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TUTTI I NUMERI DELA CASTA CHIESA

Post n°879 pubblicato il 12 Settembre 2011 da dammiltuoaiuto
 

Esenzioni, agevolazioni, finanziamenti. Tutti i numeri della “casta” Chiesa

lunedì, 5 settembre 2011

Luca Kocci

Adista Notizie n°62/2011

Al di là delle urla, delle aggressioni e delle dietrologie, cerchiamo di documentare, attenendoci a fatti, norme e numeri, i reali rapporti economici fra Stato e Chiesa in Italia, elencando contributi pubblici, esenzioni fiscali e privilegi economici di cui godono le strutture ecclesiastiche.

Otto per mille

Il capitolo più sostanzioso è rappresentato dall’8 per mille, la quota di imposte di cui lo Stato si priva e che, apparentemente in base alla volontà dei cittadini, indirizza alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose che hanno firmato un’Intesa. Da dieci anni a questa parte si tratta di circa 1 miliardo di euro l’anno. Nel 2011 la cifra ha raggiunto il record di 1.118 milioni, in gran parte utilizzata per il funzionamento della struttura ecclesiastica: 467 milioni per «esigenze di culto e pastorale», 361 milioni per il «sostentamento del clero», 235 milioni per «interventi caritativi», 55 milioni accantonati «a futura destinazione».

Il punto controverso è il sistema di ripartizione, perché a firmare per destinare allo Stato o ad una confessione religiosa l’otto per mille delle proprie tasse è appena il 44% dei contribuenti, e solo il 35% sceglie la Chiesa cattolica. Ma il meccanismo – messo a punto anche da Giulio Tremonti, ben prima di diventare ministro (v. Adista n. 53/11) – prevede che le quote non espresse (quelle cioè di coloro che non fanno nessuna scelta) non restino all’erario ma vengano ripartite fra lo Stato e le confessioni religiose, in proporzione alle firme ottenute.

In questo modo la Chiesa cattolica con il 35% dei consensi si accaparra l’85% dei soldi. «La Cei rinunci alla ripartizione delle quote non espresse in sede di dichiarazione di redditi», chiedono le Comunità di base italiane. «Questo gesto restituirebbe anche dignità a quei contribuenti che esercitano il sacrosanto diritto di non scegliere per non compromettersi in un sistema che sancisce il privilegio delle istituzioni religiose, imposto dal nuovo Concordato craxiano con la Santa Sede, ad essere finanziate dallo Stato».

A questa cifra, poi, andrebbe aggiunta anche un’altra voce: quella dell’otto per mille che i contribuenti hanno scelto di dare allo Stato ma che, uscendo dalla finestra, rientra nelle casse della Chiesa. Nel 2010 – ultimo dato comunicato dalla Presidenza del Consiglio – dei 144 milioni destinati dai cittadini allo Stato, oltre 53 sono stati assegnati dalla presidenza del Consiglio ad enti ecclesiastici (diocesi, chiese e parrocchie, comunità monastiche e religiose, confraternite, congregazioni ed ordini) come contributo per il restauro di immobili religiosi considerati «beni culturali», nonostante nella ripartizione dell’otto per mille alla Chiesa cattolica sia già presente la voce «tutela beni culturali ecclesiastici» a cui, sia nel 2010 che nel 2011, sono stati riservati 65 milioni.

Cappellani ospedalieri, carcerari e militari

I cappellani degli ospedali, delle carceri e dei militari svolgono un servizio di assistenza religiosa, ma sono pagati dallo Stato o dalle Regioni. Eppure, sostengono anche diversi gruppi cattolici, a cominciare da Pax Christi, all’assistenza spirituale di malati, detenuti e militari potrebbero provvedere, gratuitamente, le parrocchie nel cui territorio si trovano ospedali, prigioni e caserme.

