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Post n°190 pubblicato il 12 Novembre 2008 da Ganim





Per una Chiesa audace

Bartolomeo Sorge S.I.

Direttore di «Aggiornamenti Sociali»

 

Che fine ha fatto la Chiesa coraggiosa e aperta, di cui il Concilio
Vaticano II aveva tracciato il profilo? È la domanda che oggi molti si
pongono. Le risposte manifestano più delusione e preoccupazione che
fiducia e speranza. La Chiesa - si dice - oggi non guarda più al futuro, ma al passato. E si citano l'involuzione in atto nei confronti della riforma liturgica; l'impasse
del movimento ecumenico; l'insistenza sui «valori non negoziabili» che
ostacola il dialogo; gli interventi della Gerarchia che condizionano
l'autonomia dei laici in politica. In realtà, non ci si può fermare a
questi (e altri) casi, per quanto significativi. La questione è più di
fondo.
Una risposta seria viene ora dal volume, fresco di stampa, del card. Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede
(Mondadori, Milano 2008). È un condensato della ricca esperienza
dottrinale, spirituale e pastorale del Cardinale, che si traduce in un chiaro invito al coraggio e alla speranza.
Non è senza significato che, per lanciare questo messaggio, egli si
rivolga ai giovani. Infatti, il volume contiene una serie di risposte
alle domande di ragazzi, ospiti in un Centro per giovani in Romania,
animato dal gesuita Georg Sporschill, che nel libro svolge la funzione
di intervistatore. Il vero pregio della lunga intervista sta certamente
nella sensibilità pastorale che Martini dimostra verso il mondo
giovanile e i suoi problemi, ma in realtà il messaggio riguarda tutti.
Con la parresia
evangelica che lo contraddistingue, il Cardinale inizia rilevando che
oggi «vi è un'indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio. Il
coraggio e le forze non sono più grandi come a quell'epoca e subito
dopo». Come mai? «È indubbio - riconosce - che nel primo periodo di
apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La Chiesa si è dunque
indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze
di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a
quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la
Chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come
nella società e anche nella Chiesa sia emersa una sconsiderata libertà»
(p. 103). Tuttavia, i limiti del postconcilio non tolgono nulla alla grandezza dell'evento conciliare.
Nonostante tutto - conclude Martini - «Dobbiamo guardare avanti. [...]
credo nella prospettiva lungimirante e nell'efficacia del Concilio» (p.
104).
Talune riflessioni contenute nel libro potranno risultare ostiche e discutibili. Non è un caso che i mass media insistano soprattutto su quanto Martini ha detto circa l'ordinazione di viri probati
per fare fronte alla crisi di sacerdoti (p. 100); a proposito della
«timidezza» della Chiesa nella valorizzazione piena della donna (p.
108); sulla ripresa del dialogo ecumenico e interreligioso (p. 112);
intorno al tema della sessualità (p. 91 ss.). In realtà, il contributo
più importante del libro è la «ventata» di fiducia e di speranza che da
esso emana e si trasmette a chi legge. Il vero messaggio del lungo
dialogo con i giovani si può riassumere in tre prospettive, che
costituiscono la chiave dell'intero colloquio: 1) la necessità per i
cristiani di «pensare in modo aperto»; 2) il bisogno che la Chiesa ha
di riscoprire il ruolo dei giovani; 3) l'urgenza di costruire una nuova
«cultura della relazione».



1. «Pensare in modo aperto»

