Creato da cinzia.cucco1970 il 26/03/2011
saggio

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Settembre 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
            1
2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15
16 17 18 19 20 21 22
23 24 25 26 27 28 29
30            
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 

Ultime visite al Blog

s_risolutorecinzia.cucco1970ralloservicepensaresenzapensaretzn_mgnLaRiviereDesParfumsfernandez1983Odile_Genetblumare77
 

Chi puņ scrivere sul blog

Solo l'autore puņ pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

Noi e la natura »

ALLA RICERCA DI UN NUOVO UMANESIMO

Post n°1 pubblicato il 26 Marzo 2011 da cinzia.cucco1970

 Cinzia cucco

 

 


ALLA RICERCA DI UN NUOVO UMANESIMO

 

"Il contemporaneo (...) è colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di
trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia,
di "citarla" secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da
un'esigenza a cui egli non può non rispondere. È come se quell'invisibile luce che è il buio del
presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato di questo fascio d'ombra,
acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell'ora"
[Giorgio Agamben, Che cos'è il contemporaneo, Nottetempo, pp. 24,25]

Mi sono sempre posta con spirito critico nei confronti del presente, possedendo la forte convinzione che ciò che siamo, ciò che facciamo, sia sempre conseguenza di qualcosa, di scelte operate dai nostri predecessori, di eventi del passato. Tutto è, a mio avviso, regolato da un rapporto di causa-effetto e per questo ogni cosa, ogni evento, ogni individuo e ogni fase storica è passibile di contestualizzazione in una rete di implicazioni che non possono non tenere conto del passato. Partendo da questo presupposto si è resa inevitabile per me un'analisi della società in cui vivo e mettendola a confronto con altre forme del vivere sociale, sia in senso orizzontale (mediante l'osservazione di altre culture), sia in senso verticale (attraverso un'anamnesi storica) mi sono domandata da dove viene realmente il nostro stile di vita e quale sia la reale natura delle nostre scelte quotidiane. Essendo donna del sud appartenente ad una generazione figlia della rivoluzione socio-culturale del '68, mi sono sempre interessata al significato dell'appartenenza di genere nell'era contemporanea nonché del ruolo che esso determina. L'esperienza della maternità mi ha portato a fare i conti con una nuova dimensione del mio essere donna; tale dimensione ha aperto nuove prospettive e nuovi elementi da me precedentemente non considerati. Alla luce di ciò ho esaminato cosa voglia dire essere madre in società molto diverse da quella occidentale al fine di provare ad elaborare nuovi modelli organizzativi che superino sia l'impostazione cosiddetta tradizionale sia i limiti di una modernità che, almeno da un punto di vista meramente logistico, dalle mie parti non ha ancora raggiunto l'effettivo compimento. Si parla molto spesso della carenza, nel nostro paese, di una serie di servizi che permettano alle donne di raggiungere gli stessi obiettivi degli uomini in ambito professionale nonché di acquistare un maggiore peso nella società odierna. Acceso è stato il dibattito sulle quote rosa nei vari ambiti professionali e sociali senza che però si sia considerato il fatto che le donne, in quanto biologicamente strutturate per affrontare il complicato compito della maternità, non possono avere le stesse modalità di approccio, con le varie problematiche professionali, degli uomini, per cui credo sia giusto declinare ogni attività anche al femminile in quanto il punto non è rendere accessibile il 50% dei posti alle donne bensì metterle in condizione di vivere appieno e senza fratture il loro ruolo professionale e sociale conciliandolo serenamente con un aspetto della vita quale è quello della maternità. Tenere conto, insomma delle differenze in un'ottica realmente democratica e quindi delle peculiarità del cittadino, nella fattispecie di cui tratta il presente studio, delle donne.
