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Ecco il racconto del vincitore del concorso "La notte dei mostri scriventi"

Post n°33 pubblicato il 25 Novembre 2014 da cutupedizioni

MOSTRO!

di Danilo Puce

 

Just know someone else is gonna come and clean it up / Born and raised for the job / Someone always does / Oh I wish you'd get up
Go over get up go over and turn this tape off /

I keep the wolf from the door / But he calls me up

(A wolf at the door, Radiohead)

 

«Per un momento, ho avuto davvero paura per te, papà» ti dice, incrociando le gambe, gli anfibi infangati sul tavolo, accendendosi una sigaretta. Per guardarla, scolli per un attimo gli occhi dallo specchio del corridoio. «Mettiti pure comoda» le dici, tirando fuori quanto più sarcasmo puoi dal tuo corpo oppresso dalla fiacchezza. «Non sono sporchi, pa’!» «Almeno potresti non fumare in cucina!» «Eddai papi! Sto cercando di rilassarmi un attimo, ok? Cerca di capirmi! È stato terribile là fuori…» «…E a casa di mamma? Fumi anche lì?» «Nah. Lei è persino più rompipalle di te». Ridacchia, lo fai anche tu, ma la tua risata esce fuori come un ruggito amaro, un borbottio senza speranza. «Chissà come staranno godendo di quello che mi è successo… lei e quello stronzo di Vittorio!» «Pa’! Dai! Lo sai che non mi piace quando parli così di loro!» strepita, e continua a parlare, ma ormai hai smesso di ascoltarla. Sei tornato a concentrarti sull’immagine impietosa che ti regala lo specchio. La tua testa ben rasata, lucida di sudore, ospita la danza intemperante di vene bluastre che ti spaccano il cranio a ogni pulsazione. Gli occhi sono intrisi di rosso, come per stanchezza, o spavento, o incazzatura, o voglia di piangere. Qualcosa che ha l’odore della Coca-Cola ti impregna la camicia bianca, la giacca nera ha un odore ributtante, e gocciola ancora un liquame fetido e denso. È il maleodorante vomito uscito dalla bocca unta di una scatoletta di tonno, dalla decomposizione di bucce di frutta annerite, da carte trasparenti macchiate di crema marcia, da fazzoletti imbevuti del pus di brufoli e ascessi, così come di sborra e sangue e schegge nere di unghie tagliate. La città ti ha investito con la sua parte più putrida, e tu cerchi di smettere di pensare alla sensazione oleosa sulle dita, e a un vestito di quasi duemila euro mandato a puttane. «Pronto ma’? – la voce ti desta dai pensieri – Uh? Sì, papà è qui! Sì sì, sta bene ora! No, non so come la stia prendendo… è parecchio inquietante, è lì in corridoio che si guarda allo specchio, e non si è ancora neanche fatto una doccia. Sì. Sì. Lo so anche io come è fatto. Uh, ok. Pa’… vuole parlare con te! – viene verso di te porgendo il telefono ma la scosti con un gesto della mano – Uh, ok. Non è un buon momento ora, ma’. Ok. Come? Ah, cavoli! Ok! – riaggancia – Pa’, dice mamma che stanno parlando di te, proprio ora, alla tele!». La camicia lercia e zuppa aderisce alla carne, tappa i tuoi pori. Cerchi di scrostarla, è come una seconda pelle. Tua figlia mette al massimo il volume del televisore. «Fracasserai i timpani ai vicini, così» «Penso che siano tutti sintonizzati su questa roba, a quest’ora, pa’». Cittadini in collera, sindaco viene gettato nel cassonetto dei rifiuti. È il titolo del servizio. Ma quelli non sono cittadini in collera, pensi. Sono solo animali, bestie. E il giornalista che ha scritto quel titolo è un cane. Domani darà le sue dimissioni, prometti a te stesso, e la cosa ti eccita, anche se sai che si tratta di una momentanea illusione. La scena di quelle mani da primate che afferrano un politico, ruggendo versi di goduria nell’aria