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1 MILIONE DI MORTE NEGLI INCIDENTI STRADALI OGNI ANNO PEGGIO DI UNA GUERRA

Post n°821 pubblicato il 21 Maggio 2011 da dammiltuoaiuto
 

Incidenti stradali: dossier Oms, la strage sull'asfalto è ormai incontrollabile

L'allarme dell'organizzazione mondiale: "Ogni anno, 1,2 milioni di vittime". Pedoni, ciclisti, bimbi e anziani i più vulnerabili. La strada è la prima causa di morte tra gli under25. I Paesi del terzo mondo sono i più a rischio.
Fonte: Immagine dal web

Più di 3mila persone muoiono sulle strade del mondo, ogni giorno. Decine di milioni, ogni anno, restano feriti o disabili, a seguito degli incidenti stradali. Bambini, pedoni, ciclisti e anziani, sono tra i più vulnerabili. Numeri da epidemia: i sinistri stradali provocano 1,2 milioni di morti e 50 milioni di feriti annualmente. Lo dice l'ultimo rapporto dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che lancia un grido di allarme su una situazione ormai incontrollabile e che, soprattutto, lascia quasi indifferenti i governi di molti Paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo.

Un bilancio, quello dell'Oms, che potrebbe definirsi storico: è la prima volta che si riesce a mettere in piedi uno studio approfondito sul fenomeno degli incidenti, facendo un primo bilancio sulla sicurezza stradale in 178 paesi. Un monitoraggio, partito dai dati standardizzati nel 2008. Tra le cifre tragiche messe in primo piano, quella secondo cui la strada è la prima causa di morte nei giovanissimi di età compresa tra i 5 e i 29 anni. E oltre il 90 per cento dei decessi provocati da auto avviene nei Paesi in via di sviluppo, i cui governi sono concentrati su ben altri problemi. La maggior parte delle vittime era a piedi o su due ruote: gli 'anelli deboli' del sistema trasporto, come si evidenzia da tempo. Lo hanno dimostrato anche le tante inchieste della Comunità Europea. 

Non solo: "Gran parte di questi incidenti provocano una lesione permanente", ha sottolineato Etienne Krug, direttore del dipartimento della prevenzione della violenza e dei traumi dell'Oms. I governi devono impegnarsi e fare qualcosa. Ma cosa? "Abbiamo un piano d'azione e sappiamo quello che deve essere fatto per combattere gli incidenti stradali - spiega Krug riferendosi alle tante campagne pronte per essere proposte ai vari governi - ma bisognerà vedere se questi ultimi le prenderanno in considerazione e se, soprattutto, saranno disposti a destinare risorse alla crociata della riduzione degli incidenti stradali. Molto, infatti, c'è da fare". 

Sempre secondo l'organizzazione mondiale della sanità sarebbe "relativamente facile" ridurre il numero di vittime del 50 per cento nel prossimo decennio, in modo da salvare potenzialmente 5 milioni di vite umane: perché nei Paesi in via di sviluppo non si fa nulla per la sicurezza stradale. Dunque, in questi casi, basterebbe applicare tutte le strategie messe in campo dagli Usa e dalla Ue per avere risultati straordinari. L'Oms fa notare che ogni anno sono quasi 400mila i giovani sotto i 25 anni che perdono la vita in un incidente stradale: circa 1049 ragazzi ogni giorno. La maggior parte di queste tragedie, si fa presente, "si verificano a basso e medio reddito, in particolare tra pedoni, ciclisti, motociclisti e chi utilizza mezzi pubblici". 

Tanti i motivi che danno vita a questo autentico bollettino di guerra che spezza tante vite nel fiore degli anni. Prima di tutto, dice la relazione dell'Oms, "l'insufficiente considerazione delle esigenze specifiche di pedoni e ciclisti, quando le strade sono in corso di programmazione" o le "caratteristiche fisiche e di sviluppo che aumentano il rischio, per esempio, la bassa statura dei bambini piccoli". Ma anche i "comportamenti a rischio e una pressione reciproca in particolare tra gli adolescenti" e altri "fattori di rischio come l'eccesso di velocità, il bere mentre si sta guidando, il mancato uso del casco e delle cinture di sicurezza". 