Con l'arrivo dei figli noi donne contemporanee ci troviamo a fare i conti con nuove esigenze che, come è noto, cozzano con l'organizzazione del lavoro così come oggi è concepito. Si è allora individuato, nei servizi ancora lacunosi, l'aumento di asili nido pubblici e della fornitura di badanti e assistenti familiari da parte delle istituzioni ma ritengo si sia presa poco in considerazione l'elaborazione di stili di vita sociale che compenetrino le peculiari esigenze di genere con la normale e finalmente riconosciuta voglia delle donne di un maggiore peso nella società in quanto individui pensanti e non solo per il ruolo di madri. L'approccio con esperienze di accudimento totalmente avulse dalle nostre, come quelle delle società cosiddette tradizionali, mi ha portato a una riflessione sull'effettiva considerazione di cui godono i bambini in occidente. A uno sguardo superficiale i bambini occidentali sono più curati, maggiormente seguiti e in definitiva più amati rispetto ai bambini appartenenti ad altre organizzazioni sociali. Una serie di approfondimenti bibliografici mi ha portato a mettere in dubbio la convinzione che il modo di crescere i nostri figli sia l'unico dotato di validità. È noto che oggi facciamo meno figli e procreiamo più tardi (io stessa sono diventata per la prima volta madre all'età di 37 anni) per ragioni di cui si parla abbondantemente. Quando questi bambini vengono al mondo, la coppia media si dà da fare per affidarli prima possibile a qualcun altro per poter lavorare e per continuare a condurre vita sociale. I pochi bambini che vengono messi al mondo da un lato, come fossero perle rare, diventano esseri al centro delle attenzioni degli adulti, dall'altro lato sono vissuti come una limitazione e si trovano di fronte ad adulti disorientati, stressati e spesso impreparati di fronte al nuovo carico di responsabilità. Osservando le donne africane, le immigrate e accostandomi alla teoria secondo cui il portare i piccoli addosso sia più salutare e meno stressante (sia per il bimbo che per il portatore), mi sono resa conto che in società differenti dalla nostra, i bambini sono parte integrante del vivere comunitario. Diciamoci la verità: noi occidentali non siamo più abituati ai bambini. Procreare non è più una priorità, non è neanche scontato che prima o poi lo si faccia, così abbiamo dimenticato come sono i bambini. "Per crescere un bambino ci vuole tutto un villaggio" recita un proverbio africano . Nelle cosiddette società tradizionali i piccoli crescono imparando i valori della condivisione e l'inserimento nella società coincide con la loro stessa venuta al mondo. Lo spazio pubblico, in questo tipo di società, coincide con quello privato e, anche nelle realtà ormai urbanizzate, risente di una concezione tribale e solidale dei rapporti interpersonali. Nella storia dell'occidente era la società patriarcale a farsi carico delle esigenze dell'individuo, con i limiti che hanno portato soprattutto noi donne ad abbandonare questi punti di riferimento che finivano per trasformarsi in delle trappole oppressive. Questa realtà nulla ha a che vedere con la concezione normativa e organizzativa degli ordinamenti di tipo tribale che sono solo in parte paragonabili a dei clan con leggi proprie e assolutamente contrapposti a tutto ciò che è altro da sé. A proposito dei rapporti di tipo solidale presenti in queste realtà, nessuno è escluso dall'organizzazione sociale e non esistono fasce d'età svilite, come invece accade nella società occidentale contemporanea, dove essere, per esempio, anziani significa subire un processo di allontanamento dal sistema produttivo con conseguente emarginazione. Al contrario, in questo tipo di società esiste il consiglio degli anziani che fanno da ponte tra la tradizione e le nuove generazioni conservando quindi un ruolo di tutto rispetto.