mentre lo sollevano, tu l’hai vista in soggettiva. La patetica stronza che ride, mentre affondi nel cassonetto, tu l’hai maledetta già la prima volta. Vedi finalmente la faccia del tipo che ti teneva giù la testa, mentre provavi a rialzarti. Sembrano i bei vecchi tempi, quando quello stronzo di Ravecca ti teneva la testa ferma e no, non potevi alzarla, anche se la puzza di piscio del cesso dove eri infilato ti faceva vomitare. “Mostro! Stai giù, mostro!”, ti diceva, e tu sai che avresti finito le medie coi polsi tagliati se non fosse stato per tua madre. Non sei un mostro, ti diceva mamma, sei il migliore, il più capace, il più intelligente. Sono solo invidiosi, ma un giorno smetteranno di ridere tutti. Quanto era saggia mamma. Lo ricordi ancora con piacere il giorno in cui Ravecca si fece ricevere da te, pochi giorni dopo la triste buffonata della minaccia di gettarsi da un tetto, per protesta. Quasi non ti riconosceva, senza gli occhiali, e con un corpo nuovo, così robusto. Era stupito, ma fece presto a sostituire lo stupore con una sorta di reverenza mistica, quando per la prima volta ti chiamò “Sindaco”. Ma ti dava ancora del tu, vista la vecchia amicizia. «Sono senza lavoro, capisci? Mi aiutano i servizi sociali a me! Sono inguaiato nero. Io qua mi ammazzo se non trovo qualcosa da fare! Sindaco, lo capisci?». Il tuo corpo vibrò come un pene eretto quando gli rispondesti in perfetto politichese, con voce calda e impostata, riferendoti alla “crisi economica”, ai “tagli”, alla “gente in ginocchio”, al “ti capisco, ma…”, mescolando gli ingredienti come un barman che sta per servirti un veleno. «Eddai Sindaco. Mi mandi via così? Proprio a me? Ma non ci stai pensando ai vecchi tempi?». Sì che ci stavi pensando. «Il Sindaco deve pagare! Qui non si tratta solo di incuria, non è solo disonestà! Qui si tratta di omicidio colposo e di disastro! E ne deve rispondere lui!» sbraita Gambarotto, il deputato di Coscienza Cittadina, coi denti giallastri in favore di telecamera, l’acredine nelle parole scandite a sputi, sillaba dopo sillaba. Fiotti di saliva che escono dalle labbra e colpiscono l’obiettivo, acquetta schiumosa accumulata agli angoli della bocca, fili di saliva che gli colano sul mento. Acqua ovunque. Acqua velenosa e infetta. Come quella che ha invaso le strade, i negozi, uscita dal fiume, entrata nelle case, nei muri, nelle prese, nelle ossa. «La città doveva essere messa in sicurezza anni fa! Macché! Lui non ha mai fatto niente! I soldi per il progetto dello scolmatore, che fine hanno fatto? Se li sono mangiati lui e i suoi! E ora!? Sono morte delle persone!». È solo il primo, pensi, dei tanti rivali che ora ti sognano con la testa nel piscio. Vorresti tanto che ci fosse mamma, a dirti che andrà tutto bene. «Chiederanno le tue dimissioni, pa’? Mamma… «Eh, pa’? Dovrai dimetterti?». Digrigni i denti fino quasi a spezzarli. Il telefono suona, ti trapana il cervello, ma tu non hai voglia di rispondere. «Il fango! – dice un tizio davanti ai microfoni, il volto massacrato dalle rughe, sta portando via gli oggetti distrutti dal suo negozio – Il fango è un mostro spietato e senza cuore, è sporco, è inarrestabile. Sa lui dove vuole andare, e niente lo ferma. Il fango è un mostro perché butta giù tutto quello che ha davanti. Il fango non si fermerebbe davanti a nulla!». Il telefono continua a trillare. «Pa’. Ti chiamano! Sarà uno dei tuoi collaboratori, no? Vorranno sapere come stai, pa’!». Ti slacci la cravatta con tanto vigore che per poco la testa non ti cade dal collo. «Oh merda» dice tua figlia, preoccupata, accendendosi un’altra sigaretta. «Hanno fatto