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Sul treno della memoria

Post n°228 pubblicato il 31 Gennaio 2010 da Ganim

di Carlo Lucarelli

(pubblicato su L'unità del 28 gennaio 2010)

Come ormai da cinque anni in questi giorni mi ritrovo in Polonia, ad Auschwitz, con gli studenti e gli ospiti del treno della memoria organizzato dalla Fondazione ex campo di concentramento di Fossoli e dalla Provincia di Modena.
Sono qua tutte le volte per un motivo ben preciso: perché so che “ricordare” è un verbo, una parola che indica un’azione, e anche molto dinamica. Un’azione che non si limita soltanto a “ricordarsi di ricordare”, come succede con gli anniversari e le feste comandate, ma che si attua, si prolunga nel tempo e produce qualcosa. Come tutte le azioni forti e concrete, insomma, ha conseguenze. Determina quello che succede dopo.
Sul treno che porta ad Auschwitz assieme a più di seicento studenti già preparati dagli insegnanti prima di partire ci sono un sacco di attività, c’è lo scrittore Paolo Nori, ci sono i musicisti Vinicio Capossela, Cisco e i Rio con Marco Ligabue, ci sono gli storici Costantino Di Sante e Carlo Saletti, ci sono testimoni come Eugenio Itzhak Cuomo e ci sono anch’io. Questo atto di ricordare produce prima, durante e dopo, incontri, laboratori, dibattiti, concerti e spettacoli, e se abbiamo fatto tutti bene il nostro mestiere produce nei ragazzi e anche in noi pensieri, emozioni, riflessioni e nuove consapevolezze.
Insomma: conseguenze.
Per questo, tutte le volte che sto per partire e qualcuno mi chiede se ne valga la pena, se i Giorni della Memoria servano a qualcosa, se ricordare sia utile io penso alle conseguenze che certe cose fatte in un certo modo producono nelle persone e determinano così il loro e anche il nostro futuro. Che poi è il motto di questo viaggio: diamo alla memoria un futuro.
Per cui rispondo che sì, vale pena, è utile e serve.

 
 
 

Ciancimino Massimo e la scelta di come vivere

Post n°227 pubblicato il 12 Novembre 2009 da Ganim

Scritto da Federico Elmetti sul sito 19luglio1992
Quattro giorni fa e' apparso sul sito di BlogSicilia un articolo scritto da un utente (nickname: jophx) dal titolo provocatorio “Ciancimino, un cretino o un volpino?”. Naturalmente si riferiva al più famoso tra i cinque figli di Don Vito, Massimo Ciancimino, che in questi ultimi mesi ha goduto di particolare visibilità mediatica (non ultima l'apparizione alla trasmissione AnnoZero del 9 ottobre 2009) grazie alle rivelazioni che da quasi due anni sta fornendo alle procure di tutta Italia in merito alle stragi del '92-'93 e alla cosiddetta trattativa tra stato e mafia. L'articolo mirava a stabilire, senza per altro prendersi troppo sul serio, in quale delle due categorie, “cretino” o “volpino”, si dovesse classificare colui che erroneamente viene definito un collaboratore di giustizia, ma che in realtà viene ascoltato dai magistrati semplicemente in qualità di persona informata sui fatti.
Massimo è il classico rampollo “casinista, pecora nera della famiglia, inconsistente, senza spina dorsale, viziato, cresciuto nella “bambage”, dedito alla gnocca e a tutti i vizi di questo mondo grazie all’uso ed abuso dei soldi di papà” oppure è un furbetto “che la vicinanza al padre, nel tramonto della propria vita quindi al massimo della saggezza e dell'amore paterno, ha fatto maturare, sbocciare, “allignare” in tutta la sua intelligenza e con la consapevolezza delle proprie origini e storia familiare”?
Ne è scaturito un dibattito interessante tra gli utenti del sito, che hanno avuto tra di loro un ospite d'eccezione, lo stesso Massimo Ciancimino. Con la pacatezza che sempre lo contraddistingue e che sembra sollevarlo, con distacco, dalle cose, talora gravi ed esplosive, che racconta, ha risposto alle argomentazioni, senza sottrarsi alle critiche, ma rivendicando il proprio ruolo e le proprie scelte. Poi, visto che lo spazio per il botta e risposta tra i commentatori era troppo esiguo per poter esprimere appieno il proprio pensiero, Massimo Ciancimino ha deciso di scrivere lui, di suo pugno, una lettera alla redazione di BlogSicilia per rispondere punto su punto. Lettera prontamente pubblicata, col titolo “Non si può scegliere dove nascere ma come vivere sì”.