L'Oms mette nero su bianco i vari fattori di rischio in questo ambito: si comincia con quelli che influenzano l'esposizione al rischio, economici e demografici, dalla miscela tra alta velocità del traffico motorizzato e la vulnerabilità degli utenti della strada, alle scelte di pianificazione territoriale. Poi ci sono i fattori che influenzano il coinvolgimento nello schianto: dall'eccesso di velocità all'assunzione di farmaci, alcol e droghe, all'affaticamento, fino alle condizioni della strada o ai difetti del veicolo. Ma anche il buio, e altri fattori ambientali che spesso rendono difficile la visibilità della strada. Infine ci sono fattori che hanno influenza sulla gravità degli incidenti: dalle cinture di sicurezza, che spesso non vengono allacciate, alla fuoriuscita di materiali pericolosi nell'impatto, dalla mancanza di barriere di protezione sulla strada alla presenza di oggetti sulla carreggiata. 

Tra le condizioni che possono aggravare le lesioni riportate negli incidenti, la mancanza di soccorsi tempestivi e adeguati e altre difficoltà che si possono incontrare nelle operazioni di salvataggio ed estrazione dei corpi dai veicoli incidentati. Insomma, gli elementi da valutare sono molteplici, e anche uno solo di questi può contribuire ad alimentare il bollettino di guerra che si registra sulle strade. E non è tutto. Le proiezioni, avverte l'organizzazione mondiale, "indicano che queste cifre aumenteranno di circa il 65 per cento nei prossimi 20 anni, a meno che non vi sia un nuovo impegno per la prevenzione degli incidenti. 

Nel progetto Oms, Global Burden of Disease (2002), si evidenzia che tra le cause di morte, in tutto il mondo, gli incidenti sono la prima in assoluto, con il 22, 8 per cento. I casi di suicidio raggiungono il 16,9 per cento dei casi, 10,8 per cento le morti a seguito di episodi di violenza. Ma ci sono anche altre voci, come l'annegamento (7,3 per cento), gli incendi (6,2 per cento) e la guerra (3,4 per cento). Cifre che fanno riflettere sul fatto che la poca sicurezza stradale sia il killer più spietato al mondo. Uno dei progetti più importanti delle Nazioni Unite, riguarda la realizzazione di manuali per la sicurezza stradale realizzati per i governi: da quello dedicato alla cintura di sicurezza a quello sull'uso del casco, da quello dedicato agli alcolici, naturalmente da non bere mentre si è alla guida, alla velocità. In quest'ultimo manuale si spiega che la velocità è stata identificata come un pesante fattore di rischio per gli incidenti stradali. 

In particolare viene evidenziato come i pedoni abbiano una probabilità del 90 per cento di sopravvivere, se colpiti da auto che viaggiano a una velocità di 30 chilometri all'ora o al di sotto, ma la probabilità è inferiore al 50 per cento se l'impatto è con un veicolo che viaggia a 45 chilometri all'ora o a una velocità superiore. Anche all'uso del casco è dedicata una guida, nata per il crescente numero di motociclisti morti dopo aver riportato ferite alla testa. Con il casco, la gravità delle ferite può essere limitata. Infine, per quanto riguarda le cinture di sicurezza, nel manuale dedicato si danno consigli soprattutto per proteggere i bambini. 

Incisivi anche i poster realizzati nel progetto di prevenzione delle morti in strada, che devono servire, si spiega, come "promemoria per le istituzioni politiche". Manifesti dalle immagini suggestive, con un piccolo supporto di testo, che racchiudono elementi chiave: come il poster che parla del 90 per cento di vittime, soprattutto pedoni, ciclisti e motociclisti, rappresentato da una serie di persone coperte da un lenzuolo, stese sulle strisce pedonali. E il manifesto che riguarda chi, a seguito di uno schianto, diventa disabile: 'portatori di handicap per la vita', si intitola, ed è rappresentato da una serie di parcheggi a spina di pesce, con su stampati uomini in carrozzella. O ancora, il poster che descrive i costi degli incidenti stradali. Immagini realistiche, che nascondono una tragedia mondiale.

LINK
- Il dossier Oms
- I Poster-manifesto degli incidenti

 
 
 