In molte delle società tradizionali, l'assenza dell'individualismo non pregiudica necessariamente il fatto che la persona sia privata di un ruolo e di un senso di appartenenza che le conferiscono sicurezza, autostima e che la tengono senza dubbio distante da afflizioni tipiche della nostra civiltà. In occidente, in nome delle libertà individuali, spesso si finisce per rimanere soli, mentre nelle realtà di provincia può accadere che la solidarietà derivante dal fatto che ci si conosca un pò tutti, finisca per soffocare la libertà di iniziativa e di autodeterminazione. In alcune realtà tribali, come quella degli Yequana, dell'Amazzonia venezuelana , l'individuo non è mai solo senza che tale situazione lo vincoli nel proprio bisogno di privacy. Ciò che più mi ha colpito è il fatto che chiunque venga ospitato nella tribù, viene dapprima lasciato solo e servito affinché gli sia data la possibilità di ambientarsi. Un pò come se gli si desse la possibilità di rompere il ghiaccio. Tutti i comportamenti all'interno di tale organizzazione sono volti ad una gradualità che permetta di vivere senza traumi e fratture interiori tanto che ogni componente della comunità finisce col mettere in atto una serie di compiti gravosi senza che ciò lo destabilizzi minimamente. In occidente la finalità del vivere è assolutamente opposta: siamo tutti volti al perseguimento di un successo che ci porta alla competizione più sfrenata, facendoci raggiungere livelli altissimi di stress e ciò accade fin dagli albori della vita, in seno alla famiglia la quale finisce per perdere il ruolo rassicurante che dovrebbe avere. Già all'interno di quest'ultima si attuano infatti dei comportamenti di competizione che portano a delle dinamiche in cui tutti sono contro tutti, con forte destabilizzazione dell'individuo. È opinione diffusa che uno spirito competitivo renderebbe la persona maggiormente predisposta a vivere da vincente nel mondo civile; in realtà tutti ci portiamo dentro un vuoto affettivo che in qualche modo porta a disperdere le energie psichiche e che non sempre porta ad attuare strategie realmente vincenti. D'altronde, se si guarda la capacità di vivere in un ambiente ostile come quello della natura selvaggia, non credo sia scontato che un occidentale abbia una forza d'animo e una resistenza fisica maggiore di chi appartiene alle cosiddette tribù primitive. Se nel nostro passato i rapporti di potere e di autorità basati su rigide gerarchie erano una componente sia all'interno della famiglia sia all'interno dello stato, oggi l'individuo, apparentemente più libero di autodeterminarsi, finisce col non avere più punti di riferimento e col ritrovarsi disgregato dalla volontà di acquisire un ruolo importante nella società. Se tali obiettivi non sono raggiunti, l'individuo vive la propria condizione con un senso di disagio che non di rado sfocia in problematiche dai contorni spesso clinici. Da qui una serie di squilibri della personalità peculiari della civiltà occidentale, il disprezzo del lavoro (sembra che tutti debbano arrivare alla stanza dei bottoni) con conseguente indebolimento della tempra fisica. Dando uno sguardo alla storia delle grandi civiltà, è possibile dedurre che esse si siano estinte dopo aver raggiunto il loro apice (si pensi, ad esempio, alla civiltà dell'antica Roma), dal momento che, essendosi adagiate sul benessere, non sono state in grado di far fronte a situazioni di emergenza. Osservando il mondo in cui viviamo, sembra che in genere la gente conduca una vita sempre più isolata e stressata, dal momento che l'agorà, ovvero la piazza, è solo virtuale e non sempre è in grado di mettere in reale contatto le persone. A proposito delle fratture esistenziali dell'individuo occidentale, per tradizione, siamo abituati a barcamenarci tra dualismi di varia natura: corpo-anima,bello-stupido, madonna-prostituta, donna-madre, nord-sud, etc.
