Creato da gianor80 il 21/07/2009

CINEMA E LIBRI

Suggerimenti, opinioni e elucubrazioni varie riguardanti le mie due più grandi passioni, il cinema e la letteratura.

 

 

Cartongesso

Post n°12 pubblicato il 14 Ottobre 2014 da gianor80

Francesco Maino, Cartongesso
Einaudi, 239 pagine, 19,50 euro

Un mondo di cartongesso sono ormai il Veneto e l’Italia per Michele Tessari, il protagonista alter ego dell’autore di questo sfogo aggressivo e veemente, che tanto è furioso quanto è doloroso: la constatazione di un marcio irrimediabile, dell’insopportabilità della società in cui si è costretti, delle sue ipocrisie, della sua radicale ingiustizia e intima violenza, non perdona – e non sarebbe giusto – neanche se stessi.

La narrazione fa fatica a staccarsi dall’invettiva, ma Michele Tessari – penalista sui quarant’anni che dice “faccio l’avvocato, non sono un avvocato”, che è a contatto nel carcere e in tribunale con i risultati di un preciso sistema di potere, composto da “una moltitudine politica minata, minata e decomposta, illuridita nel profondo dell’anima o meglio destituita d’ogni equilibrio morale, sfasciata e fistolizzata” – sa ancora la differenza tra il bene e il male e, nel suo piccolo, cerca di fare il possibile e il giusto.

Si staglia alla fine come un personaggio potente, tra i più rilevanti delle nostre lettere, un “egocentrista del cazzo” che però ha occhi per vedere e bocca per gridare, un piccolo profeta biblico senza nessuna consolazione. Tra brandelli di privato dentro un flusso collettivo, sempre amaro, spesso osceno: “Ecco quello che hanno fatto di me: un complice debole”. Ecco quello che hanno fatto di noi, dovrebbero dire i lettori.

 
 
 

Class enemy

Post n°11 pubblicato il 13 Ottobre 2014 da gianor80

Locandina italiana Class Enemy

Rok Bicek non solo ha trovato uno dei nervi più scoperti nel campo dei rapporti sociali del nostro decennio, la sfiducia nelle istituzioni e quindi lo schieramento automatico dalla parte dei singoli. Ma è anche riuscito a girare un film in cui questo è sfrugugliato fino ai limiti del sadismo e della cattiveria, senza mai sconfinarci davvero, per raccontare quel che nessuno racconta mai. Che poi l’abbia fatto a partire dal più scontato dei contesti, il liceo, quello le cui storie sono sempre a senso unico, sempre dalla parte di un soggetto solo, ha del geniale.
A scanso di equivoci, Class enemy è un film molto tecnico in cui il regista si nasconde e attraverso un gioco di torti e ragioni, che fa finta di mostrare i fatti per come sono e invece attua il massimo della manipolazione del pensiero dello spettatore con l’obiettivo di dimostrare proprio come molto spesso i meccanismi attraverso i quali ci schieriamo siano sclerotici.

Il principio è quello diventato sempre più pervasivo (grazie a Dio!) dopo Una separazione: creare dei poli d’attrazione di torti e ragioni e cambiarne la polarità di continuo, far sì che lo spettatore sia prima attirato da una parte, convinto dalle tesi o dall’atteggiamento di qualcuno e poi invece attirato dall’altra, costretto cioè a cambiare idea.

Questa volta per l’appunto più che i fatti (come nei film di Farhadi) sono gli atteggiamenti a tradire una fallacia di ragionamento, perchè nel caso del suicidio di una studentessa il primo degli imputati è un professore duro e inflessibile, che dice le cose come stanno ma soprattutto non è per nulla incline a venire incontro agli studenti, un professore fuori dal tempo che ha una visione del rapporto insegnante/studente da anni ’50: “Una volta gli studenti temevano noi, oggi noi temiamo loro. Non l’hai ancora capito?” gli dice ad un certo punto la preside, che si trova a mediare tra la sua durezza e una possibile rivolta di un gruppo di studenti che hanno motivo d’incolpare lui e i suoi metodi del suicidio della ragazza. Il professore in questione è tedesco e la scuola slovena, chi ha nozioni avanzate di storia e cultura slovena può cogliere ulteriori livelli di lettura in questo, ma anche senza il film funziona alla grande.

Ma questo non bastava a Rok Bicek e per essere ancora più duro mette tra gli studenti in rivolta contro il professore “nazista”, anche uno più sensibile a cui è morta la madre da pochissimo, il massimo dell’incontestabile. Fa bene quindi vedere Class enemy, perchè è cinema di testa che non dimentica mai la forma, che sa che sul grande schermo qualsiasi concetto nasce da come si riprende e si monta alla stessa maniera più che da come si scrive o si recita; per questo mette la forma al servizio degli schieramenti, lavora di ambienti stretti e macchina a mano per creare un scontro che non è fisico ma di parola, di logica e che ad un certo punto necessita di un clamoroso superamento del più atavico, banale e radicato dei pregiudizi. C’è una punta della cattiveria di Haneke verso lo spettatore unita all’amore per la forza delle parole dei cineasti degli anni ’60 nell'opera prima di questo ragazzo.