Una lettera che contiene indubbiamente spunti interessanti di riflessione e che ci restituisce un Massimo Ciancimino “più umano”, con tutti i problemi e le paure di chi, per sua stessa ammissione, si ritrova a destreggiarsi in un gioco più grande di lui. Con tutti i ragionevoli timori e difficoltà di chi, in qualità di figlio, si trova a dover parlare delle colpe del padre e, in qualità di padre, ha la necessità di tutelare l'incolumità della moglie e del figlio, che “a giorni festeggia il suo quinto compleanno” e a cui, non a caso, è stato dato il nome di VitoAndrea, “non aderendo, a differenza dei miei fratelli, - dice Massimo - all’ennesimo invito Paterno  a non dare a nessuno dei nostri figli il nome del Nonno Vito”.
E qui trapela l'orgoglio, tutto siciliano, di portare quel cognome così pesante, un cognome che immediatamente rimanda, nell'immaginario collettivo, al “sacco di Palermo”, a collusioni pericolose, a fatti di mafia. Non che Massimo sia uno stinco di santo, né che miri a passare per tale. Anzi. Ha ben presente i propri errori (è stato condannato per riciclaggio del denaro del padre), non ne fa mistero, non ha alcuna vergogna di parlarne, quasi ostentando quella naturalezza con cui ha ammesso di fronte ai giudici di avere sbagliato, e quindi pagato. Anche questo fa parte del personaggio. Narcisista? Può darsi. Sfrontato? Non parrebbe. Quel che è certo, e che ci tiene a sottolineare, è la sua diversità dagli altri quattro fratelli. Fa presente che, sebbene inizialmente fossero tutti e cinque sotto indagine, solo lui poi fu rinviato a giudizio, mentre, per quanto riguarda i fratelli, “stranamente le loro posizioni, su richiesta della procura, vengono archiviate perché niente prova circa la loro conoscenza sulle attività politiche del padre, quindi le origini del denaro”. E' quel termine, “stranamente”, la chiave di volta del pensiero di Massimo. Ritiene, a torto o a ragione, di essere stato preso come capro espiatorio: lui unico confidente del padre, lui unico custode di verità indicibili, lui unico conoscitore e gestore del tesoro di Don Vito.
Non lo dice per discolparsi, ma per dimostrare in modo provocatorio come, se c'è un epiteto che non gli si addice, è proprio quello di “cretino”. Avrebbe potuto un cretino scapestrato, dedito solo ai vizi e alle donne, gestire un patrimonio enorme come quello ereditato dal padre? Ma è lui, Massimo, il primo a sapere che, soprattutto in Sicilia, “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. E i pregiudizi su di lui, inutile nascondersi, fioriscono e proliferano. Soprattutto da quando ha iniziato a parlare e a “vuotare il sacco”. Perché ha deciso di parlare solo adesso dopo così tanto tempo? Perché non ha denunciato il padre quando era ancora in vita? Perché non si è offerto volontariamente ai magistrati, ma ha atteso che i magistrati venissero da lui? Forse temeva di perdere i benefici derivanti dal tesoro di Don Vito e ora che tante verità stanno venendo alla luce tenta di salvare il salvabile? Forse sta tentando di accattivarsi i magistrati per avere degli sconti di pena?

Quando Massimo fu chiamato per la prima volta da Ingroia e Di Matteo nel gennaio del 2008, aveva messo in conto tutto questo. Aveva messo in conto che gli sarebbero piovute addosso miriadi di critiche. Aveva messo in conto che le sue rivelazioni avrebbero scatenato polemiche violente. Aveva messo in conto che sarebbe stato sottoposto ad un sistematico tentativo di delegittimazione. E aveva messo in conto, soprattutto, che avrebbe messo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia. Nella lettera a BlogSicilia, Massimo Ciancimino si lascia andare e racconta di un episodio che fotografa bene, nella sua semplicità e, in un certo senso, normalità, il rapporto che sta vivendo in questo momento col figlioletto: “Proprio ieri, in seguito ad una frase sicuramente detta nell’ingenuità ed innocenza che li contraddistingue, (nello specifico un compagno di classe gli ha detto che il suo Papà dice sempre che prima o poi ammazzeranno il padre di VitoAndrea…) ho cercato di parlare con Lui di cosa sta accadendo nella nostra vita familiare”.