Dando uno sguardo alla percezione che, nel passato anche recente dell'occidente, si ha della donna, emerge immediatamente un approccio oserei dire utilitaristico per cui essa viene considerata come un individuo filtrato dalla sua funzione sociale di allevamento del cittadino. Questa concezione si palesa già in epoca classica, tuttavia, nel corso dei secoli la situazione non varia di molto e sarà addirittura il fascismo a rispolverare questa visione della donna non tanto come depositaria di diritti e doveri bensì come genitrice di colui che invece ne sarà oggetto. La figura della donna è sempre, fino alla metà del XX secolo, frammentata e comunque sempre in funzione dell'uomo, unico soggetto della vita pubblica e privata: madre, sorella, moglie, amante, etc.
Secondo la dott.ssa Marina D'Amelia "dal secondo dopoguerra l'armonizzazione tra l'attenzione ai bisogni dei figli e l'attenzione alla dignità propria continua ad essere difficile nella vita quotidiana delle madri, senza contare che essa implica complesse operazioni sul piano psichico" .
Anche oggi, in un mondo in cui sempre più spazio viene dato al cosiddetto gentil sesso (almeno in certe sfere della società), la donna percepisce sé stessa come un insieme di ruoli e non come un individuo unico e complesso: fuori casa è lavoratrice o donna in carriera con precise competenze ma è ancora moglie, amante e madre, stentando a conciliare serenamente tutti questi ruoli che, come le sfaccettature di un poliedro, non riescono ad amalgamarsi in un unico monolite e che vengono così vissuti come abiti che si cambiano nel corso di giornate sempre più frenetiche e al limite della nevrosi, dal momento che è possibile ottemperare a tutti i compiti solo a condizione che si possa delegare.
Se tuttavia riuscissimo a vedere la persona nella sua complessità, esisterebbe un reale rispetto della dignità umana. Ancora oggi ci portiamo il retaggio della misoginia che portava gli antichi greci a contrapporre il maschile, portatore di valori positivi, al femminile, identificato come sinonimo di debolezza e inaffidabilità. In realtà il femminile è, in natura, fondamentale per tutto ciò che attiene ai valori legati alla tutela della vita e alla creatività, valori questi che non bisogna relegare alla procreazione e alla cura dei figli ma che diventano fondamentali anche nell'organizzazione della società e del lavoro il quale è, ancora oggi, antropocentrico, tanto che noi donne veniamo allevate a disconoscere la nostra componente femminile se vogliamo avere successo nel lavoro. In un'ipotetica società in cui i valori e la cultura femminile fossero rivalutati, le donne potrebbero tranquillamente realizzare il bisogno di autoaffermazione e di maternità senza sentirsi sole e frammentate, finalmente coadiuvate in quelle che sono le necessità familiari le quali devono avere comunque la priorità in una società che si consideri civile, dal momento che tutti, anche i bambini, hanno la propria dignità e la difesa della vita è, in ultima analisi, portatrice di benessere, per cui, se è vero che in Germania, ad esempio, l'astensione dal lavoro per maternità per tre anni, ha abbassato il P.I.L., è anche vero che la cura di futuri cittadini da zero a tre anni, porterebbe a una crescita dell'economia in futuro, costituendo in tal modo un investimento. A riprova del fatto che i bambini sono visti più come un peso che come una componente assolutamente normale della società, è la disapprovazione a cui vanno incontro i genitori quando portano la prole con loro rendendoli effettivamente partecipi di tutte le attività sociali, in quanto i figli vengono relegati a una delle sfaccettature della vita della gente. In una concezione unitaria e globale dell'individuo, anche la genitorialità, i figli e le varie fasi delle età, si integrano perfettamente nel vivere quotidiano senza fratture, senza intoppi nell'organizzazione, senza che venga pregiudicato l'ordine, il rendimento, il lavoro. Una donna che esercita la sua attività professionale in compagnia del proprio figlio è vista come persona non proprio seria. Ma i bambini sono la vita, è normale che esistano, non vanno nascosti. Un bambino continuamente coinvolto nelle attività degli adulti e non trattato come un essere non in grado di comprendere, un