I più numerosi sono quelli degli ospedali, circa 750 divisi in 700 cappellanie sanitarie. A retribuirli ci pensano le Regioni o le Asl, che stipulano apposite convenzioni con le Conferenze episcopali regionali in base al numero dei posti letto (in media c’è un cappellano ospedaliero ogni 300 ricoverati, ma il numero varia territorialmente). Il costo annuale si aggira intorno ai 50 milioni di euro.

Nelle carceri operano invece circa 240 cappellani, per una spesa da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia di 15 milioni di euro l’anno.

I cappellani miltari oggi in servizio sono 184, tutti inquadrati con i gradi, e gli stipendi, degli ufficiali. L’ordinario militare, cioè il vescovo a capo della diocesi castrense – attualmente è mons. Vincenzo Pelvi –, ha le stellette e la retribuzione di un generale di corpo d’armata. L’onere finanziario è di circa 10 milioni di euro l’anno (nel 2005, ultimo dato reso noto, costarono quasi 11 milioni di euro ed erano complessivamente 190).

Una cifra che non comprende le pensioni degli ex cappellani, piuttosto elevate trattandosi di ufficiali a tutti gli effetti: la più alta, quella dell’ordinario-generale di corpo di armata – come il card. Bagnasco, ordinario militare prima di essere nominato presidente della Cei, e come Giuseppe Mani (arcivescovo di Cagliari), Giovanni Marra (amministratore apostolico della diocesi di Orvieto-Todi) e Gaetano Bonicelli (arcivescovo emerito di Siena) – si avvicina a 4mila euro al mese.

Invano, nel 2007, il senatore dei Verdi Gianpaolo Silvestri, riprendendo la storica battaglia di Pax Christi, presentò un disegno di legge per la «smilitarizzazione» dei cappellani militari, scatenando l’immediata reazione di Avvenire, con un duro editoriale di Marco Tarquinio, allora vicedirettore del quotidiano della Cei: quella dei cappellani in divisa è una «irrinunciabile presenza» (v. Adista nn. 43 e 57/07).

Scuola, editoria ed oratori

Da molti anni, e in particolare da quando l’allora ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer istituì le «scuola paritarie», la scuola privata gestita dagli ordini e dalle congregazioni religiose viene finanziata dallo Stato. Nel 2011, la cosiddetta legge di stabilità di Tremonti, ha assegnato alle scuole private 245 milioni di euro, mentre la scuola statale si è vista togliere 8 miliardi in tre anni. Bisognerebbe poi aggiungere i vari finanziamenti delle Regioni, per lo più sotto forma di «buono scuola» alle famiglie che iscrivono i figli nelle scuole provate. Uno dei più sostanziosi è quello della Regione Lombardia del ciellino Roberto Formigoni, che lo scorso anno ammontava a quasi 45 milioni di euro (v. Adista n. 3/10)

All’editoria cattolica, invece, nel 2010 sono stati erogati contributi statali diretti per 15 milioni di euro, spettando la parte del leone ad Avvenire, il quotidiano della Cei, che ha incassato 5milioni e 871mila euro. Un altro quotidiano cattolico, Il Cittadino, controllato dalla diocesi di Lodi, ha goduto di un finanziamento pubblico di 2 milioni e 530mila euro. Ai settimanali diocesani – i periodici ufficiali delle diocesi italiane – sono andati quasi 4 milioni di euro. Il resto, poco meno di 3 milioni di euro, è finito alle riviste edite da congregazione religiose, santuari, associazioni, movimenti e gruppi ecclesiali di varia natura (anche Adista, in quanto agenzia indipendente edita da una cooperativa editoriale, usufruisce di un contributo pubblico, che nel 2010 è stato di 122.100 euro).

A godere di contributi pubblici sono anche molte parrocchie, oratori e scuole materne comunali. I finanziamenti vengono erogati dagli Enti locali, a tutti i livelli, quindi è impossibile riuscire a ricavare la somma complessiva. Solo per fare alcuni esempi: in Veneto, Regione, Provincia e Comune di Padova hanno elargito ad istituzioni ecclesiastiche e religiose 13 milioni di euro tra il 2009 e il 2010 (v. Adista n. 32/11); a Verona circa 1 milione (v. Adista n. 19/10).