E' chiaro che chi si mette a sparare sulla “memoria ad orologeria” del figlio di Don Vito, contando  sul fatto che sui Ciancimino sia possibile dire di tutto per il semplice motivo che portano quel cognome, non comprende, o non vuole comprendere, come dietro ad una decisione tanto travagliata come quella di iniziare una delicatissima collaborazione con la giustizia, che potrebbe riscrivere la storia del nostro paese degli ultimi vent'anni, vi siano sempre degli uomini con le proprie paure, le proprie debolezze e, soprattutto, i propri affetti personali da tutelare in ogni modo. Anche questo, Massimo l'aveva messo in conto. E per questo non si tira indietro e risponde con pazienza alle critiche, da quelle legittime a quelle più gratuite. Spiega che se ha aspettato fino al 2008 per parlare con i magistrati non è stato per suo vezzo personale, ma semplicemente perché nessun magistrato (anche, aggiungo io, tra coloro che in questi giorni pontificano di “legittime” trattative tra mafia e stato in vista di una cessazione della strategia stragista) fino ad allora si era “ricordato” di chiamarlo, lui che costituiva la memoria storica del defunto padre, per anni cardine fondamentale e imprescindibile di quell'ingranaggio perfettamente oliato che permetteva l'interazione tra le istituzioni da una parte e Cosa Nostra dall'altra. E lui è il primo ad essere rimasto stupito di questa incomprensibile “dimenticanza”.
Ci sono voluti due magistrati come Ingroia e Di Matteo sotto la guida del procuratore capo Francesco Messineo per capire che le cose che sicuramente Massimo sapeva potevano dare un impulso decisivo alle indagini. Ci è voluta, ancora prima, una lunga intervista al giornalista di Panorama Gianluigi Nuzzi, che in parte fu lo spunto per un articolo “Vi racconto Mio Padre don Vito Ciancimino” pubblicato dal settimanale nel dicembre del 2007, per accendere i riflettori su di lui e sulle rivelazioni che avrebbe potuto fornire. E per quei magistrati della procura di Palermo, di Caltanissetta e di tutte le altre che da mesi lo stanno ascoltando, Massimo Ciancimino ha parole di profonda stima e riconoscenza: “Posso soltanto dire di aver trovato magistrati come Ingroia, Di Matteo, Lari, Scarpinato ed altri che non hanno mai mancato di giusta attenzione alle mie parole, sempre liberi da qualsiasi forma di pregiudizio rispetto al contenuto delle mie risposte”.    

A volte è strana la vita del magistrato antimafia: apprezzato e stimato proprio dai collaboratori di giustizia (che di solito mostrano di avere un gran fiuto nel saper scegliere i magistrati migliori a cui affidare le proprie rivelazioni) e delegittimati da coloro che rappresentano le istituzioni e si autodefiniscono servitori dello stato. E' successo a suo tempo a Giovanni Falcone con Tommaso Buscetta, è successo a Paolo Borsellino con Vincenzo Calacara e Gaspare Mutolo, è successo a Giancarlo Caselli con Balduccio Di Maggio, succede oggi ai magistrati di Palermo e Caltanissetta che vengono accusati dal presidente del consiglio di utilizzare i pentiti per cospirazioni, da esponenti del governo di essere schierati politicamente e addirittura da uno dei simboli della caccia ai latitanti, il capitano Sergio De Caprio, il mitico capitano Ultimo, di essere dei “servi di Riina” per aver dato credito alle dichiarazioni di un altro "servo di Riina" come Massimo Ciancimino (per inciso, per queste dichiarazioni, De Caprio si è beccato una querela da Ciancimino).