PEDOFILIA NELLE SETTE

Post n°820 pubblicato il 21 Maggio 2011 da dammiltuoaiuto
 

Pubblicazione: 21-01-2010, STAMPA, NAZIONALE, pag.24
 
Sezione:Cronache Italiane 
Autore:LISA ELENA 
INCHIESTA I bambini fantasma delle sette d'Italia Trascinati dai genitori o vittime di ''guru'' pedofili
ELENA LISA TORINO Al centro una «figura carismatica». Attorno una casta di «eletti». Piu' in basso, gli «adepti»: uomini, donne. E i loro figli, anche piccoli: «bambini fantasma» dei quali si sa pochissimo, vittime indifese di violenze psicologiche e fisiche in nome di una pseudo-religione o di «credo» mascherati. «In Italia succede sempre piu' spesso», e' la drammatica denuncia di Telefono Azzurro. Ma quanti sono i bambini coinvolti? Non esistono cifre ufficiali, ma e' ragionevole ipotizzare una stima di diverse centinaia, visto che il numero complessivo di «adepti» italiani, secondo le associazioni che riuniscono i parenti delle vittime, supera abbondantemente il milione. Una sola setta, la «Arkeon», controllava diecimila persone cui ha sottratto negli anni milioni di euro: contro i suoi undici leader e' in corso un processo a Bari in cui per la prima volta e' stata riconosciuta l'accusa di «associazione a delinquere». E tra i numerosi capi di imputazione, compare anche il «maltrattamento di minori». Dice Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro: «Non ci sono soltanto i bambini trascinati nella setta dai genitori o da qualche pedofilo travestito da guru. Ci sono anche quelli che nascono dentro la comunita'. Sono piu' fortunati degli altri: avendo avuto pochi contatti con il mondo esterno non devono sottoporsi a continui ''riti di purificazione''. Ma di loro si hanno poche, debolissime tracce. Spesso non sono neppure registrati all'anagrafe». Il quadro che emerge dai racconti dei seguaci in fuga e dalle denunce raccolte da polizia e carabinieri e' terribile. Figli piccolissimi «regalati» dai genitori al capo-setta o a tutta la comunita'. Confessioni «aperte» sulle pratiche sessuali, alle quali i bambini sono costretti ad assistere. Violenze quando vengono sorpresi a disubbidire - dove disubbidire significa anche solo parlare con la mamma - scariche elettriche, ustioni, droghe e psicofarmaci. Per «purificare lo spirito» e' proibito piangere: i piccoli che lo fanno sono chiusi in stanze buie, minacciati o costretti al digiuno, umiliati «pubblicamente, davanti ai coetanei, per imprigionarli nell'insicurezza e tenerli legati. «Riceviamo decine di segnalazioni ogni giorno - spiega Lorita Tinelli, presidente del Cesap, il Centro studi sugli abusi psicologici - e non e' un azzardo ritenere che le sette ''abusanti'' in Italia siano circa un migliaio. Censirle non e' facile: agiscono nell'ombra, e una volta scoperte si ricostituiscono in breve tempo sotto un altro nome». L'ultimo elenco «ufficiale» delle congregazioni in Italia e' vecchissimo, addirittura del 98. A produrlo il Dipartimento di Pubblica Sicurezza in un rapporto dal titolo «Sette religiose e nuovi movimenti magici in Italia» che calcolava 137 gruppi settari: 76 religiosi e 61 magici. Gia' allora le piu' diffuse erano le psicosette. «Gruppi ''motivaziona- li'' che agganciano i piu' giovani e promettono risultati sorprendenti a scuola, nello sport, con gli amici - spiega Maurizio Alessandrini, presidente della Favis, l'associazione dei familiari delle vittime -. Negli ultimi anni le psicosette si sono moltiplicate a dismisura entrando anche nelle scuole. Del resto, l'Italia e' tra i pochi Paesi in Europa dove non c'e' una legge ad hoc e nemmeno e' punito il reato di ''manipola- zione mentale per fini illeciti''». Di un fenomeno che dilaga si occupano associazioni laiche e religiose: «Riceviamo spesso chiamate da coniugi che si stanno separando - dice Don Aldo Buonaiuto, della comunita' Papa Giovanni XXIII -. Non riescono piu' a vedere i figli e sospettano che siano finiti in una qualche comunita' strana insieme all'altro genitore». Le forze di polizia, che hanno formato squadre antisette con psichiatri e psicologi, confermano l'allarme. «Ho incontrato molti ragazzini irretiti da figure carismatiche, trascinati nelle sette all'insaputa della famiglia - dice Giorgio Manzi, comandante del reparto analisi criminologiche dei Carabinieri -. I genitori devono vigilare, cogliere ogni sfumatura di cambiamento nei figli. Il rischio, se non lo si fa, e' perderli per sempre».

 

 
 
 

Islam e pedofilia

Post n°819 pubblicato il 15 Maggio 2011 da dammiltuoaiuto
 

Islam e pedofilia.