L'invito a «pensare in modo più aperto» (p. 21) è esplicito e continuo.
Esso richiama alla mente il «sogno» di cui l'Arcivescovo parlò, nel
1999, al Sinodo dei Vescovi d'Europa. Martini non chiedeva un Concilio
Vaticano III, come erroneamente gli attribuirono i mass media;
auspicava invece la convocazione, di tempo in tempo, di assemblee
rappresentative di tutto l'episcopato per affrontare i nodi che il
Concilio non aveva risolto. Oggi, a dieci anni di distanza, il
Cardinale fa rivivere con parole diverse il medesimo «sogno» di una Chiesa coraggiosa e aperta.
«Un tempo - dice - avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per
la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai
poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata.
Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più
aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si
sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho
più questi sogni. A settantacinque anni mi sono deciso a pregare per la
Chiesa» (p. 61 s.). Il libro, però, lo smentisce. Dal lungo colloquio
con i giovani traspare un cardinal Martini capace, come sempre, di
«pensare in modo aperto». Nonostante gli anni e la malattia, continua a
«guardare avanti», a sognare, esortando i cristiani a fare altrettanto.
Questa volta, però, insiste sul criterio educativo fondamentale
a cui ispirarsi perché il «sogno» divenga realtà: «Il fondamento
dell'educazione cristiana - dice - è la Bibbia [...]. Non pensare in
modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi non
consentendoci di cogliere l'ampiezza della visione di Dio» (p. 20). Il pericolo nel quale si può incorrere (anche nella Chiesa) è quello di lasciarsi condizionare dalla «mentalità ristretta»
dell'individualismo imperante, dalla paura del diverso e
dall'indifferenza per i bisogni dell'altro, preoccupati soltanto di
guardare a se stessi, fino a fare di se stessi un assoluto.
È
necessario, dunque, formarsi alla scuola della Parola. Infatti, spiega
Martini, «in tutta la Bibbia, Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli,
vuole che soccorriamo e serviamo in diversi modi tutti gli uomini» (p.
20). Secondo la Bibbia, neppure le istituzioni, comprese quelle ecclesiali, sono un assoluto:
certo, ne abbiamo bisogno, ma Dio non si può ridurre a esse: «Non puoi
rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni
che noi stabiliamo» (p. 20). «Per proteggere questa immensità [di Dio]
non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia»
(p. 21). È importante la formazione biblica, per imparare a «pensare in
modo aperto». Questa, oggi, è una necessità, se «dobbiamo aiutare il
mondo a trovare una direzione [...], [se] dobbiamo decidere dove la
società debba andare» (ivi); altrimenti si rimane asserviti alle
mode culturali del momento e a tendenze ideologiche, che rendono
incapaci di discernimento e di iniziative efficaci.
Ugualmente, se manca una formazione biblica, non è possibile progredire nel cammino con le altre confessioni religiose:
non basta infatti essere informati, leggere e studiare. In proposito,
Martini dà ai ragazzi un consiglio molto pratico: «Fatti invitare a una
preghiera dal tuo interlocutore e un giorno portalo con te a messa. Se
vuoi entrare in un altro mondo religioso, hai bisogno di un amico che
ti accompagni. Questo non ti allontanerà dal cristianesimo, anzi
renderà il tuo essere cristiano più profondo. Non avere paura dello
straniero» (p. 28). Più conosceremo i fedeli di altre confessioni, più
saremo tenuti a dare ragione della speranza e della fede che sono in
noi. Così facendo, ameremo ancora di più la Chiesa: «Sarai felice di
essere cattolico, e altrettanto felice che l'altro sia evangelico o
musulmano. Queste diverse famiglie esistono per aiutare il maggior
numero possibile di persone a trovare una patria in Dio» (p. 33).
«Nella gioventù, cristiani e musulmani possono imparare con ancor
maggiore facilità a convivere, a comunicare nella fede e a servire
insieme l'umanità» (p. 46).
Ma il fondamento di questo «pensare in modo aperto» dovrà sempre essere la formazione biblica.
Solo così infonderemo nei giovani gioia e coraggio, proponendo loro non
solo riflessioni teoriche, ma anche grandi traguardi concreti.



2. Riscoprire il ruolo dei giovani

Il libro rende
ragione di questo approccio positivo verso i giovani da parte del
Cardinale. Esso sta sostanzialmente nella capacità di ascolto. Nessuno
- spiega Martini - può essere considerato «oggetto» di pastorale. Tanto
meno i giovani: «Sono soggetti che stanno di fronte a noi, con cui
cerchiamo una collaborazione e uno scambio. I giovani hanno qualcosa da dirci.
Essi sono Chiesa, a prescindere dal fatto che concordino o meno con il
nostro pensiero e le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo
dialogo alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa,
garantisce dinamismo alla Chiesa» (p. 47). Il Cardinale insiste molto
su questa metodologia pastorale per avvicinare i giovani d'oggi: «Il
metodo giusto non è predicare alla gioventù come deve vivere per poi
giudicarla con l'intenzione di cercare di conquistare coloro che
rispettano le nostre regole e le nostre idee. La comunicazione deve
cominciare in assoluta libertà [...]. L'essere umano che incontro è fin
dal principio un collaboratore e un soggetto. Dialogando insieme
giungiamo a nuove idee e a nuovi passi condivisi» (p. 59 s.).
A questo proposito, Martini fa due affermazioni coraggiose. La prima riguarda l'importanza del ruolo critico
(o profetico) che i giovani, per loro stessa natura, sono chiamati a
svolgere nella Chiesa e nella società: «La generazione più giovane
verrebbe meno al suo dovere se con la sua spigliatezza e con il suo
idealismo indomito non sfidasse e criticasse i governanti, i
responsabili e gli insegnanti. In tal modo fa progredire noi e
soprattutto la Chiesa» (p. 60). Ovviamente la funzione critica non
contrasta con la necessità che i giovani hanno di essere aiutati e
accompagnati. Il problema, appunto, è come formarli: non imponendo loro
una educazione, quasi siano incapaci di giudicare e di scegliere -
insiste il Cardinale -, ma considerandoli sul serio collaboratori
responsabili della loro stessa crescita umana e spirituale.
La
seconda affermazione, che farà discutere, è contenuta nella risposta a
un giovane che gli chiede se non abbia mai avuto paura di prendere
decisioni sbagliate: «Alcune decisioni prese sono senz'altro da
riconsiderare - risponde -. Ma [...] ritengo che una scelta sbagliata sia preferibile a non scegliere affatto»,
perché, in fondo, una decisione sbagliata si può anche correggere; «mi
angustiano, invece, le persone che non pensano, che sono in balìa degli
eventi» (p. 64). Lo stesso - pare di capire - si deve dire dei giovani:
è meglio che abbiano un ideale sbagliato, piuttosto che non ne abbiano
alcuno; l'ideale sbagliato certo è pericoloso, perché conduce fuori
strada; ma si può correggere. Invece, un giovane senza ideale, è già
vecchio; non nel senso che gli anziani non abbiano ideali, ma nel senso
che senza ideali la giovinezza è bruciata. «Vorrei individui pensanti - conclude perciò Martini -. Questo è l'importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti» (ivi).