Coloro che oggi si stracciano le vesti e scuotono il capo per una magistratura che torna ad indagare sulle stragi del '92-'93 sulla base delle rivelazioni di un mafioso sanguinario come Gaspare Spatuzza e sui ricordi e le carte messe a disposizione da un figlio di un mafioso come Massimo Ciancimino, dovrebbero prima chiedersi come mai, in tutta la storia dell'antimafia, gli unici successi si sono riscontrati proprio quando i magistrati sono riusciti a far cantare i tanto vituperati pentiti, i macellai, i delinquenti di strada, insomma, la manovalanza di Cosa Nostra. Se si fosse aspettato che qualcuno di più alto grado spontaneamente denunciasse le sconcerie intercorse tra pezzi delle istituzioni e criminali comuni, forse adesso saremmo ancora qui a disquisire sull'esistenza o meno della mafia.  
Ciò che è grave non è il fatto che dei magistrati “vadano dietro” ai pentiti, ma che, per sperare di vederci chiaro, siano costretti a farlo, con tutte le cautele del caso ovviamente, perché non esiste uno solo, all'interno dello stato, che abbia il coraggio di esporsi e di dire tutto quello che sa. Il fatto che la magistratura debba affidarsi alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, la cui attendibilità è tutta da vagliare, dovrebbe risuonare come un atto d'accusa fortissimo contro quegli uomini delle istituzioni che, pur sapendo, tacciono o mentono. Ma anche questo, Massimo Ciancimino l'aveva messo in conto: il collaboratore di giustizia è credibile fino a che serve a far catturare altri latitanti, nel momento in cui le sue dichiarazioni possono diventare pericolose per i pesci grossi, viene delegittimato e crocifisso. E' per questo che, quando qualcuno gli  chiede di spiegare il suo silenzio durato così tanti anni, Massimo non si scompone più di tanto e dice: “Credo debba girare la domanda ad altri”. Ed è anche per questo che lancia un appello vibrante, non agli uomini dello stato, ma alla “progenie di Riina e Provenzano” perché seguano il suo esempio di “figlio della mafia” e decidano di mettere a disposizione della giustizia tutto il patrimonio di conoscenze che hanno acquisito in qualità di testimoni diretti. “Credo che anche i figli di Riina e Provezano potrebbero fare qualcosa in tal senso, sarebbe un grande passo”.

Non ci tiene a passare per eroe. A chi gli chiede “Ma chi te lo fa fare?” si schermisce e tenta di ridimensionare il suo ruolo. Ripete che non sta facendo nulla di eccezionale, sta semplicemente rispondendo alle domande che i magistrati gli fanno, portando i documenti che i magistrati gli dicono di portare. D'altra parte è assolutamente cosciente del “non semplice ruolo di testimone diretto o indiretto di fatti riguardanti le collusioni politico affaristiche mafiose degli ultimi venti anni, anni - dice - in cui mio Padre sicuramente esercitava una importante figura tra gli attori principali”. Se è vero, come si dice, che “le colpe dei padri non debbono mai ricadere sui figli”, per Massimo Ciancimino questo detto dovrebbe valere ancora di più. Primo, perché nel momento in cui la magistratura l'ha chiamato in causa, non si è tirato indietro, non si è nascosto dietro i “non so” e i “non ricordo” di cui abbondano le dichiarazioni di illustri ministri ed ex-ministri. Secondo, proprio perché “nessuno gliel'ha fatto fare”. Di vantaggi, è facilmente dimostrabile, ne avrebbe avuti decisamente di più a starsene zitto. Dice di star facendo tutto quello che sta facendo semplicemente perché pensa “di poter essere utile”.  E scusate se è poco.
Non si può sceglier dove nascere ma sicuramente si può sceglier come vivere”, spiega Massimo. Frase che Salvatore Borsellino potrebbe benissimo far sua, conoscendone perfettamente il significato e avendola in un certo senso sperimentata sulla propria pelle, quando da giovane si allontanò da Palermo per tentare di sfuggire al “puzzo del compromesso morale” che ammorbava l'isola. Solo per scoprire, molti anni dopo, che quel cancro si era esteso in tutto il paese e si era trasformato in una vera e propria metastasi che veniva a bussargli alla porta, alle porte di Milano. Non a caso, forse, uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dimostrare a Massimo Ciancimino vicinanza e riconoscenza per le preziose informazioni che sta fornendo ai magistrati (tra cui brilla la copia del famigerato papello) è stato proprio lui, Salvatore, colui che da anni si batte in prima persona con coraggio veemente perché si arrivi finalmente alla Verità e alla Giustizia sulle stragi del '92.
Lui, sicuramente, ha scelto come vivere.

