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Post n°35 pubblicato il 27 Novembre 2014 da cutupedizioni

Presenza

di Gianantonio Nuvolone

Tutto finisce, anche l'inchiostro.
Ci sono cose - e uomini - che finiscono autonomamente, sole, e di loro non rimane che una sbiadita immagine nella memoria di alcune persone (al di qua della morte), nella persistenza di alcuni oggetti (al di qua della distruzione), poi ci sono cose - e uomini - che si spengono quasi simultaneamente, l'esaurimento dell'una è presagio e anticipazione della distruzione - e morte - dell'altra.
Non saprei dire quando fui portato qui, sicuramente molto tempo fa, dato che i peli del mio corpo sono cresciuti in modo animalesco (è cresciuta persino una biancastra lanugine sulle piante dei miei piedi, o forse l'ho sempre avuta e non ci avevo mai badato) ed ho già dovuto sfregare le unghie delle mani una dozzina di volte contro i muri della mia cella, perché erano eccessivamente cresciute, quasi ad artiglio, ed ogni volta che rinserravo la mano a pugno mi ferivo il palmo.
Ho notato poi da parecchie lune - questo "parecchie lune" mi fa sorridere, perché mi ricorda il linguaggio degli indiani o di altri popoli primitivi, antichi - che sto molto più attento ai rumori notturni ed ho mutato atteggiamento nei confronti dei versi dei gufi, delle civette e degli altri animali che giungono a me dalla vicina foresta, ed anche dello zampettare dei topi: prima mi mettevano un po' di paura, ora li sento più vicini, tant'è che stanotte ho allungato il mio braccio attraverso la finestrella che si apre nella porta della cella a livello del pavimento (serve al mio guardiano per passarmi il cibo due volte al giorno) e per poco - questione di un paio di centimetri - non acchiappavo un grosso ratto che correva lungo il corridoio... ah! se avessi avuto le unghie più lunghe!
Il guardiano nell'ultimo periodo mi portava sempre piatti di carne poco cotta, anzi il più delle volte decisamente cruda e sanguinolenta - ma era ottima e la mangiavo più volentieri - poi mi accorsi qualche giorno fa che aveva lasciato lo sportello della finestrella aperto e da allora non l'ho più rivisto.
Ora però è meglio raccontare cos'ero.
Mi ricordo, nella mia vita passata, che quando uscivo per procurarmi cibo (carne di vari animali, alcuni rarissimi, e verdura) nel cielo si distinguevano qua e là colonne di fumo nero e dalla strada arrivava di tanto in tanto il suono di ruote sul selciato; quando tornavo alla mia casa mi recavo in una specie di caverna sotterranea a prendere la legna per accendere il fuoco per poi passare la serata al caldo accanto alla mia donna coi capelli raccolti sulla testa con uno spillone d'osso, ed al mio bambino che giocava con un cavallino di legno.
Trascorrevo però la mattina e le prime ore successive al pasto, a scrivere su fogli con una biro - è per questo che quando vidi cadere dal taschino del mio guardiano quest'oggetto lo afferrai immediatamente poiché sapevo che uso farne - che poi impilavo sul tavolo.
Da quando mi risvegliai in questa cella, mi parve di riveder una sola volta mia moglie: una notte mi svegliai vittima di una forte febbre, un sudore freddo mi raggelava le guance, mi dibattevo sul pagliericcio in preda ad atroci spasmi allo stomaco, battevo i pugni contro il muro per la disperazione, come se volessi scaricare la mia sofferenza su quegli inerti mattoni, impregnarli del mio palpabile dolore - come accadeva analogamente in tempi remoti presso alcune tribù selvagge, lessi o vidi un giorno, dove lo stregone in rapimento estatico tentava di trasferire la sofferenza del malato ad un oggetto o un animale -, quando all'improvviso un mattone si staccò dalla compagine del muro e ricadde all'interno della cella accanto.
Mi parve per un istante di intravvedere una sagoma femminile nell'oscurità.
Tornato il sole e restituitami dal Caso un po' della mia salute, il nuovo inquilino mi rispose che la presenza che credei di scorgere era sparita durante la nottata.
Ero solito sbirciare attraverso la fessura nel muro quella sagoma ingobbita e la sua mandibola prominente: lo sorprendevo accovacciato in un angolo dello stanzino che raschiava, come invasato, con le unghie spezzate contro la parete, per raggiungere o afferrare cosa non saprei dire.
Da qualche giorno è sparito anche lui ed ora mi accompagna una parete ricoperta, per quanto intravvedo dalla fessura, di rozzi disegni di animali (cavalli, bufali, forse antilopi) delineati con un denso liquido rosso.
Adesso dalla cella confinante proviene un odore molto intenso, simile a quello della carne cruda, ma, questo è strano, non fastidioso: poco fa ho infilato attraverso il varco il mio braccio destro sino all'ascella per tentare di sfiorare il pavimento, ma invano, e ritrattolo mi sono accorto di un profondo taglio nella parte interna dell'avambraccio, vi ho impresso le labbra per succhiare il sangue ridestando con questo atto un flusso di reliquie del mio passato - di un tempo ancor giovine - che ha iniziato a scorrere in me: bambino sotto un sole estivo da una carnosa e fervente fetta di cocomero con le dita tolgo i semi, mi asciugo amare lacrime davanti al corpo morto del mio cagnolino, mio figlio sugge il latte dal seno di mamma.
Ho raccolto il sangue raggrumato ai bordi della ferita sulle mie dita, e ho tentato, ad imitazione degli appena notati petroglifi - che buffo qui usare un termine così ricercato, forse memoria di quando studiavo, forse - di illustrare questa mia storia, ma l'atro residuo è venuto a mancare prima che decidessi cosa disegnare, allo stesso modo dell'inchiostro di questa mia penna che si sta esaurendo.
Sono diventato ormai così ipersensibile agli odori, ai sapori ed ad un certo tipo di sensazioni, da anelare persino il morbido calore della terra, come quando mi sdraiavo in un prato a riposare, un desiderio mai provato prima così intensamente.
Non ho mai saputo, e non saprò mai, quanti uomini come me risiedevano in questa misteriosa prigione al mio arrivo, quanti poi siano morti e chi ne prese il posto durante il mio soggiorno e conservo solo un solo ricordo del mio ingresso qui: la prima visita del guardiano, la penna lasciata nella mia cella, lui che richiude la porta ed io che inizio a scrivere sulla parete, continuando la narrazione che qualcun altro prima di me aveva lasciato incompiuta.
I pochi segnali della presenza di altri compagni son sempre stati vaghi ed incomprensibili: battiti ritmici su tavolacci di legno, nenie che sembravano litanie, urla, talvolta ululati.
Non ho mai nemmeno saputo se qualcuno sia mai riuscito a fuggire da qui.
Ora dalla finestra vedo altissime e fosche colonne di fumo che vanno ad oscurare il cielo ed odo tremendi boati, come ciclopi che battono il suolo, che fanno persino vacillare le pareti attorno a me.
Solo una cosa so.
Tra poco arriveranno e distruggeranno tutto.
Ma loro non sanno che sono qui.

 

 

 

 

 
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