 
 
 

I detective selvaggi

Post n°10 pubblicato il 12 Ottobre 2014 da gianor80

Roberto Bolaño, I detective selvaggi
Adelphi, 688 pagine, 25 euro

Appassionante, provocatorio e caotico, ritorna I detective selvaggi di Roberto Bolaño (prima edizione spagnola 1998, ora ritradotto magistralmente da Ilide Carmignani) che con 2666, quasi un suo seguito, forma una delle imprese letterarie più ardite e convincenti della nuova letteratura mondiale, un modello difficile da imitare anche se nato a sua volta da modelli lontani: le scombinate avventure o disavventure di giovani intellettuali on the road hanno infatti una storia che risale al Satyricon, va avanti con gli inglesi del settecento, incrocia Gobineau (Le Pleiadi, che nessuno purtroppo legge più), e poco prima di Bolaño ci ha dato Il gioco del mondo di Cortázar alias Rayuela, e Fratelli d’Italia di Arbasino.

Gioventù come curiosità, irrequietezza, disponibilità, crudeltà, presunzione, egocentrismo e, in quanto intellettuale, smaniosa di citazioni e di amori e odi culturali senza mezzi termini, famelici o ringhiosi.

Diviso in tre parti, di cui la seconda offre una esplosiva galleria di figure ed esperienze che vanno verso il visionario, mette in scena lo stesso autore (nel romanzo Arturo Belano) e il gran teatro del mondo latinoamericano, tra utopie e disastri di mezzo secolo, spingendo la sua caccia oltre il deserto di Sonora, alla ricerca di una sconosciuta profeta del “realismo viscerale”, su fino a una città che è oggi frontiera dell’inferno.

 
 
 

Una promessa

Post n°9 pubblicato il 11 Ottobre 2014 da gianor80

Locandina italiana Una Promessa

Il cinema romantico è il più maltrattato, il meno curato, il più banale.

Il cinema romantico è il più difficile da fare, il più complesso da rendere e uno tra i più seri da affrontare. Patrice Leconte ha l’indubbio merito di affrontarlo molto seriamente con Una promessa (ma non è la prima volta nella sua carriera), non vuole svilirlo con lo smielato, il banale e l’accattivante, nè vuole cercare un realismo moderno che stonerebbe con l’adattamento del romanzo Viaggio nel passato di Stefan Zweig. Sceglie di realizzare un film in costume che guardi i sentimenti da fuori, cercando scrutare ogni gesto o movimento rivelatorio dei personaggi.

In Una promessa l’amore infatti non si manifesta mai, non si dichiara se non a mezza bocca, non è sbattuto in faccia allo spettatore, è semmai suggerito. È evidente fin dall’inizio il triangolo che si instaurerà tra i personaggi (siamo tutti spettatori smaliziati, sappiamo bene che un uomo e una donna che si incontrano in un film finiscono per provare sentimenti amorosi), Leconte non fa finta di non saperlo, così invece che raccontarlo a parole lascia che il suo film sfrutti l’interesse dei piccoli gesti ordinari, lascia che sia il pubblico a cercare avidamente nelle inquadrature, nella recitazione, nei gesti e nelle esitazioni un dettaglio rivelatorio.

L’inganno non può durare molto e già la seconda parte del film si basa sull’amore svelato, tuttavia c’è un’economia di gesti sentimentali che ricorda la freddezza di facciata di Jules e Jim, il pudore dei sentimenti che è caratteristica del più raffinato cinema romantico, quello che non cavalca i preconcetti già presenti nella testa degli spettatori ma cerca di sorprenderli con la più eterna e nota delle storie.

 
 
 

Assurdo universo

Post n°8 pubblicato il 11 Ottobre 2014 da gianor80

Fredric Brown, Assurdo universo
Meridiano zero, 188 pagine, 10 euro

È curioso rileggere i romanzi che mi sorpresero da ragazzo, in particolare quelli di fantascienza, o come si diceva, all’americana, di s.f. Dei piccoli maestri del tempo, resistono meglio quelli di previsione sociologica, ma anche altri perché stimolanti su altri versanti, dell’intelligenza e dell’emozione.

Brown, come Matheson, è stato un maestro del racconto breve, dalla trovata sorprendente e fulminante, ma nel romanzo ha lasciato un forte ricordo con Il vagabondo dello spazio e con questo Assurdo universo, apparso da noi nel lontano 1953. L’idea di infiniti universi paralleli, dove poco o molto cambia rispetto al nostro, di infiniti spostamenti e cambiamenti e possibilità, un’ipotesi tra le più azzardate e affascinanti, vi trovava uno sviluppo da suspense, e tutto questo permane, funziona e sorprende ancora anche se non ha più lo smalto della prima volta.

“Fred Brown è l’Einstein della fantascienza”, scrive Giuseppe Genna in una prefazione troppo veloce, “l’ucronia è lo slogamento del tempo e dello spazio”. La sorpresa di Keith Winton, editor di una rivista di “storie sorprendenti”, nel ritrovarsi dopo l’esplosione di un razzo ricaduto sulla terra in un mondo diversissimo dal suo – dove si materializzano differenze e fantasie dell’altro, quello “giusto” – mi ha coinvolto ancora e me lo ha fatto leggere nuovamente con impaziente e adolescente curiosità.

 
 
 

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ULTIMI COMMENTI

Ciao!
Inviato da: gianor80
il 12/10/2014 alle 21:03
 
Saluti
Inviato da: cp2471967
il 11/10/2014 alle 12:09
 
Assolutamente nn condivido , film un pò lento rispetto alle...
Inviato da: francesca632
il 07/10/2014 alle 11:28
 
 

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