A un mese dalle manifestazioni guidate dai monaci e schiacciate dallo stivale di una giunta militare sempre più impopolare, la Birmania e le campagne “vestiamoci di rosso” sono praticamente sparite dal nostro circuito mediatico. Eppure a Yangon e nel resto del Paese le proteste di settembre e le pressioni internazionali sembrano aver innescato alcuni importanti cambiamenti di facciata. La giunta ha acconsentito a organizzare un incontro con la leader dell’opposizione e premio Nobel per la Pace, Daw Aung San Suu Kyi, ripreso dalle telecamere di tutto il mondo. Il governo birmano ha inoltre fatto scarcerare 70 dissidenti imprigionati durante gli scontri del mese scorso, compresi una cinquantina di membri del partito della stessa Suu Kyi.
Tuttavia, mentre l’ex premio Nobel e il rappresentante del governo tornavano a dialogare – la Suu Kyi ha lasciato i domiciliari per la prima volta dopo 4 anni (ed è stata reclusa per 12 degli ultimi 18 anni) - nell’ex capitale è tornata aria di repressione. L’esercito è stato dispiegato in strada e intorno ad alcune importanti pagode da cui quattro settimane fa era partita la protesta color zafferano dei monaci. È probabile che la giunta voglia prevenire simili manifestazioni e, nel contempo, mostrare aperture verso la Suu Kyi, gli attivisti democratici e i monaci. Anche se, nelle ultime ore, il sito Asia News ha pubblicato alcune foto di cadaveri di religiosi orribilmente massacrati dai soldati della giunta, “che proprio oggi diffonde alle telecamere di tutto il mondo il suo goffo tentativo di “riconciliarsi” con i monaci buddisti”.
Come se non bastasse, un rapporto appena pubblicato dall’organizzazione internazionale Human Rights Watch punta il dito contro l’esercito birmano, che continuerebbe ad attaccare, lontano dalle telecamere, i villaggi abitati dalle minoranze etniche del Paese al confine con la Thailandia. Secondo il rapporto, quasi 100mila sfollati si starebbero nascondendo dai soldati, mentre più di 400mila persone vivrebbero in aree controllare dai militari.
“Oltre ad attaccare i monaci e gli attivisti per la democrazia a Yangon, la giunta militare sta costringendo le minoranze etniche a fuggire dalle proprie case nelle zone di confine”, ha detto Brad Adams, di Human Rights Watch – Asia. Tra questi figurano molti membri dell’etnia Karen, da anni una delle più vessate dal regime, spesso accusato di pulizia etnica e repressione religiosa (i Karen sono in maggioranza cristiani. Su questo argomento leggi Le etnie birmane in lotta contro la Giunta). Nelle campagne, gli oligarchi di Yangon sembrano disposti a tutto fuorché al dialogo.
LEGGI ANCHE gli altri articoli sulla Birmania
GUARDA LE IMMAGINI della protesta dei monaci
GUARDA LE IMMAGINI delle manifestazioni di solidarietà nel mondo