Nei paesi islamici ove vige la shari'a l'Unicef valuta in circa 60 milioni i casi di matrimonio tra uomini e bambine [27], pratica avallata dal Corano che nella sura 65 al-Talâq (il ripudio), versetto 4, fa esplicito riferimento alla possibilità per un uomo di divorziare dalla moglie "che non ha ancora il mestruo". D'altra parte lo stesso Maometto, di cui ogni azione o comportamento è considerato dai musulmani esemplare e da imitare, quando aveva cinquant'anni sposò 'A'isha che aveva 6 o 7 anni per consumare il matrimonio 3 anni dopo, come riportato nel Sahih di al-Bukhari, nel Sahih di Muslim e nel Sunan di Abu Da'ud, ben tre delle sei principali raccolte di hadith sunnite. Per denunciare questa situazione l'Unicef ha scelto come foto simbolo del 2007 uno scatto della fotografa americana Stephanie Sinclair che ritrae un afgano quarantenne accanto alla sposa undicenne[27]. Nell'aprile 2008, inoltre, ha avuto vasta eco il caso di una bambina yemenita di otto anni che si è rivolta ad un tribunale per chiedere il divorzio.

ISLAM E PEDOFILIA: il caso delle "Madrasse" denunciato dal settimanale Libération.

Notizia del 04/06/2007

VERSIONE STAMPABILE

Stupri, sevizie, pedofilia. Si contano a decine, solo negli ultimi mesi, i casi di maltrattamenti e violenze sessuali in Pakistan sui ragazzini che studiano nelle madrasse, le discusse scuole coraniche tornate nell'occhio del ciclone dopo gli attentati del 7 luglio 2005 a Londra. Eppure - come sottolinea il quotidiano della sinistra francese 'Libération' in un lungo reportage pubblicato il 24 agosto 2005 - solo raramente le famiglie decidono di denunciare i responsabili, mentre i mullah, protetti dall'omertà dilagante e da 'appoggi che contano nelle amministrazioni locali, godono ancora di un'impunità praticamente totale.


'Libération' si addentra nella complessa realtà dell'educazione religiosa in Pakistan, alla quale ricorrono soprattutto le fasce più povere della popolazione poiché i corsi sono gratuiti. Solo poche madrasse offrono lezioni di inglese, o insegnano a usare un computer. Nelle altre, e sono la stragrande maggioranza - osserva il quotidiano francese - si passano intere giornate a studiare a memoria il Corano, ma solo foneticamente, dal momento che gli allievi non parlano arabo.

E i maltrattamenti, almeno stando alle poche testimonianze che trapelano, sono all'ordine del giorno.

Come è successo ad Abid, 14 anni, pupillo, nel 2002, di un giovane insegnante in una madrassa di Karachi, nel sud del Pakistan. Il mullah ha cominciato a fargli avances sempre più insistenti. Quando Abid ha deciso di parlarne con i familiari e con il direttore della scuola coranica, l'insegnante gli ha versato addosso un'intera tanica di acido, sfigurandolo a vita. Il padre del ragazzo, un taxista, lo ha denunciato, ma finora non vi è stato alcun processo e la famiglia di Abid vive nel terrore, tempestata da minacce di morte.

Nei mesi scorsi anche a Lahore, nel Pakistan orientale, un caso di pedofilia è venuto a galla rompendo il muro della censura mediatica. La mamma di Talha, 6 anni, ha trovato il figlioletto svenuto, con i vestiti insanguinati, sul pavimento di una moschea dove il bimbo prendeva lezioni di Corano. Quel pomeriggio, l'insegnante aveva mandato a casa tutti gli altri allievi molto prima del solito. Poi aveva portato Talha nella sua stanza, aveva chiuso la porta a chiave e l'aveva violentato, minacciando di picchiarlo. Il padre del piccolo è riuscito a far arrestare il mullah. Ma da quel giorno deve far fronte a continui ricatti e intimidazioni: i leader religiosi non cessano di fare pressioni sulla sua famiglia perché ritiri la denuncia al mullah pedofilo.

Non sono solo gli atti di pedofilia a segnare le vite di molti allievi delle madrasse, spiega 'Libération'. In alcune scuole coraniche, i ragazzini vengono percossi e sottoposti a sevizie.
A Faisalabad, nel Pakistan centrale, un coraggioso 11enne ha raccontato dei maltrattamenti che i responsabili di una madrassa del posto infiggevano quotidianamente agli studenti, incatenandoli e picchiandoli come animali. Quando Atif ha osato ribellarsi, il suo maestro l'ha voluto punire in maniera esemplare. L'ha legato con dei fili elettrici e poi l'ha colpito ripetutamente con catene e spranghe di ferro, finché il ragazzino non si è accasciato al suolo perdendo i sensi. Trasportato d'urgenza all'ospedale, è sopravvissuto alle sevizie ma la stampa locale ritiene sia rimasto traumatizzato al punto da mettersi a piangere ogni volta che vede un medico con la barba. Malgrado i recenti episodi di pedofilia riportati dai media pakistani, sono ancora in pochi, ricorda 'Libération', a uscire allo scoperto parlando apertamente di ciò che accade nelle madrasse.

