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narcotraffico e narrativa ( Pagnocco )

Post n°161 pubblicato il 27 Aprile 2011 da luigiderosa_2009
 
Foto di luigiderosa_2009

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E’ nota l’opposizione che Pirandello fa, nel discorso in commemorazione di Verga del 1920, fra scrittori di “cose”, come appunto Verga, e scrittori di “parole” come D’Annunzio. Distinzione peraltro che richiama quella desanctisiana fra “poeti” come Dante e “artisti” come Petrarca. Distinzione che ritorna sempre nell’arco della nostra secolare storia letteraria, a seconda della maggiore o minore spinta alla formalizzazione stilistica.    Distinzione che è giocoforza richiamare di fronte alla narrazione di Luigi De Rosa, che ha per titolo L’intreccio (il caso 416), stampata dalle Edizioni Seneca di Torino (2009). Ovviamente ogni confronto o parallelo con l’arte di Verga è del tutto fuor di luogo: qui si tratta di una narrazione-fiume di oltre 500 pagine, dove prevalgono i “fatti” a prescindere da ogni palese tentativo di connotazione stilistica. E quali sono questi fatti? In sintesi si può dire che ci troviamo nell’America Latina, propriamente in Colombia, dove la principale attività economica sembra consistere nella coltivazione e vendita della cocaina, al punto che la corruzione corrompe persino qualche struttura – almeno periferica –dello Stato. Né tale commercio è limitato alla sola area di produzione: in un sistema di capitalismo globale, oltre alle varie mafie, sono interessati ovviamente l’ONU, che ha dei propri organismi finalizzati alla repressione e al sostegno di agricolture alternative, e i due principali “blocchi” o aree di influenza, gli USA e la Russia, specie postsovietica perché – com’è detto a p. 409 – la “disgregazione del sistema ha espulso un gran numero di agenti segreti che, abituati ai soldi facili, si son messi in proprio”. Sarebbe troppo lungo – e fuor dei limiti di spazio consentiti – rendere conto, sia pure brevemente, della “congerie” dei fatti narrati. Fra i personaggi e le innumerevoli figure di funzione della narrazione, ci limitiamo a citare un capitano di vascello della marina militare colombiana, certo Jean Paul Carrera, che – in sèguito a un incidente (arenamento in un banco di coralli) avvenuto non per sua colpa a bordo della fregata “416” – lascia le forze armate e, comprata una piantagione, si metterà a coltivare palme da olio. Costui si sposerà con la direttrice del museo locale, certa Clara, che avrà in dono da uno di quegli agenti russi sopraindicati una statua precolombiana, molto rara e preziosa (che darà a De Rosa il destro di ipotizzare una “colonizzazione” etrusco-fenicia dell’America molto prima di Colombo). Quello che qui vale rilevare è che De Rosa tiene fede al valore semantico del titolo della narrazio-

ne: perché questa si svolge e si dipana attraverso l’intreccio dei fatti narrati. In capitoli che s’alternano e si combinano tra di loro, è la trama a condurre il racconto e a consentire così al lettore – com’è detto a p. 282 – “di arrivare alla fine del libro senza imprecare”. Anche se – ci sia consentito aggiungere – il lettore vi arriva sfinito, perché a differenza proprio di Verga che con la tecnica del discorso libero indiretto e del monologo interiore aveva abbandonato l’onniscienzza del narratore, De Rosa prosegue imperterrito in tutti i capitoli con la tecnica del discorso diretto, che riporta a volte “particolari” descrittivi che avrebbero dovuti invece essere filtrati e abbandonati. Sicché, non è certo la concisione il suo pregio. Si cita a esempio il cap. 89, dove in ben otto pagine sono riportate le impressioni e le domande di un ragazzino che sale per la prima volta su un aereo di linea e va

alla toletta, dove il rumore dello scarico gli sembrerà che sia quello di un coccodrillo nascosto. Essendo il personaggio principale quello di un capitano di lungo corso, è del tutto naturale imbattersi poi in paragoni del tenore: “a scuotergli l’anima sonnolenta come gli oggetti sbattuti a bordo qua e là dai colpi di mare” (p. 17), oppure in quello della noce di cocco cullata dai frangenti (p. 51). Per questo ci si trova un po’ spiazzati quando il paragone è “filtrato” dall’erudizione: “ha il vezzo di ripetere l’ultima parola, quasi soffrisse di anadiplosi logorroica” (p. 212), oppure quello sull’artista contemporaneo che fa “ruotare” un quadro da verticale in orizzontale (p. 307). E purtroppo ci si imbatte anche in una “perla” zoologica, come: “un topo squittisce tra i denti di un crotalo cacciatore” (p. 319), tranne che qui i denti abbiano un senso metaforico.    E’ sul piano del lessico, comunque, che la narrazione trova una più spiccata caratterizzazione. Innanzitutto quello marinaresco o del volo strumentale aereo (dal risvolto di copertina s’apprende che l’autore non solo ha conseguito il diploma nautico, ma anche il brevetto a guidare i grandi aerei); da questo àmbito tecnico-professionale si passa poi al lessico medico, molto particolareggiato (dacnomania [impulso a mordere tutto], ofidismo, flavivirus, emiopia, piressia). E naturalmente, nei

capitoli ambientati nella foresta tropicale, qualche esemplare di flora e fauna è indicato con i termini amerindii. Però alcune voci di uccelli, diciamo “nostrani”, sono indicati con termini rari (civetta “coccoveggiare” e pavone “paupulare”). Infine la preziosità di un pettignone (peli pubici) può coeesistere con l’improprietà di un brillo (che come aggettivo sta per “alticcio” al posto di “brillìo”).

 

                                               SERGIO  SPADARO

 
 
 
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una storia colombiana, un thriller eclettico.

 

 

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