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Messaggi del 26/03/2008
DON GELMINI CRONACA DI UN EX I guai, Don Gelmini se li è creati da solo all'interno della Chiesa stessa venendo meno alla prima regola sacerdotale e cioè obbedienza al Suo Vescovo perchè egli stesso non obbediva più perchè si era "autoproclamato" non vescovo nè cardinale ma papa e, quindi,obbediva a se stesso. Questo suo essere, lo esternava pubblicamente portando in bella mostra quei simboli sacri che contradistinguono gli alti prelati.In parole povere,gli è venuta a mancare l'Umiltà. |
"Noi ex musulmani viviamo nel terrore" Francesco De Remigis Milano - «Il mio nome è Hamid Laabidi. Il giorno che mi sono battezzato è il 25 aprile 1997». Comincia così il racconto di un uomo di origine marocchina che ha compiuto un percorso di fede per il quale tanti musulmani, anche in Italia, rischiano la persecuzione. Al Giornale Hamid, mediatore culturale di 42 anni, racconta com’è avvenuta la sua conversione al cristianesimo, tra le perplessità di alcuni correligionari e la diffidenza di chi vede un musulmano entrare in chiesa per la prima volta. In provincia di Vercelli da quasi vent’anni, oggi vive a Borgosesia. Ricorda la difficoltà di un percorso di conversione maturato «dopo sei anni di ricerca spirituale portata avanti senza tagliare i ponti con gli altri musulmani». «Parlando con loro – racconta – avvertivo un pregiudizio, poi sono arrivate minacce concrete se fossi diventato cristiano e sono stato frenato. Col tempo, però, ho capito che se noi ci sentiamo deboli e abbiamo paura di convertirci, i fanatici dell’islam si sentono forti e pensano di poterti spaventare». «Inizialmente ci hanno provato – spiega Hamid –. Ricordo gesti e parole violente nei miei confronti. Devo ringraziare la comunità cristiana che mi è stata vicina e la cittadinanza che ha rispettato il mio nuovo percorso. Gli altri musulmani, invece, sono stati messi di fronte al fatto compiuto. Si sono ritrovati un mediatore culturale cristiano. Se un immigrato musulmano aveva bisogno di me non poteva fare a mano di parlarmi. Così le cose si sono quasi normalizzate». Ma nel frattempo il fanatismo di chi non accetta la libertà di culto è cresciuto nelle comunità islamiche italiane, spiega Hamid, soprattutto con l’ingresso di immigrati che lo hanno importato dai Paesi di origine, «dov’è inconcepibile che un fratello possa abbandonare l’islam». Secondo Hamid è ancora troppa l’ignoranza che i governi di certi Stati arabi trasmettono ai cittadini, che mantengono il loro pregiudizio anche dopo l’arrivo in Italia. «Sembra più difficile scegliere liberamente il proprio credo qui che non a Rabat – conclude – dove ogni tanto faccio ritorno ed entro tranquillamente in chiesa». In Italia ci sono infatti centinaia di convertiti che vivono in segreto la nuova condizione, almeno inizialmente. Alcuni sono riusciti a superare la paura grazie al sostegno di cittadini italiani. Altri stanno chiedendo consiglio ad amici immigrati che vivono in Italia da più tempo. È il caso di Ahmed Mohamed, padovano di origine egiziana che al Giornale confida le difficoltà di un musulmano che vorrebbe convertirsi. Lui, per esempio, lo ha fatto soltanto a metà. Non ha ricevuto il battesimo perché non si sente tutelato: «Lo Stato pensa che nelle comunità islamiche siamo tutti fratelli, mentre lo scorso anno hanno dato fuoco alla mia auto per intimorirmi. La diffidenza è molto forte – spiega – perché assumendo un nome cristiano si capisce che hai lasciato l’islam». Ahmed ha però superato le perplessità dei familiari e le ire di alcuni correligionari, assicurando almeno al suo primogenito il battesimo. «Per i miei genitori è stato quasi un disonore quando mi sono presentato con un crocefisso addosso, mentre a Padova, dove la situazione è sempre più tesa, non posso certo ostentarlo». La libertà religiosa è ancora tabù nelle comunità islamiche. Per questo è stata richiesta massima riservatezza da altri venti musulmani che hanno trovato il coraggio di ricevere il battesimo in Italia proprio in questi giorni. Sono diventati cristiani nelle festività pasquali, ma in segreto. |
