Creato da rtsindacato il 10/06/2010
Il verbo che ogni buon siciliano coniuga da sempre

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Sono siciliano, quindi mangio...

Post n°16 pubblicato il 11 Agosto 2010 da rtsindacato

Fonte : SiciliaInformazioni

Sono siciliano dunque mangio. Ma roba di sostanza, con tanto di calorie e grassi sufficienti per tenere alto il livello del colesterolo. Pane spesso e mollicoso (non può mancare nella tavola) “cunzatu” con olio, mica grissini, crackers o fette biscottate. Formaggio (tumazzu) solido e salato, altro che crescenza o simili latticini magri. Almeno così nella tradizione contadina che, seppure in via d’estinzione, tramanda nei siciliani il sapore di una cucina rigogliosa per stomaci forti e capienti. A dispetto della moda delle diete, anche qui diffusa (ma meno che altrove); quelle diete che ti fanno perdere dieci chili in quattro mesi, da recuperare, con gli interessi, nella rimanente parte dell’anno. 

“Sparaci, funci e granci spenni assai e picca manci”, asparagi, funghi e granchi spendi molto e poco mangi. Un proverbio nel quale è racchiusa tutta la popolana diffidenza sicula per i pasti leggeri e poco nutrienti, eterei verrebbe da dire, impalpabili secondo un gusto, radicato nei secoli, per ciò che è energetico e abbondante. E in cui si manifesta l’idiosincrasia per quegli alimenti che non ti riempiono lo stomaco e ti alleggeriscono i portafogli. C’è forse in ciò il ricordo ancestrale di un’atavica miseria. Può esserne segno l’ossessiva attenzione al cibo dei nostri nonni o delle persone di età avanzata che hanno vissuto gli anni, precedenti il boom economico, in cui la povertà, quella più sofferta, era tangibile e provocava languori allo stomaco. Quei nonni che si preoccupano nel constatare la magrezza dei propri nipoti: perché l’essere “sicchi”, ai loro tempi, non era indice di salute ma di scarso o cattivo nutrimento.

La “panza”, d’altronde, a ben riflettere, rivela, nei detti popolari, importanza, distinzione, per quanto non manchino negli stessi sfumature ironiche, espressione, sotto altro aspetto, di derisione dei potenti. “Omu di panza” è detto il mafioso che si erge a difensore del latifondo e che, nell’assumere questo ruolo, accompagna alla tracotanza (la “panza” in senso figurato) un benessere svelato dalla protuberanza del ventre (“la panza” in senso fisico). “Panza e presenza” indica, in modo ancor più esplicito, e in qualche misura sarcastico, l’opulenza e l’arroganza di una persona che conta colta nell’atto in cui fa sfoggio della sua autorità. Un’altra espressione dialettale, tuttora frequente, avalla la concezione siciliana del cibo inteso soprattutto come sostanza che dà forza e vigore: “manciarisi ‘na fedda di carni”. Quando si “mancia ‘na fedda di carni”? Nelle occasioni di rivalsa, quando si dà dimostrazione a un tizio che non ci è simpatico o con cui si è in competizione, di avere ragione e lui torto, o comunque nei casi in cui gli si dà una lezione. La soddisfazione, in tali evenienze, è tale e tanta da paragonarsi al mangiare la carne, il cibo più nutriente, evento un tempo d’eccezione, destinato alle feste comandate. Quella carne che era privilegio dei ricchi e che trovava, nella gente del popolo, il surrogato, specie a Palermo e nei suoi mercatini, nella meusa, milza o polmone di vitello, e nella stigghiola, budelline di capretto o agnello. 

Ma i siciliani mangiano per vivere o vivono per mangiare? Si potrebbe rispondere: un po’ l’uno, un po’ l’altro. Se si presta fede a quanto sostiene Santo Correnti, storico ed esperto di gastronomia, “la Sicilia è tutta un’esplosione di cibi raffinati e gustosi”. A detta di Correnti, il primo gastronomo della storia fu Archestrato di Gela, che visse nel IV secolo a.C., e persino Orazio fece encomio dei cuochi e delle pietanze sicule. Correnti giunge finanche a confutare la tesi, assecondata dalla tradizione, secondo la quale le paste alimentari vennero per la prima volta importate dalla Cina, grazie a Marco Polo, agli albori del XIV secolo. Il primato della pasta, asserisce lo storico catanese, è siciliano: già dal XII secolo a Trabia si fabbricavano i tria, cioè gli spaghetti nella loro accezione araba, che venivano esportati in altre terre. Ciò, peraltro, si spiegherebbe in quanto per fare gli spaghetti occorre la semola, che deriva dal grano duro, allora coltivato solo in Sicilia. Dobbiamo credere a Santi Correnti? Sì se si riconosce l’autorità dei suoi studi gastronomici che gli hanno valso l’intitolazione di una sala nel Museo delle Paste Alimentari di Roma. 

La cucina siciliana è comunque davvero ricca e variegata. Ogni città ha poi una specialità di cui va fiera. A Palermo la “pasta cu i sardi” o anche “cu i brocculi arriminati”; a Catania “la Norma”, di solito penne con sugo, melanzane e ricotta salata; a Messina lo “stoccafisso alla ghiotta”. Per non parlare della pasticceria che ha il suo culmine nella cassata siciliana, una meraviglia per i palati ma anche un concentrato esplosivo di calorie, e i cannoli ripieni di crema o ricotta (giganteschi quelli di Piana degli Albanesi). Una cucina esagerata, come esagerate sono le porzioni delle varie pietanze. Specie nelle trattorie più popolari i piatti vengono presentati strapieni. E guai a chiedere a chi le gestisce mezze porzioni: offendereste la loro dignità professionale. L’abbondanza viene prima di ogni cosa: in ogni caso non esaudirebbero le vostre richieste. Altro che “sparaci, funci e granci” destinati a chi vuol morire di fame e spendere un patrimonio.

 
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