3. Costruire una «cultura della relazione»

La terza
prospettiva aperta dal dialogo di Martini con i giovani costituisce il
cuore di tutta l'intervista. Non è un caso che essa si trovi nella
risposta alla difficile domanda sull'enciclica Humanae vitae
e sulla barriera che il divieto della pillola e della contraccezione
affermato da Paolo VI avrebbe eretto tra la Chiesa e la gioventù.
«L'enciclica - risponde il Cardinale - ha posto in giusta evidenza
molti aspetti umani della sessualità. Oggi, tuttavia, abbiamo un orizzonte più ampio in cui affrontare le questioni della sessualità»
(p. 92). E qui il Cardinale introduce la prospettiva di una «nuova
cultura della tenerezza» (o della relazione), che si dovrà elaborare
nella direzione di una convivenza cristiana; di essa il Cardinale
coglie i primi segni nei discorsi che oggi si fanno in tema di
sessualità. In che cosa consiste questa nuova cultura?
Movendo dal
principio evangelico secondo cui ogni rinuncia può essere solo
conseguenza di amore e abnegazione, Martini parla di un modo positivo -
migliore di quello seguito fin qui dalla Chiesa - per affrontare i temi
delicati della sessualità, della vita e dell'amore. «In confronto a
quando ero giovane, oggi il mondo è assai diverso, quanto meno più
aperto e sincero. Una volta non si poteva e non si voleva quasi parlare
dell'argomento sessualità, era relegato al confessionale e all'ambito
della colpa. Non è quello il posto che gli compete, lo è solo quando si
tratta davvero di colpa e di problemi. Oggi c'è una grande
spigliatezza. Nell'incontro e nel dialogo tra genitori, figli e figlie,
adulti e bambini, vedo un'opportunità per una sessualità sana e umana»
(p. 96). «La dedizione - dice - è la chiave dell'amore: questo
per me è fondamentale. L'essere umano è chiamato ad andare oltre se
stesso. Ciò significa essere presente per gli altri e avere bisogno di
loro. La dedizione, tuttavia, riguarda anche la trascendenza. Possiamo
salire da un livello a un altro superiore. Nell'amore coniugale è
insita questa dinamica, che parte dall'elemento animale e dalla
riproduzione della specie, ma ha uno scopo. Tramite l'amicizia e la
collaborazione, la protezione dei deboli e l'educazione, la
trascendenza conduce al regno di Dio. Nella dedizione di sé gli esseri
umani si aprono a Dio. Nell'incontro fisico si tende verso questo
traguardo. Guardare la meta è più importante che domandarsi se sia
permesso o se sia peccato» (p. 95). «Se vogliamo proteggere la famiglia
e promuovere la fedeltà coniugale, dobbiamo rivedere il nostro modo di
pensare. Illusioni e divieti non portano nulla» (p. 96). «Soprattutto
in queste problematiche profondamente umane, come sessualità e
corporeità, non si tratta di ricette, ma di percorsi che iniziano e proseguono con le persone» (p. 97). Ecco perché «la Chiesa deve lavorare a una nuova cultura della sessualità e della relazione» (p. 99).



