servizi organizzati professionalmente al fine di ottenere un risultato economico apprezzabile…Ma mi faccia il piacere!!!!

                Poi sfortunatamente scoppiano gli scandali Cirio, Parmalat e altri che ne verranno e allora qualcuno si accorge che forse non sono tutte rose senza spine e oro che luccica quello che grazie ai trucchetti fiscali e tributari l’impresa riesce a tirare fuori dal cilindro magico, chiamato sinteticamente ma impropriamente “Bilancio”.

Osservando la figura dell’imprenditore, troppo spesso la domanda sorge spontanea: lo fa o lo è? Finge o è convinto? E’ un grande genio o un grande coglione? Naturalmente da dipendente-schiavo mi augurerei che il mio imprenditore-padrone fosse un grande genio (al limite anche un grande bastardo!), che si circondasse di consulenti fiscali, tributari, legali e amministrativi pronti a consigliarlo al meglio per sfruttare tutte le occasioni di arricchimento, anche illegali, ma evidentemente fruttifere. Purtroppo, molto spesso accade che l’imprenditore sia solo un truffaldino, un dilettante allo sbaraglio, un venditore di fumo, un’illusionista che prima o poi rimane vittima della sua stessa creatura e si ritrova abbandonato da tutti al suo triste destino. E di casi eclatanti ce ne sono a bizzeffe nella nostra realtà quotidiana. Si chiude baracca e burattini prendendosela con la congiuntura economica, il governo ladro, i sindacati sanguisughe e le associazioni di categoria inconsistenti, la “new-economy”, il mercato cinese in forte espansione, eccetera, eccetera. E poi, come nulla fosse, si ricomincia daccapo!

A me viene solo da pensare che il Signore, per un suo inspiegabile progetto, continua a dare il pane a chi non ha i denti per mangiarlo e non lo dà invece a chi potrebbe tranquillamente masticarlo.

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