Certi giovani di oggi, spesso patinati, possono essere molto crudeli. Anche se apparentemente sono carini e simpatici, rivelano gradualmente qualcosa di mostruoso.
Yeti è certamente la favola giusta per le vacanze: divertente, scorrevolissima nella lettura, con colori pop e toni leggeri. Ma questi sono gli elementi esteriori. Dietro l’apparenza da fiaba contemporanea si celano contenuti cupi e disincantati, interrogazioni profonde. L’alienazione più comune, il lavoro di tanti giovani confinati nel precariato (i call center), la noia consumistica, l’indifferenza verso i nuovi poveri – sempre più numerosi – raccontati come una cronaca della quotidianità dal sapore autobiografico: l'autore stesso (Alessandro Tota) è uno dei personaggi. Lo Yeti è invece un innesto surreale (tipico di tanti fumetti) nel registro realistico. In preda a uno strano languore, desideroso di un altrove migliore, scende dalle montagne, esce dalle fiabe (il prologo è raccontato come una favola illustrata), ma una volta giunto nella città, si scontra con il mondo reale. Lo Yeti perde il pelo ma non il vizio del candore, della purezza, della gentilezza: lui, inerme logo rosa come un Barbapapà, macchia innocente dell’estetica industriale di una parte del fumetto popolare, non può che soccombere in un mondo di lupi, talvolta però infelici di esserlo. È al tempo stesso una metafora e un resoconto puntuale della schizofrenia del mondo contemporaneo, privo di una linea d’orizzonte. Gli manca solo la voglia di ribellarsi di fronte a questo stato di cose.