bene a gettarlo nei rifiuti! – dice una donna in tv, dopo aver interrotto lo sciabordio triste del pantano colpito dal tiracqua – Hanno fatto proprio bene! Era venuto in mezzo a noi, a fingere interesse per la città! Lui, che la sera dell’alluvione era ospite di quella prima cinematografica e si godeva la nottata! E ora viene qui, da noi, che stiamo cercando di salvare il poco che ci è rimasto! Ma cosa vuole da noi? La gente ha reagito bene! Lui non ha idea di quello che abbiamo provato, e uno così non può guidare dei cittadini, deve solo stare nella spazzatura!» «Mi sa che stavolta sei fottuto, pa’». Il cellulare ti vibra nella tasca. Avresti voglia di spaccarlo con un morso, ma lo porti all’orecchio. Le tempie non smettono di pugnalarti, il tuo respiro è un lento sbuffare dalle narici. È qualcuno dei tuoi. Ti parla di scene apocalittiche, da Giudizio Universale biblico. Non lo ascolti, chiudi gli occhi. Pensi a quando mamma ti insegnava catechismo, con gli altri bambini. Pensi a quel Dio severo, che tutti chiamavano cattivo. Ma tu sapevi, in realtà, che confondevano la cattiveria con la saggezza. […] Così io sarò per loro come un leone; starò in agguato sulla strada come un leopardo. Li assalirò come un'orsa privata dei figli, spezzerò l'involucro del loro cuore, li divorerò come una leonessa; li sbraneranno le bestie selvatiche… Lei dorme nel sedile del passeggero, infilata nella tuta della squadra, il cappuccio le copre i capelli corti impiastricciati di sudore, la nocca del dito indice in bocca, un paio di Nike abbandonate sotto il sedile. È stata davvero brava, non c’è dubbio che sia tua figlia. La migliore della partita. Un libero davvero promettente (certo, se smettesse di fumare e mangiare schifezze…). Sorridi, le carezzi una guancia, lei non fa una piega. Sonno pesante, tipico della tua famiglia. Ripensi ai genitori delle altre ragazze: non ti hanno neanche salutato. Ognuno di loro ti evitava, parlarti li avrebbe fatti sfigurare. Solo e rinnegato. In un colpo eri tornato alle medie. Non ti sei fermato a mangiare con loro, sei piombato in macchina, quando in autostrada ti ha sorpreso una grandinata e ora, in città – la tua città, come ami ancora pensare – piove a dirotto. Le previsioni avevano detto che l’allerta meteo era finita, e invece eccoti lì, sotto una scarica contro la quale i tuoi tergicristalli sono impotenti. Ridaranno la colpa alla politica anche stavolta? Non vedi a un centimetro, finisci con una ruota sul marciapiede, imprechi. Cerchi di tornare in carreggiata ma non vedi davvero nulla. «Che succede pa’?» ti dice lei, rigirandosi sull’altro lato. «Nulla, stai tranquilla, fra poco saremo a casa», metti al massimo il riscaldamento, e lei torna a rilassarsi. Pioveva a dirotto anche quella notte in macchina con Loredana, proprio la notte in cui la concepiste, sul sedile di dietro, mentre la furia gocciolante della natura tamburellava sulla carrozzeria, scoprendovi felici, perché al sicuro, al caldo. Acqua ovunque. Impietosa, a flusso continuo. Come le lacrime calde che scesero dagli occhi di Loredana, mentre si strinse forte a te, bagnandoti il petto, pregandoti di fare qualcosa per salvare il vostro rapporto. E tu avevi una gran voglia di rispondere a quell’abbraccio, fermare il ritmo odioso di quei singhiozzi, stringerla a te, ma ti limitasti a posarle un braccio morbidamente intorno alle spalle, ignorando il groppo in gola. Perché non era giusto fare nulla per salvare le cose con Loredana, dopo il modo in cui ti aveva trattato. L’orgoglio prima di tutto, diceva sempre mamma. Anche prima dell’amore. Guidi cercando di non pensare, l’asfalto