Fra le comunità più povere, d'altronde, regna la convinzione che far studiare i propri figli nelle scuole coraniche significhi garantire il paradiso a tutta la famiglia. Senza contare il fatto che in Pakistan le figure religiose detengono il potere assoluto, come ha spiegato a 'Libération' un giornalista del quotidiano di Islamabad 'The Nation', che ha preferito mantenere l'anonimato.

Si sa che ci sono dei mullah pedofili, ma nessuno ne vuole parlare. Nel nostro Paese si è imposta una cultura dell'impunità. Raramente un esponente religioso viene condannato da un tribunale, e la stampa, soggetta a continue pressioni da parte degli stessi ambienti religiosi, ha quasi sempre le mani legate. Se qualcuno a Islamabad, poi, decide di alzare la voce, viene subito messo in un angolo, osserva 'Libáration'.

Come Amir Liaquat Hussein, vice ministro pakistano per gli Affari Religiosi e conduttore di 'Alim On-Linè, un popolare programma televisivo dedicato all'Islam. Nel dicembre dell'anno scorso, in occasione di una conferenza sull'Aids, Hussein aveva sfidato gli ambienti islamici più oltranzisti dichiarando che i mullah - indicati dal governo come i soggetti più idonei a condurre una campagna di prevenzione contro il virus dell'Hiv - non sono tagliati per questo ruolo perché abusano regolarmente dei loro allievi. Il vice ministro pose l'accento sulle 400 denunce di pedofilia a carico dei mullah archiviate nel 2004 dalla polizia pakistana.

Sono stato il primo in assoluto ad affrontare la questione - ha spiegato con orgoglio a 'Libáration' -. E' un problema che esiste in ogni religione, ma qui da noi lo si maschera. Voglio dire la verità ai pakistani e alla comunità internazionale.

E' una questione di etica. Questi abusi - ha aggiunto Hussein - non avvengono certo in tutte le madrasse pakistane, ma forniscono comunque un quadro negativo dell'Islam. Da quando ha deciso di parlare, il vice ministro è sotto assedio. Per placare le ire dei religiosi, ha dovuto scusarsi pubblicamente per aver offeso l'onore dei mullah. E' inoltre stato bersaglio di una dura campagna dei media, che hanno messo in dubbio la validità dei suoi diplomi e quindi della sua funzione di deputato. Hussein assicura che il presidente Pervez Musharraf e il premier Shaukat Aziz sono dalla sua parte, ma non possono appoggiarlo apertamente: Vorrei cambiare le cose, ma ho bisogno del sostegno degli Usa perché politicamente si tratta di una questione molto delicata. Ho ricevuto minacce di morte: insomma mi batto contro estremisti molto potenti.

Per il mullah Gulam Rassoul, invece, uno dei capi della madrassa Binoria di Karachi, Hussein non è che un pagliaccio. Non ci sono maltrattamenti da noi. Forse altrove, ma non da noi, ha affermato deciso replicando all'intervista rilasciata dal vice ministro per gli Affari Religiosi.
E mentre il 'dossier pedofilià è ripiombato nell'indifferenza generale, a Islamabad continua il braccio di ferro tra Musharraf e gli ambienti islamici radicali sulla riforma delle scuole coraniche. Dopo le stragi di Londra (tre dei quattro attentatori suicidi avevano frequentato istituti religiosi del Paese islamico), il leader pakistano ha adottato il 'pugno durò contro gli istituti 'abusivi, quelli cioè che non hanno ancora provveduto a registrarsi presso gli organismi preposti, intimandoli a ufficializzare la loro posizione entro la fine di dicembre per evitare la chiusura. Musharraf ha anche ordinato l'espulsione di tutti gli studenti stranieri dalle madrasse. Ma secondo 'Libáration' è come sbattere contro un muro, visto che molti istituti ricevono finanziamenti propri e non dipendono, per sopravvivere, dai sussidi di Islamabad. Attualmente in Pakistan si contano circa 20 mila scuole coraniche (contro le appena 137 che esistevano ai tempi della spartizione tra India e Pakistan, nel 1947). Esistono due tipologie di madrassa: quelle 'ufficiali, regolarmente registrate presso il 'Wifaqul-Madaris', il Comitato Centrale delle Madrasse, che ne coordina e dirige le attività; e quelle 'indipendentì, almeno 10 mila stando alle ultime stime, concentrate nell'area di confine con l'Afghanistan e svincolate da qualsiasi controllo (sono quelle che preoccupano maggiormente il governo per via dei legami con l'integralismo islamico e settario). Si calcola che oggi almeno un milione di studenti studi nelle madrasse in Pakistan, contro gli 1,9 milioni di iscritti nelle scuole statali.
 