 
 
 

Il vicolo cieco dell'antagonismo

Post n°226 pubblicato il 13 Ottobre 2009 da Ganim

Anche se spesso scopiazzo qua e là mi piace riportare il pensiero di quelle menti che mostrano pacatezza, acume, visione di insieme...insomma dei FARIi in questo mare agitato di scontro aprioristico, di contrapposizione, di agitazione dell'io contro tutti. Buona lettura

Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera del 13 ottobre

Avendo da sempre a cuore una cultura di terzietà, da sempre ho rischiato di essere marginalizza­to e svillaneggiato da chi con ar­dore esercita la prassi dell’antagonismo. «Tu non c’entri, lascia che ci regoliamo i conti fra noi», questa frase richiama ricor­di adolescenziali e giovanili, di quando l’intenzione di fare il pacie­re finiva male, talvolta an­che con qualche escoriazio­ne; ma continuo a ritenere l’antagonismo non solo emotivamente spiacevole, ma anche infecondo e inu­tile.

Gli antagonisti sono una forza della natura: sono pervicacemente convinti di avere ragione, esprimono un’intenzionalità fuori mi­sura, chiamano allo schie­ramento senza se e senza ma, coltivano il gusto del­l’inimicizia, qualche volta aspirano alla distruzione dell’odiato nemico. Si mon­tano psicologicamente e producono spettacolo per tutti, e sottilmente diventa­no anche gli spettatori di se stessi. E avviene che spesso la lotta all’alter ego produca il decli­no non solo dell’alter ma anche dell’ego.

E’ difficile comunque resistere alla ten­tazione antagonista, anche quando si ri­schia di scivolare nel fondamentalismo del primato religioso o nel feticismo del primato della scienza; figurarsi se si tratta della lotta politica, terreno altamente favo­revole allo scontro, anche dopo la morte dichiarata delle contrapposizioni ideologi­che del Novecento; e terreno in cui l'anta­gonismo ha portato frutti perfidi e regres­sivi.

Non basta però di fronte al calor bianco di queste settimane, con tutti contro tutti, nella contrapposizione di due eserciti, uno contro e l’altro a favo­re di Berlusconi, fare richia­mi morali al dialogo, al ri­spetto dell’avversario; l’aria che tira è tale che, se ci fos­se un arbitro a decretare un break , i duellanti ne ap­profitterebbero per piazza­re un colpo sotto la cintu­ra. Il problema va posto più utilmente nei suoi ter­mini culturali, nell’incapa­cità dell’antagonismo a «scavare al di sotto dell’an­titesi », che è l’unico modo per rispettare la dinamica del reale. Le cose hanno sempre un andamento (una verità, si potrebbe di­re) «trasversale» e non van­no quindi viste e trattate in una logica di causalità lon­gitudinale, dove sarebbero condannate a cozzare l’una con l’altra.

La vita è correlazione, è «chiasma», co­me dicono i fenomenologi per segnalare che fra gli opposti (il bene e il male, lo spi­rito e il corpo, lo sviluppo e la crisi, ecc.) c’è reciprocità e non vittoria assoluta di uno di essi. La vittoria assoluta di una sola componente della vita (è ciò che i militanti dell’antagonismo ardentemente desiderano) oscurerebbe l’orizzonte, solo un pluralismo dei punti di vista permette di crescere collettivamente e di far maturare un’articolata appartenenza al medesimo mondo.

Certo è difficile, nell’attuale contrapporsi di accesi antagonisti, richiamare questa culturale esigenza di capire le correlazioni fra gli opposti e lavorarci in termini trasversali, di interpretazione, di connessione, di mediazione (sottraiamo questa parola alla damnatio memoriae di pavida furbizia democristiana). Fare oggi politica utile a tutti è mestiere da tessitore, di chi lavora sul rovescio della stoffa, tirandone via via i fili e capendone via via il senso. Ed è un mestiere di silenzi, non di proclami guerreschi. Non è quindi bene perdersi in richiami morali, basta un più sommesso richiamo a pensare; e a pensare in modo corretto, questa è la vera tregua. Capire cioè quale sia la trama di lungo periodo della nostra evoluzione sociopolitica e quanto tempo e silenzio siano necessari, senza troppi alterchi di scena.