Esenzioni: Ici, Ires, canone tv e acqua

Non pagano l’Ici gli immobili di proprietà ecclesiastica (ma anche di altri enti catalogati come «senza fini di lucro») destinati «allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive» purché «non abbiano esclusivamente natura commerciale». L’esenzione venne introdotta da Berlusconi e Tremonti nel 2005 e fu sostanzialmente confermata da Prodi e Bersani nel 2007 con l’aggiunta dell’avverbio «non esclusivamente» (v. Adista nn. 61, 69/05 e 81/07); sembrava che potesse scomparire con l’introduzione l’Imu, la nuova e “federalista” Imposta Unica Municipale voluta da Tremonti nel 2010, ma, in seguito alle vibranti proteste della Cei, l’esenzione venne subito ripristinata (v. Adista n. 81/10).

Le mancate entrate per i sindaci dovute all’esenzione Ici ammonterebbero ad una cifra fra i 400 e i 700 milioni di euro annui, come calcola l’Associazione nazionale dei Comuni italiani. La norma lascia spazio ad una «casistica di confine», ammette eufemisticamente Bersani – inventore del «non esclusivamente» –, per cui i Radicali, lo scorso 25 agosto, hanno annunciato la presentazione di un emendamento in grado di eliminare ogni ambiguità, salvando le Caritas ma facendo pagare l’Ici ai conventi trasformati in alberghi: «L’esercizio a qualsiasi titolo di un’attività commerciale, anche nel caso in cui abbia carattere accessorio rispetto alle finalità istituzionali dei soggetti e non sia rivolta ai fini di lucro – recita il testo –, comporta la decadenza immediata dal beneficio dell’esenzione dell’imposta».

Per gli enti ecclesiastici (e per altri enti assistenziali) c’è anche l’esenzione dal pagamento del 50% dell’Ires (imposta sui redditi delle persone giuridiche), con un risparmio fra i 500 e i 900 milioni di euro. Ed è dimezzato anche il canone Rai: gli apparecchi televisivi degli istituti religiosi (e delle associazioni) pagano 198 euro e 11 centesimi l’anno, mentre cliniche, uffici, negozi, alberghi, pensioni, affittacamere e campeggi a 1 o 2 stelle pagano 396 euro e 18 centesimi (gli alberghi a 5 stelle 6.600 euro).

Ci sono poi una serie di esenzioni “romane” che riguardano esclusivamente il Vaticano. Il pass per le zone a traffico limitato del centro storico alle automobili del Vaticano costa 55 euro l’anno, ai cittadini romani 550. Poi l’acqua: nel 1999 lo Stato Città del Vaticano aveva bollette arretrate nei confronti dell’Acea (la municipalizzata dell’acqua) per 44 miliardi di lire. Ne nacque un contenzioso, ma a saldare i conti fu il ministero dell’Economia, con la garanzia che il Vaticano avrebbe cominciato a pagare almeno il servizio di smaltimento delle acque di scarico (2 milioni di euro l’anno).

Il Vaticano però non pagò nemmeno quella parte del suo debito e così un emendamento alla legge finanziaria 2004 provvide allo stanziamento di «25 milioni di euro per l’anno 2004 e di 4 milioni di euro a decorrere dall’anno 2005» per dotare il Vaticano di un sistema di acque proprio (v. Adista n. 83/03 e 53/11). Infine sono ovviamente esenti da tasse tutti gli immobili e le attività commerciali e turistiche che hanno sede legale nei palazzi vaticani che godono del regime di extraterritorialità, e quindi appartengono formalmente ad uno Stato estero, anche se si trovano nel cuore di Roma.

«Il mio regno non è di questo mondo», diceva Gesù di Nazareth a Pilato che lo interrogava prima della condanna a morte. In Italia, la Chiesa cattolica, con tutti i contributi statali, esenzioni fiscali e privilegi economici di cui gode, non deve pensarla come il suo fondatore.