4. Conclusione

Abbiamo offerto solo alcuni assaggi
della lunga intervista, sperando di aver invogliato a leggere il libro.
In conclusione, per realizzare la Chiesa coraggiosa e aperta,
annunziata dal Concilio, Martini insiste sulla necessità di prendere la Bibbia come punto di riferimento,
consapevole che ciò condurrà ineluttabilmente - come è successo a Karl
Rahner, Pierre Teilhard de Chardin, Henri de Lubac tra altri grandi
teologi -, a «confrontarsi con chi nutriva timori e voleva salvare
qualcosa della teologia neoscolastica» (p. 103). In altri termini, è
maturo il tempo di riaprire la questione ermeneutica sul Concilio
Vaticano II.
Infatti, di fronte alla svolta antropologica della
cultura postmoderna, le categorie filosofiche e teologiche
neoscolastiche, usate dai Padri conciliari, si rivelano insufficienti
per rispondere agli interrogativi di oggi. Il suggerimento di Martini
sta nel superare (o integrare) le categorie ecclesiastiche
tradizionali, attraverso un ricorso maggiore a quelle bibliche. Del
resto, lo suggerisce anche la costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, quando riconosce che per la Chiesa la Bibbia ha valore normativo:
«È necessario, dunque, che la predicazione ecclesiastica come la stessa
religione cristiana sia nutrita e regolata dalla Sacra Scrittura» (n.
21). «In ultima istanza - commenta il Cardinale -, la Chiesa può e deve
tuttavia richiamarsi alla Bibbia» (p. 97). Dunque, la «novità» delle
prese di posizione di Martini non sta nel supposto tentativo di
prendere le distanze dalle posizioni ufficiali della Chiesa, bensì nel
ripensarle prendendo a punto di riferimento la Sacra Scrittura e
renderle così più comprensibili alla cultura moderna.
Occorre, cioè,
- come fa la Bibbia - enunciare con chiarezza alcuni principi e
riferirsi poi alla responsabilità dei singoli. Il Cardinale è convinto
che la valorizzazione della responsabilità della coscienza personale
faciliterà il dialogo e la mutua comprensione tra culture. La ragione è
che la verità di Dio è accessibile solo attraverso le mediazioni
storiche e culturali. Pertanto, alla luce della Bibbia,
l'«inculturazione» della fede non è la rigida trasmissione, da una
generazione all'altra, di un sistema dottrinale certo e immutabile (il depositum fidei),
ma è fare storia e cultura attraverso le necessarie «mediazioni». Il
discorso sulla verità non si può disgiungere da quello sulla prassi
pastorale. È molto diverso intendere la nuova evangelizzazione come
mero adeguamento della verità rivelata (intesa come un sistema
dottrinale astorico) ai problemi del mondo moderno, oppure intenderla
nel senso di quel «pensare in modo più aperto» (e biblico), di cui
Martini offre un esempio nelle sue risposte ai giovani. Ciò consente di
ampliare gli orizzonti pastorali e di entrare in dialogo con la
cultura dei nostri giorni, anche se molte riflessioni del libro
difficilmente saranno condivise da quanti sono fermi all'impostazione
scolastica, prevalente negli stessi documenti conciliari.
Ritorna il
dilemma di sempre: primato della verità o primato della carità? Cultura
della presenza o cultura della mediazione? Il contributo del card.
Martini può aiutare a superare questa contrapposizione, in realtà più
artificiale che reale. La soluzione va cercata nella direzione indicata
da san Paolo, quando parla di «fare la verità nella carità» (Efesini 4,15). La verità, cioè, non «s'impone»; la verità «si fa» nel servizio, nella vita, nella storia, nella cultura.
Il modo più efficace di trasmettere la verità evangelica alle nuove
generazioni è testimoniarla con la parola e con la vita, mediandola nel
linguaggio, nella storia e nella cultura. Inverando la fede nella
carità, direbbe Benedetto XVI: «Il cristiano sa - scrive nell'enciclica
Deus caritas est - quando è tempo di parlare di Dio e quando è
giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l'amore. Egli sa che
Dio è amore (cfr I Giovanni 4,8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient'altro viene fatto fuorché amare» (n. 31 c).
Questo,
appunto, chiede Martini ai cristiani adulti, rispondendo all'ultima
domanda: come tramandare ai giovani il cristianesimo e farlo rifiorire?
Conclude lapidariamente il Cardinale: «Consegna ai tuoi figli un mondo che non sia rovinato.
Fa' sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia.
Leggila insieme a loro. Abbi profonda fiducia nei giovani, essi
risolveranno i problemi. Non dimenticare di dare loro anche dei limiti.
Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia
conta più di ogni altra cosa» (p. 126).
 

 
 
 
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