"Noi ex musulmani viviamo nel terrore" Francesco De Remigis Milano - «Il mio nome è Hamid Laabidi. Il giorno che mi sono battezzato è il 25 aprile 1997». Comincia così il racconto di un uomo di origine marocchina che ha compiuto un percorso di fede per il quale tanti musulmani, anche in Italia, rischiano la persecuzione. Al Giornale Hamid, mediatore culturale di 42 anni, racconta com’è avvenuta la sua conversione al cristianesimo, tra le perplessità di alcuni correligionari e la diffidenza di chi vede un musulmano entrare in chiesa per la prima volta. In provincia di Vercelli da quasi vent’anni, oggi vive a Borgosesia. Ricorda la difficoltà di un percorso di conversione maturato «dopo sei anni di ricerca spirituale portata avanti senza tagliare i ponti con gli altri musulmani». «Parlando con loro – racconta – avvertivo un pregiudizio, poi sono arrivate minacce concrete se fossi diventato cristiano e sono stato frenato. Col tempo, però, ho capito che se noi ci sentiamo deboli e abbiamo paura di convertirci, i fanatici dell’islam si sentono forti e pensano di poterti spaventare». «Inizialmente ci hanno provato – spiega Hamid –. Ricordo gesti e parole violente nei miei confronti. Devo ringraziare la comunità cristiana che mi è stata vicina e la cittadinanza che ha rispettato il mio nuovo percorso. Gli altri musulmani, invece, sono stati messi di fronte al fatto compiuto. Si sono ritrovati un mediatore culturale cristiano. Se un immigrato musulmano aveva bisogno di me non poteva fare a mano di parlarmi. Così le cose si sono quasi normalizzate». Ma nel frattempo il fanatismo di chi non accetta la libertà di culto è cresciuto nelle comunità islamiche italiane, spiega Hamid, soprattutto con l’ingresso di immigrati che lo hanno importato dai Paesi di origine, «dov’è inconcepibile che un fratello possa abbandonare l’islam». Secondo Hamid è ancora troppa l’ignoranza che i governi di certi Stati arabi trasmettono ai cittadini, che mantengono il loro pregiudizio anche dopo l’arrivo in Italia. «Sembra più difficile scegliere liberamente il proprio credo qui che non a Rabat – conclude – dove ogni tanto faccio ritorno ed entro tranquillamente in chiesa». In Italia ci sono infatti centinaia di convertiti che vivono in segreto la nuova condizione, almeno inizialmente. Alcuni sono riusciti a superare la paura grazie al sostegno di cittadini italiani. Altri stanno chiedendo consiglio ad amici immigrati che vivono in Italia da più tempo. È il caso di Ahmed Mohamed, padovano di origine egiziana che al Giornale confida le difficoltà di un musulmano che vorrebbe convertirsi. Lui, per esempio, lo ha fatto soltanto a metà. Non ha ricevuto il battesimo perché non si sente tutelato: «Lo Stato pensa che nelle comunità islamiche siamo tutti fratelli, mentre lo scorso anno hanno dato fuoco alla mia auto per intimorirmi. La diffidenza è molto forte – spiega – perché assumendo un nome cristiano si capisce che hai lasciato l’islam». Ahmed ha però superato le perplessità dei familiari e le ire di alcuni correligionari, assicurando almeno al suo primogenito il battesimo. «Per i miei genitori è stato quasi un disonore quando mi sono presentato con un crocefisso addosso, mentre a Padova, dove la situazione è sempre più tesa, non posso certo ostentarlo». La libertà religiosa è ancora tabù nelle comunità islamiche. Per questo è stata richiesta massima riservatezza da altri venti musulmani che hanno trovato il coraggio di ricevere il battesimo in Italia proprio in questi giorni. Sono diventati cristiani nelle festività pasquali, ma in segreto. |
La censura di Pechino colpisce Internet non solo con l’oscuramento dei siti scomodi ma anche con attacchi mirati di hacker. Le ultime vittime della "cyberguerra" cinese sono le Ong considerate ostili, riporta il sito della Bbc. A denunciare attacchi, oltre ad associazioni che sostengono il Tibet, ora anche l’organizzazione Save Darfur Coalition, che spesso accusa Pechino per il suo ruolo in questa tragedia umanitaria. In quest’ultimo caso, affermano i rappresentanti di Save Darfur, è stata allertata anche l’Fbi. Gli attacchi avvengono prevalentemente sotto forma di mail contenenti allegati che se aperti installano nei computer dei ’programmi spià, che consentono di sapere tutto ciò che avviene al loro interno. Dalle prime indagini è emerso che le mail partono da computer dislocati nella capitale cinese: "Qualcuno a Pechino ci sta mandando un messaggio - afferma Allyn Brooks, portavoce dell’organizzazione - anche se non abbiamo ancora prove concrete che gli attacchi siano stati organizzati dal governo". Lo stesso problema dell’ong pro Darfur viene riscontrato da qualche giorno anche dalle associazioni pro-Tibet. Secondo un rapporto dell’Internet Storm Center, un sito che censisce l’attività dei virus informatici, da quando sono iniziati i disordini in Tibet gli hacker hanno preso di mira i siti a favore dei monaci il triplo delle volte. |
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