 
 
 

TRAFFICI DI URANIO IN ITALIA GLI USA CONTRO L'ITALIA

Post n°878 pubblicato il 12 Settembre 2011 da dammiltuoaiuto
 

 

Traffici di uranio. Gli Usa contro le politiche italiane

 

http://www.terranews.it/news/2011/09/traffici-di-uranio-gli-usa-contro-le-politiche-italiane

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Alessandro De Pascale

WIKILEAKS. Per ben sei anni gli Stati Uniti hanno chiesto all’Italia di dotare i nostri porti di scanner per misurare la radioattività, preoccupati dall’attività delle ecomafie. Lo rivelano tre cable.

L'Italia al centro del contrabbando di rifiuti radioattivi. I traffici della nostra criminalità organizzata sono ritenuti una possibile minaccia dagli Stati Uniti. Lo rivelano numerosi cable «riservati», diffusi da Wikileaks, dai quali emerge il pressing di Washington per convincere il governo italiano a dotare i nostri porti di speciali scanner che possano controllare tutti i container in transito e rilevare eventuali radiazioni. Si tratta del cosiddetto progetto Megaports, lanciato dal Dipartimento dell’energia a stelle e strisce, per prevenire il traffico di materiale nucleare ed eventuali attacchi terroristici. Nella lista dei Paesi a rischio stilata da Washington è finita da tempo anche l’Italia che, per evitare gli scanner, ha schierato un vero e proprio «arsenale burocratico», con i ministeri e i vari enti pubblici che avrebbero messo «i bastoni tra le ruote», tramite il solito «scaricabarile».
 
Febbrili trattative tra Washington e Roma, raccontate in due cable del 2009 scritti da Elizabeth Dibble, allora potente funzionario dell’ambasciata Usa in Italia che ora gestisce i rapporti con l’Europa. La stessa che, in un altro cablogramma di quell’anno, giudica il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, «incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno». Per la Dibble «il traffico di materiale nucleare è una minaccia nuova, motivo per cui gli italiani la ritengono una misura eccessiva». A Washington chiede di «far capire al governo italiano, incontrando esponenti politici di destra, i benefici di questa tecnologia, dimostrandogli che se non la installeranno avranno problemi». Anche perché la legge statunitense stabilisce che «entro il 2012, il 100 per cento dei container diretti negli Usa debbano essere sottoposti a radioispezioni».
 
Il sistema Megaports è nato nel 2003 ed è già stato installato in 27 scali del mondo. L’amministrazione statunitense vuole arrivare a 100 entro il 2015. Consente di controllare tutte le merci in ingresso e in uscita dai porti. Sulla questione si è fatta sentire anche l’Unione europea, secondo cui gli Usa dovevano negoziare direttamente con Bruxelles prima di montare gli scanner nel Vecchio Continente e non ricorrere ad accordi bilaterali con i singoli Paesi. Così ha avviato una procedura di infrazione contro gli Stati Uniti. Washington però è andata lo stesso avanti continuando a chiedere invano al nostro Paese di installare questo sistema. In Italia «sono già falliti due precedenti tentativi nel 2004 e nel 2006, per i dubbi delle autorità, le troppe autorizzazioni necessarie e con la scusa che la sicurezza è di competenza dell’Unione europea».
 
Nella lista Megaports figurano i porti di Gioia Tauro, La Spezia, Livorno e Genova. Proprio in quest’ultimo scalo a gennaio è strato bloccato, perché risultato radioattivo, un tir diretto in Sardegna, altri due camion nel 2007. In tutti e quattro i porti già operano ufficiali della dogana americana in base alla Container Security Initiative (Csi), lanciata in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Ad essere controllati, secondo la funzionaria Usa con «evidenti lacune», sono tuttavia solo i container ritenuti a rischio, diretti negli Usa. Perché nel nostro Paese «non c’è certezza che i carichi vengano ispezionati».
 