 

 

 
 
 

CLERO E PEDOFILIA

Post n°818 pubblicato il 15 Maggio 2011 da dammiltuoaiuto
 

Clero e pedofilia. Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me…

Di Giorgio Nadali  www.giorgionadali.it
 
 
Chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da mulino e fosse gettato in fondo al mare. Mt 18:6. 

L'antipapa Giovanni XXIII (1410 – 1415) giudicato pedofilo dal Concilio di Costanza del 1415. Sospetti di pedofilia anche per papa Giulio II (1503 – 1513) che tenne in ostaggio il figlio di 10 anni di Francesco Gonzaga e diede al bambino una rendita mensile di 100 ducati d'oro. Papa Giulio III (1550- 1555) "dedito all'amore per i bambini" nella biografia delle Vite dei pontefici del Platina. In tempi recenti il Cardinale Bernard Law di Boston (USA) fu accusato di coprire per anni due sacerdoti poi condannati per pedofilia, John Geoghan e Paul Shanley. Nel 2002 sono stati 55 i casi di rimozione negli USA di preti pedofili tra cui il vescovo di Palm Beach (USA) Anthony J. O'Connell dimessosi nel 2002.  Attualmente i vescovi gay (tutti della Chiesa Episcopale) sono: Mervyn Castle (Sud Africa), Arthur Mervyn Stockwood (Inghilterra), Derek Rawcliffe (Scozia), David Hope (Inghilterra), Terry Brown (Isole Salomone). Nella Chiesa cattolica sono stati sospesi per sospetta omosessualità i vescovi  Hans Hermann Groer, Rembert Weakland, Juan Carlos Maccarone, Francisco Domingo Barbosa da Silveira,  Thomas Gumbleton (sostenitore di ordinazioni di gay). Vescovi gay vengono ordinati nella Chiesa luterana di Svezia, Chiesa evangelica di Germania,  Chiesa di Norvegia, Chiesa nazionale danese. La prima e unica donna lesbica vescovo è Eva Brunne, della Diocesi (luterana) di Stoccolma (Svezia).

"Anson Shupe, sociologo dell'Indiana-Purdue University, e dai suoi collaboratori. Shupe, un noto esperto di nuovi movimenti religiosi, sostiene da anni che la "criminalità in colletti bianchi" è oggi affiancata, per una serie complessa di ragioni, da una "criminalità clericale", diffusa presso ministri di tutte le confessioni che comprende anche — se non soprattutto — reati economici e finanziari (3). In tema di abusi sessuali Shupe sostiene — ancora in uno studio inedito presentato al convegno di San Francisco — che questi sono più diffusi fra il clero cattolico che altrove, anche se le cifre correnti sono certamente esagerate. Il sociologo dell'Indiana peraltro non è convinto che il celibato o la tolleranza dell'omosessualità spieghino il fenomeno: infatti alcune denominazioni al cui clero non viene richiesto il celibato — episcopaliani, avventisti — o che attaccano in modo militante le campagne per i diritti degli omosessuali — mormoni — avrebbero percentuali di rischio simili alla Chiesa cattolica. Il problema, ritiene Shupe, è che la Chiesa cattolica — come la Chiesa mormone o quella episcopaliana — è una struttura piramidale, gerarchica, con un sistema che tende naturalmente, a prescindere dalle buone intenzioni individuali, a proteggere una figura religiosa quando è attaccata dall'esterno. Questa dinamica, se ha portato in altri settori vantaggi alle Chiese organizzate in modo più gerarchico, avrebbe anche permesso ai pedofili di sentirsi in qualche modo protetti e tutelati. Shupe pensa che i casi di pedofilia clericale cattolica nell'ultimo trentennio negli Stati Uniti d'America e in Canada siano un paio di migliaia, e coinvolgano intorno all'uno per cento dei sacerdoti e dei religiosi. Ma ammette che le statistiche sono difficili perché, a partire da poche centinaia di condanne, occorre estrapolare e speculare sulla base di sondaggi su quanti casi non sono denunciati — oggi, certo, meno di ieri — per malintesa lealtà verso la Chiesa, per vergogna o per timore di conseguenze negative". (M. Introvigne, Cristianità n. 282, 1998).

Pedofilo perchè malato.  Non perchè prete. La maggiornaza dei pedofili sono uomini sposati. 

