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Pirati e ciambelle

Post n°82 pubblicato il 03 Giugno 2008 da qatia
 
Tag: catia
Foto di raccontare

Alle sei di sera fa ancora caldo. Saliamo gli scalini verso la piazza principale, da dove arrivano applausi e risate. Prima che riusciamo a vedere gli artisti lo spettacolo ci viene offerto dal pubblico. Gente di tutte le età, ma in prevalenza giovani e giovanissimi. Colorati, tatuati, crestati, rastati e talmente pieni di ferraglia che metà peso è tutto piercing. Casacche e pantaloni informi, sandali fatti a mano. Borse di tela sempre enormi. Da quando vivo in periferia tipi così non ne vedo più. Da noi va più di moda il tipo  palestrato-scurocchialuto-pantacalato-collanadorato. La prima sensazione che provo è qualcosa di simile alla nostalgia. Come tornare in un posto dove si è stati bene. I pirati lanciano coltelli fingendo di ferirsi; le bambine s’ impressionano un po, io accovacciata accanto a loro spiego che è un gioco, mi guardo intorno sorridendo e allargo i polmoni soddisfatta.

E penso a questi giocolieri che avranno quasi la mia età. A come dev’essere sentire un richiamo e doverlo seguire fino in capo al mondo. Strade e piazze dove giocare con il tempo senza guardare troppo più in là. Magari sbaglio e questi qui sono tutti proprietari di case pagate in contanti, ma qualcosa mi dice che il saltimbanco non è il genere di cliente preferito da banche e assicurazioni. Ci vuole determinazione e forza per coltivare i propri sogni e farli sbocciare nella realtà di una piazza. Credo che gran parte del loro fascino derivi proprio dall’essere così lontani dalle nostre vite; un fascino che è di tutti gli artisti, ma di questi forse un po’ di più.

Mi guardo intorno. E non assomiglio a nessuno. Non agli artisti, ovvio: non ho nessuna arte a muovermi le mani. Ma nemmeno al pubblico. Le mamme tatuate coi loro bimbi portati addosso nelle strisce di stoffa. Uomini pieni di anelli. Ragazze in sari che parlano monferratese. Mi sento come il buco della ciambella. Che della ciambella è parte, ma della ciambella non ha niente.

Una sensazione che conosco per esserci passata tante volte. Trovarsi bene in un ambiente,  ma sentire netta la differenza. Un tempo mi dispiaceva un po’. Come quando le mie amiche dell’università mi regalarono, insieme a qualche libro, un rossetto e un mascara. Per dirmi che mi volevano bene, certo, ma se avessi cercato di somigliare a loro almeno un po’ ... .

E ci provai, per gioco. Ma smisi presto: sembravo un film di Stanlio e Ollio a colori.

Una vecchia storia: perfino alle medie dicevano che ero ‘diversa’; non ‘strana’, che volendo ha un certo fascino. Solo ‘diversa’, inspiegabilmente ‘diversa’.

Col tempo ti abitui e ci fai pace. Perchè tutto l’amore di un compagno o di un fratello non può annullare le differenze. Le sfumature non colte che seminano l’incomprensione, l’incomunicabilità. Puoi lasciare aperta l’attenzione e l’accoglienza, ma niente più.

La mattina seguente allo spettacolo dei pirati passeggiamo sul Carpegna. E’ il posto dove Marco Pantani  s’allenava. E penso a quanto dolore lo abbia accompagnato sempre, fino alla fine. Il dolore fisico, il più semplice da combattere. E quell’altro, amaro e sottile come una malattia. Una specie di effetto ciambella, forse. Tutta quella gente intorno, ma nessuno abbastanza per trattenerlo. Una cosa da brividi. Da pensarci tanto, senza parole superflue. Da fermarsi a immaginare la fatica di una salita, e poi un’altra , e un’altra ancora. I tornanti senza tregua, mentre gli alberi allungano un po’ d’ombra carica di silenzio. L’odore di mattina fresca, tagliato da un cuculo lontano. Infilare tenacemente un metro dopo l’altro, concentrandosi tutto nei piedi e nelle gambe. Resistere un centimetro in più. Inseguire pure lui un richiamo, come i giocolieri. Camminando su un filo sottile. Decidere, un giorno, di saltare giù.

 
 
 
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Un blog di: raccontare
Data di creazione: 16/11/2006
 

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