 
 
 

UN CONGRESSO FUORI TEMPO MASSIMO

Post n°225 pubblicato il 25 Settembre 2009 da Ganim

Riporto qui oggi un articolo preso dal "il fatto quotidiano". Mi trovo d'accordo con l'autore, è qualche giorno che ci penso. Mi sembra che il PD sia troppo occupato a guardarsi dentro e si sta "estraneando" da tutto.

UN CONGRESSO FUORI TEMPO MASSIMO 

  di Pino Corrias

 

Ammiro tutti e tre i candidati alla prossima segreteria del partito democratico, i signori Bersani, Franceschini e Marino. Ho letto per intero le 1921 frasi delle loro rispettive tesi. Le ho misurate in lunghezza, larghezza, altezza, profondità, prospettiva e peso. Non saprei riassumerle, ma sono sicuro che saprebbero farlo i molti delegati del Pd che, come me, leggendole in amaca, hanno provato questa sensazione di rassicurante sazietà che muove al lento sorriso della digestione. La digestione durerà fino al 25 ottobre. Un signor congresso, lungo 5 mesi, comizi, assemblee, poi le primarie, la guerra delle tessere, i cambi di fronte, le attese nei rispettivi accampamenti, fino al giorno dello scontro finale. Un bel gioco. Ma intanto il 2009 ha già inghiottito l’intera estate. Durante la quale, oltre al caldo ben oltre le medie stagionali, hanno chiuso alcune piccole fabbriche in Italia e nel mondo, il pil è scivolato, manciate di operai hanno smarrito il lavoro, risarcito da ferie più lunghe, famiglie terremotate han preferito prolungare il campeggio e nel Canale di Sicilia giovani immigrati hanno   tentato senza fortuna di resistere all’insidia delle onde.

 

   Niente di grave, tranquilli. Non interrompete il vostro vivace confronto di idee, misurate le vostre intelligenze sezione per sezione, assaporate il frutto maturo della democrazia. Qui continua a non succedere granché. È morto qualche soldato italiano, avrete saputo. I terremotati non avranno le case promesse e se è per questo neanche Alitalia avrà i suoi aerei, amen. Le fabbriche per il momento non riapriranno, pare che la crisi continui, non rispettando nulla, neppure le scadenze riflessive del vostro congresso. La scuola invece è al collasso. La Corte Costituzionale assediata. I processi e la Giustizia inceppati. Stanno smantellando il Sud, la Rai e la convivenza civile. Querelano giornali e giornalisti, minacciano qualunque dissidenza, orientano la pubblicità. Organizzano il più grande condono fiscale d’Europa. Non intralciano gli appalti mafiosi. Incriminano idee e, rovesciando lo specchio, strillano al golpe, preparandosi a celebrare l’unità d’Italia dividendola. Ecco: l’Italia. Sicuri che ci sarà ancora l’Italia di oggi a celebrare il vostro 25 ottobre?

 
 
 

Questi si che sono giornalisti

Post n°224 pubblicato il 16 Settembre 2009 da Ganim
 
Tag: memoria
Foto di Ganim

il 16 settembre del 1970 viene rapito (e ucciso) il giornalista Mauro De Mauro.

Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti De Mauro fu ucciso perchè venne a conoscenza del fatto che uno dei suoi più cari amici d'infanzia, il principe Junio Valerio Borghese, stava pianificando un colpo di stato, il cosidetto Golpe Borghese.

Sul "caso De Mauro" il pentito Tommaso Buscetta si rivolge al giudice Giovanni Falcone: "Della morte dei giornalista Mauro De Mauro non so nulla. Non è faccenda di mafia. Quando ne parlavo con i miei interlocutori, questi sembravano stupiti. Ho sentito dire in giro che la sua scomparsa è legata alla morte di un noto politico italiano, credo che si chiamasse Enrico Mattei".

 
 
 
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JOVANOTTI "A TE"

 

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difficile capire perchč mi piace tanto questa poesia...

 

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