Nel settembre del 2009 l'arcivescovo Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all'ONU di Ginevra, in una dichiarazione emessa in una riunione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra, in relazione ai crimini sessuali sui minori, ha dichiarato che nel clero cattolico solo tra l'1,5% e il 5% dei religiosi ha commesso atti di questo tipo. È uscito un libro dal titolo Atti impuri nell'anno 2009 che riporta cifre aggiornate sulla pedofilia nella Chiesa americana. Tra il 1950 e il 2004 si sono registrati undicimila casi documentati di abusi sessuali su minori i cui autori sono preti. Mediamente i preti diocesani implicati negli abusi sono il 4,3 per cento. Alcun anni hanno prodotto percentuali molto alte di preti pedofili. Nel 1963, 1966, 1970, 1970 e nel 1974 si è arrivati all'otto per cento di predatori diocesani, fino al nove per cento del 1975. Nel libro si fanno anche delle estrapolazioni su quelli che possono essere i limiti del fenomeno pedofilia (abusi su minori) nella Chiesa e si stima che i casi sono stimabili in quaranta-sessantamila che farebbero salire il tasso dei preti abusanti a percentuali altissime.

Islam e pedofilia.

Nei paesi islamici ove vige la shari'a l'Unicef valuta in circa 60 milioni i casi di matrimonio tra uomini e bambine [27], pratica avallata dal Corano che nella sura 65 al-Talâq (il ripudio), versetto 4, fa esplicito riferimento alla possibilità per un uomo di divorziare dalla moglie "che non ha ancora il mestruo". D'altra parte lo stesso Maometto, di cui ogni azione o comportamento è considerato dai musulmani esemplare e da imitare, quando aveva cinquant'anni sposò 'A'isha che aveva 6 o 7 anni per consumare il matrimonio 3 anni dopo, come riportato nel Sahih di al-Bukhari, nel Sahih di Muslim e nel Sunan di Abu Da'ud, ben tre delle sei principali raccolte di hadith sunnite. Per denunciare questa situazione l'Unicef ha scelto come foto simbolo del 2007 uno scatto della fotografa americana Stephanie Sinclair che ritrae un afgano quarantenne accanto alla sposa undicenne[27]. Nell'aprile 2008, inoltre, ha avuto vasta eco il caso di una bambina yemenita di otto anni che si è rivolta ad un tribunale per chiedere il divorzio.

Ieri Benedetto XVI si è rivolto direttamente alle vittime nella sua lettera pastorale ai cattolici dell'Irlanda (dove il fenomeno pedofilia nel clero è particolarmente forte): " Quelli di voi che avete subito abusi nei convitti dovete aver percepito che non vi era modo di fuggire dalle vostre sofferenze. È comprensibile che voi troviate difficile perdonare o essere riconciliati con la Chiesa. A suo nome esprimo apertamente la vergogna e il rimorso che tutti proviamo. Allo stesso tempo vi chiedo di non perdere la speranza. È nella comunione della Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo, egli stesso vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite del suo ingiusto patire. Egli comprende la profondità della vostra pena e il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri, compresi i vostri rapporti con la Chiesa. So che alcuni di voi trovano difficile anche entrare in una chiesa dopo quanto è avvenuto. Tuttavia, le stesse ferite di Cristo, trasformate dalle sue sofferenze redentrici, sono gli strumenti grazie ai quali il potere del male è infranto e noi rinasciamo alla vita e alla speranza. Credo fermamente nel potere risanatore del suo amore sacrificale – anche nelle situazioni più buie e senza speranza – che porta la liberazione e la promessa di un nuovo inizio".

Giorgio Nadali

 

 
 
 

OSAMA E' MORTO DI MALATTIA ED OBAMA LO SAPEVA .......

Post n°817 pubblicato il 06 Maggio 2011 da dammiltuoaiuto
 
Tag: obama, osama, usa

La fine di osama bin laden

«Osama bin Laden è morto di malattia»

Il compound di Abbottabad
Islamabad - «Osama Bin Laden è morto di malattia qualche giorno prima del presunto raid americano ad Abbottabad». Così riferisce all’ANSA il giornalista palestinese, Jamal Ismail, esperto della vita del capo di Al Qaida, precisando che la fonte delle sue informazioni è il medico che aveva in cura lo “Sceicco del terrore”.

«Le autorità pachistane - aggiunge - hanno quindi avvertito gli americani, i quali hanno organizzato tutta quella messinscena solo per non farsi accusare dai media di tutto il mondo di non essere stati in grado di prenderlo prima».

