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Porta Capuana (le origini)

Post n°45 pubblicato il 18 Novembre 2009 da luigiderosa_2009
 

 

Porta Capuana (le origini)

Per me, residente da molto tempo in America del Sud, arrivato alla sessantina per grazia di Dio e in buona salute, ricordare il periodo della mia crescita a Porta Capuana è come per un posato signore inglese stabilitosi in Australia, (magari per godersi la pensione assegnatagli dalla Corona bevendo enormi boccali di ecologica birra aborigena), ripassare a memoria il tempo della sua ordinata infanzia nell’elegante Time Square.
Ora, la licenza delle imprevedibili circostanze mi permette di paragonare lo spazio della seria piazza inglese con un più popolano luogo attraverso il quale si entrava nell’antica capitale di un regno che non c’è più. Posso dire che il fascino nebbioso di Time Square avrebbe annoiato il ragazzo curioso e introverso che ero.
Cito una frase dall’Etranger di Albert Camus nella quale mi sono imbattuto rileggendo con maggior attenzione “I topi del papa” di Franco Gentilucci, autore di pregevoli scritti: “Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso anni che non erano ancora venuti e quel soffio eguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora, negli anni non meno irreali che stavo vivendo”.
Questo brano si adattava bene alla mia volenterosa condizione d’insicuro. La vivacità di Porta Capuana mi fu di grande aiuto per dominare quel soffio emozionale camusiano che certi giorni mi spingeva a pensare cose brutte. Se quel soffio avesse agito su un ragazzo di Time Square, struttura urbana di elegante monotonia vigilata dall’alto di una colonna dal volto bronzeo di Nelson, ammiraglio la cui forca misurò il collo del pari grado Caracciolo, mi sarei affogato nella tristezza. Per fortuna, Porta Capuana era un pianeta nel pianeta, con una forza gravitazionale che funzionava all’inverso e perciò capace di catapultarmi lontano, cosa che accadde. Sotto le sue due grigie torri di roccia lavica, coglievo con occhi sognanti quei segni che profetizzavano l’avvio di certi cambi vitali che aiutano a stabilizzare l’animo.
Per la verità io non nacqui proprio a Porta Capuana, ma a un centinaio di metri, di lato alla pretura (che sentivo indicare dai vecchi pescivendoli col titolo di San Francesco), in piazza Sant’Anna a Capuana, angolo con il borgo Sant’Antonio Abate. Naturale che udendo nominare tanti santi, da ragazzo, mi facessi un’idea positiva del contorno: non vedevo nel limite che i miei genitori mi permettevano di raggiungere, (di giorno, perché di notte mi era vietato), né cattiveria, né cose degradanti che assediavano alcuni abitanti dell’area intorno alle due torri. Questo lo scoprii da grande, ma mi ero già allontanato a bordo di una nave e non provai lo sdegno per certi avvenimenti che a volte si concludevano in pretura o, malamente, a Poggioreale, (carcere o cimitero fa poca differenza). Oggi, sotto la luce cruda degli anni troppo maturi, quegli esiti mi appaiono naturali, dato il tessuto sociale di una Napoli che con difficoltà tentava di ricucire strappi all’uscita di una volgare insensata guerra le cui bombe la città avevano scosso a migliaia.
Erano mia madre e i miei zii protettori a raccontarmi le storie dei tesseramenti, della borsa nera, delle fucilazioni, dei bombardamenti, del coprifuoco, delle retate naziste, degli americani, delle am lire, del re, di Mussolini, dell’Africa, di Tripoli, da cui era tornato clandestino mio padre, dopo la resa della flotta, lui abbandonando la divisa di furiere della Regia Marina che lo aveva trattenuto dal 1937 al 1944. Anche lui, a volte, con una voce che lo trasformava, mi suggeriva pezzi sanguinanti della sua avventura in Africa, ma in un modo la cui diversità dal refrain dei racconti dei miei zii, percepivo pur senza riuscire, allora, a collocarla nelle giusta prospettiva. I ricordi di mia madre, pur presentandomi brani carichi di tragicità, recavano nel fondo una dispettosa ironia, (caratteristica curiosa in lei che la vita non aveva gratificato), forse derivata dall’essere scampata ai crolli e alle schegge degli spezzonamenti alleati, o forse per le eruzioni vesuviane del ‘44 che fecero del vulcano un solido riferimento per i piloti che arrivavano di notte per la loro missione di guerra. Le memorie di mio padre erano sospinte da note di celata tristezza che gl’impediva di ricordare apertamente gli affondamenti (era scampato) o i compagni perduti. Parlava più del tradimento di alcuni personaggi, della resa, delle umiliazioni, della fuga, dell’amarezza per la sorte toccata a quella che fu la quarta marina più potente del mondo. Mi consigliava di leggere i libri di Trizzino, storico navale i cui volumi circolavano in casa. Così, Navi e poltrone, Settembre nero, Gli amici dei nemici, fecero parte delle mie letture di studente del nautico, assieme a Hugo, Dumas, Manzoni, Dante e altri.
Maturai nel triangolo disegnato da tre vertici: Porta Capuana con le sue antiche chiese, Piazza Carlo Terzo col vecchio ospizio, Piazza Garibaldi con la storica stazione, cancellata poi dalle ruspe per fare posto a quel mostro orribile che vidi nell’inaugurazione della nuova stazione, col pavimento di gomma e la piatta copertura sostenuta da tozze colonne tripartire di cemento armato. Nel triangolo mi formai la prima idea del mondo che mi tratteneva, popolato di vincitori e perdenti, da ricchi divenuti poveri e miserabili divenuti ricchi, da gente per bene e loschi figuri, da avvocati formicolanti intorno alla pretura (San Francesco) e preti e monache delle chiese e del monastero che si trovava all’inizio del borgo di sant’Antonio Abate.
Non riesco a immaginare cosa ne avranno fatto del monastero, né ci voglio pensare. Le volte che sono dovuto tornare a Napoli, l’amarezza mi ha poi fatto compagnia per un buon pezzo. I luoghi non sono più quelli che io ricordo. O forse io non appartengo più alla pietre laviche che sono la pelle di Porta Capuana.

 

 
 
 
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