è reso invisibile dal serpente d’acqua che scende, onda dopo onda, in cerca di uno sfogo alla sua fame. I semafori esplodono ed è buio. Sono fottuto, pensi per un momento. La tua macchina enorme non fa di te un re, non ti rende più sicuro degli altri, adesso. Sei tale e quale a quella gente triste che hai visto combattere contro il lerciume coi tiracqua. Com’è che diceva il tizio della Protezione Civile? Meglio scendere dall’auto o sarà la tua bara. Tu e tua figlia potete ancora salvarvi, ma lei dorme il sonno dei giusti, e tu hai troppa fretta. E, in fondo, l’orgoglio prima di tutto – pensi, togliendo la chiave e aprendo lo sportello – sì, l’orgoglio prima di tutto – pensi, guadando il viale, con l’acqua ghiacciata che ti azzanna le ginocchia – anche prima dell’amore – pensi, mentre i chicchi di pioggia ti affossano come scariche di proiettili – così diceva sempre mamma. Quando ti arrampichi sul cancello di quella villa, non ti volti neanche indietro a guardare la macchina. Non la vedresti. È troppo buio, c’è troppa acqua, hai gli occhi fradici come ogni altra parte del corpo. E poi, l’auto non c’è più.  Poco prima del funerale ti hanno tutti stretto la mano, hai ricevuto pacche sulle spalle da tizi sconosciuti, fino a poco prima intenti a maneggiare il caos di fazzoletti imbevuti di lacrime e muco, e tu cerchi di smettere di pensare alla sensazione oleosa sulle dita, e a un vestito di quasi duemila euro mandato a puttane. Gambarotto ti ha abbracciato forte con la faccia abbattuta di chi prova empatia per un lutto, o forse per le proprie ambizioni appena gustate e subito infrante. Quando sei davanti al microfono, col Libro del Buon Dio davanti agli occhi, sono tutti lì per te, tesi in un unico grande silenzio di bocche chiuse e fiati tirati. Ci sono i volontari che hanno ripulito le strade, gli ultras, i giornalisti, gli amici, i nemici, la tua ex moglie e quel coglione di Vittorio. Non ti stupiresti se ci fosse anche Ravecca. Cercano di intuire il filo dei tuoi pensieri scrutando i tuoi occhi, intrisi di rosso come per stanchezza, o spavento, o incazzatura, o voglia di piangere. «Qualcuno di voi, intervistato alla tv dopo i giorni del disastro – dici, tirando fuori quanta più solennità puoi dal tuo corpo oppresso dalla fiacchezza – disse che io non sono come voi. Io non sono in grado di capire le vittime dell’alluvione, vista la bella vita che faccio, e vista la mia superficialità. Quel qualcuno, che forse è qui fra voi oggi, spero si rimangi il veleno di una tale affermazione. Io, cari cittadini, ho perso quanto voi, se non più di tutti voi. Mia figlia era la cosa più cara che avessi, e non riuscire a salvarla dall’auto che veniva inghiottita dai flutti è un trauma che mi porterò a vita, assieme al pentimento di non essere riuscito a salvare voi. In un’altra intervista, sentii dire una cosa verissima. Il fango è un mostro spietato e senza cuore. Butta giù tutto quello che ha davanti. Ed è vero. Il fango è un mostro perché non si ferma di fronte a nulla. Ma voglio che impariate da me! Non intendo essere distrutto da questa inverosimile tragedia! Voglio andare avanti, ripulire questa città, aiutarla a rialzarsi e a smettere di soffrire! Assieme a voi, se lo vorrete, fratelli nel dolore…». Vibri come un pene eretto mentre sei assordato dagli applausi. Visto? Sei il migliore, il più capace, il più intelligente. Quanto era saggia mamma. Era proprio vero: sono solo invidiosi, ma un giorno smetteranno di ridere tutti. Tu devi soffocare la tua, di risata, quando ti inchini per ringraziare.

 

 
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