Ismail, che vive in Pakistan da una ventina d’anni, conosce bene Bin Laden. «L’ho intervistato quattro volte ma ho parlato con lui in moltissime altre occasioni», racconta, seduto nell’ ufficio pieno di libri nella sua casa di Islamabad. E smonta, pezzo per pezzo, tutta la versione dell’uccisione di Osama fornita dagli Stati Uniti: «Dicono di averlo ucciso perché ha opposto resistenza, ma anche che era disarmato. Io - spiega - non l’ho mai visto senza la sua arma a fianco, una sorta di kalashnikov, più moderno, piccolo e maneggevole. Lo metteva vicino al letto quando dormiva e lo portava con sé quando andava in bagno».

«Dicono - prosegue - che l’operazione è durata 40 minuti. Credete davvero che Bin Laden abbia atteso immobile per tutto quel tempo che gli americani entrassero a prenderlo?». Il leader di Al Qaida, secondo Ismail, non viveva ad Abbottabad, «una città piena di militari». E allora, dove sarebbe morto? «Non a casa mia», risponde ridendo.

A non convincerlo inoltre è lo stesso compound di Abbottabad: «L’uomo più ricercato del mondo non avrebbe mai vissuto in una casa senza vie di fuga, con solo due portoni principali e mura di cinta alte 6 metri».

Poi ancora: «Nessuno ha visto le foto, nessuno ha visto né parlato direttamente con la figlia di 12 anni che avrebbe detto che Osama era ancora vivo». E così via. Fino ad accusare il governo pachistano che, dice, «dovrà dare molte risposte alla nazione».

La prima volta che Ismail intervistò Bin Laden fu a Peshawar nel 1984, Osama aveva 27 anni: «Era un tipo tranquillo - ricorda -. Non partecipava alle discussioni con gli altri arabi sull’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Lui, più che parlare, ascoltava».

L’ultimo incontro fu nel 2000 a Kandahar. All’indomani dell’11 settembre 2001 Ismail avrebbe dovuto intervistarlo ancora una volta, «in un luogo segreto dell’ Afghanistan, dove mi avrebbero portato bendato». Ma «sfortunatamente», dice Ismail, l’incontro saltò perché gli americani arrivarono a Kabul. «Fu lui stesso - racconta ancora il giornalista - a telefonarmi per dirmi di lasciare il Paese, altrimenti mi avrebbero preso per uno di Al Qaida. Da allora, non l’ho più sentito».

 
 
 

MA OBAMA E' MORTO VERAMTE ?

Post n°816 pubblicato il 06 Maggio 2011 da dammiltuoaiuto
 
Tag: obama, osama

Alcune domande sull'operazione contro Osama bin Laden(5 maggio 2011)

Soldati pakistani © AP GraphicsBank
Soldati pakistani © AP GraphicsBank

Amnesty International ha chiesto alle autorità statunitensi e pakistane di fare chiarezza su alcuni  aspetti dell'operazione di Abbottabad nella quale Osama bin Laden è stato ucciso.

In particolare, l'organizzazione per i diritti umani ha chiesto informazioni sullo status e sul luogo in cui si trovano coloro che erano con bin Laden e sulle circostanze della sua uccisione.

"Vogliamo informazioni dalle autorità statunitensi e pakistane su quante persone erano nel complesso al momento dell'operazione, cosa è accaduto loro e nello specifico qual è lo status dei sopravvissuti e dove si trovano" - ha dichiarato Claudio Cordone di Amnesty International. 

Secondo i resoconti attribuiti a funzionari dell'intelligence pakistana, 18 persone erano nel complesso con bin Laden al momento dell'attacco statunitense.

Funzionari degli Usa hanno riferito che cinque persone sono state uccise e due donne ferite - una delle quali è stata identificata come moglie di bin Laden - e che al termine dell'operazione queste sono state lasciate nel complesso insieme ad almeno sei bambini.

Il 3 maggio, il direttore della Cia Leon Panetta ha detto che le forze statunitensi avevano la piena autorizzazione di uccidere Osama bin Laden ma che, se si fosse arreso, avrebbero potuto catturarlo.

La Casa Bianca ha riferito che Osama bin Laden era disarmato ma ha opposto resistenza alla cattura.

"Visto che non era armato, non è chiaro come abbia opposto resistenza all'arresto e se sia stato fatto un tentativo di catturarlo piuttosto che ucciderlo" - ha dichiarato Cordone.

"Secondo Amnesty International, le forze statunitensi avrebbero dovuto tentare di prendere Osama bin Laden vivo, al fine di condurlo dinanzi a un tribunale, se era disarmato e se non rappresentava una minaccia immediata".

Osama bin Laden ha rivendicato la responsabilità di atti di terrorismo equivalenti a crimini contro l'umanità e ha ispirato altri a commetterne. I responsabili di questi atti devono essere portati dinanzi alla giustizia secondo modalità in linea col diritto internazionale.

 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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