bambino responsabilizzato che fin dalla nascita venga abituato alla vita senza subire un traumatico distacco dalle braccia della madre, che acquisti sicurezza e autostima grazie ad una puericultura di contatto , si troverà assolutamente a proprio agio in qualunque contesto, anche in quello lavorativo. Ciò non significa sfruttare i bambini o renderli dei piccoli adulti, significa solo che essi dovrebbero essere maggiormente coinvolti e che, se diamo loro l'opportunità, sono in grado di essere molto più responsabili di quanto pensiamo senza che ciò pregiudichi la loro necessità di stare con altri minorenni (non solo coetanei) e di giocare. I bambini occidentali sono spesso dei piccoli tiranni abituati a trovarsi al centro dell'attenzione ma solo a condizione che ciò avvenga in luoghi prestabiliti per cui, nel momento in cui si vengono a trovare nei luoghi deputati alla vita degli adulti, si comportano come cani sciolti. Se disponiamo i nostri piccoli nel box, nel girello, nel seggiolone, se li limitiamo nell'esplorazione, se, quando sono neonati, li releghiamo in una sdraietta e non li portiamo addosso (nei limiti della nostra resistenza fisica) permettendo loro una totale conoscenza del mondo circostante, se non li portiamo con noi a far la spesa, l'innata curiosità ed esuberanza li porterà a cacciarsi, al momento in cui essi si troveranno in situazioni nuove, nei guai o a creare comunque scompiglio. Un bambino cosiddetto buono non è un bambino stupido, privo di curiosità, ma un essere da sempre abituato a quello che noi occidentali amiamo definire il mondo degli adulti, essendo tutti noi usi a incasellare tutto. Inoltre egli vedrà l'adulto come un esempio da imitare e non come un essere al suo servizio, pronto ad assecondare ogni richiesta. Non esiste il mondo degli adulti, il mondo del lavoro, il mondo dell'educazione, il mondo dei bambini. Esiste il mondo e basta. Questo mondo viene gradualmente e liberamente assimilato dai più piccoli, che lo assaggiano, lo manipolano, lo guardano e lo osservano; poi ci giocano, lo imitano, lo elaborano e lo metabolizzano. Non c'è bisogno di rivolgersi ad essi come se non fossero in grado di capire e vezzeggiandoli continuamente, non è necessario stare sempre a sottolienare quanto siano bravi o belli, utilizzando magari un tono di voce affettato, basta farli vivere nella normalità perché è quest'ultima che caratterizza la vita e non la straordinarietà. Essi cresceranno in tal modo equilibrati mentalmente e fisicamente diventando così in grado di affrontare le difficoltà della vita senza traumi e nevrosi. Sembra invece che il primo trauma al quale è sottoposto il bambino sia quello della separazione dalla madre alla nascita. Secondo Michel Odent, medico ostetrico noto per aver introdotto il parto in acqua e in casa, è già sbagliato recidere subito il cordone ombelicale .
lo psicoanalista Franz Renggli, in un suo studio sull'origine della paura , tenta di dimostrare che l'origine della paura e dell'insicurezza diffuse nel nostro tempo derivano dal modo in cui, dalle origini della civiltà, affrontiamo il momento della nascita. L'autore affronta l'argomento mettendo in atto un' accurata analisi della mitologia mesopotamica, da egli considerata rappresentativa della nascita del bambino, comparando, alla fine, il modo di mettere al mondo i bambini tipico della società occidentale con quello delle civiltà considerate meno evolute dove, al momento del parto, non si verifica alcuna frattura giacché la madre porta con sé ovunque il suo bambino in modo che egli, che fino a prima di nascere non percepisce altro che la genitrice, sia rassicurato in un mondo che da principio disconosce totalmente.

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
La URL per il Trackback di questo messaggio è:
https://blog.libero.it/cinziacucco/trackback.php?msg=10045023

I blog che hanno inviato un Trackback a questo messaggio:
 
Nessun Trackback
 
Commenti al Post:
Nessun Commento
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963