C’è poi la criminalità organizzata. «Nostre fonti ci dicono che nel porto di Gioia Tauro», che con i suoi 3 milioni di container l’anno è tra i maggiori d’Europa, «hanno occhi ovunque, perché lo usano per i traffici di droga e armi, tanto che due agenti della dogana sono stati trasferiti per le minacce ricevute, forse erano troppo zelanti nei propri controlli: al primo gli hanno sparato, mentre il secondo ha ricevuto due proiettili a casa», si legge ancora nel cable. «Due importanti imprese hanno abbandonato Gioia Tauro - aggiunge il report riservato - per trasferirsi in uno scalo nel Nord del Paese. Il sospetto è che abbiano preso questa decisione per evitare di pagare il pizzo alla criminalità». Per la Dibble, i nostri doganieri e gli agenti delle forze dell’ordine sono «troppo vulnerabili alla corruzione, perché guadagano poco». Proprio per questo «teniamo molto al progetto e preferiamo mettere in moto la nostra diplomazia, piuttosto che attendere il lavoro delle agenzie internazionali», spiega ancora il cablogramma. Vista la tradizionale presenza delle mafie nel Mezzogiorno, la Dibble consiglia all’amministrazione Usa di inserire anche Napoli nella lista degli scali Megaports. «Dobbiamo coinvincere gli italiani che serve anche a loro, oltre che a noi», continua il cable. «Del resto in seguito al disastro nucleare di Chernobyl gli italiani avevano comprato alcuni portali, meno efficaci di questi, per verificare i container provenienti dalla Russia, ma oltre ad effettuare una scansione meno completa la maggior parte sono inutilizzati», si lamenta la Dibble. A cambiare le carte in tavola è il fallito attentato del Natale 2009 sul volo Amsterdam-Detroit che fa scattare un «campanello d’allarme anche in Italia». Per gli Stati Uniti è l’occasione giusta per tornare alla carica.
 
Lo rivela un terzo cablogramma del 15 gennaio 2010, firmato direttamente dall’ambasciatore Usa a Roma, David H. Thorne. Pochi giorni prima il diplomatico aveva incontrato il premier, Silvio Berlusconi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Entrambi gli avevano «assicurato» che per i nuovi scanner sarebbe a breve arrivato il «via libera». È l’8 gennaio 2010 quando il Consiglio dei ministri approva Megaports. Funzionari Usa incontrano poi il direttore dell’Agenzia delle dogane, Giuseppe Pelaggi. E nel marzo successivo viene firmato il memorandum d’intesa. La sperimentazione è partita prima dell’estate, ma per ora soltanto nei porti di Genova e Gioia Tauro.

 
 
 

L'ITALIA AIUTA I TRAFFICANTI DI ESSERI UMANI

Post n°877 pubblicato il 12 Settembre 2011 da dammiltuoaiuto

’Italia non fa nulla contro i trafficanti»

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Alessandro De Pascale

WIKILEAKS. Per la diplomazia Usa «manca un Piano contro il traffico di esseri umani» e la nostra polizia «non è addestrata per fronteggiarlo».

Gli Stati Uniti seguono da tempo, con la massima attenzione, il problema del traffico di esseri umani. I cable della diplomazia Usa, diffusi da Wikileaks, che riguardano questi crimini, sono numerosi. Almeno tre si concentrano sullo sfruttamento degli immigrati nel nostro Paese e sulle misure prese dal governo Berlusconi per contrastare gli ingressi irregolari. Un cablogramma inviato a Washington il 25 febbraio 2010 da David Thorne, ambasciatore Usa a Roma, rivela che sono proprio le «fonti governative» italiane a «riconoscere che la polizia dovrebbe essere meglio addestrata e applicare la legislazione sul traffico e l’immigrazione illegale in modo più uniforme in tutto il Paese, in cooperazione con le Ong». Manca inoltre «un organismo centrale per il controllo di questi crimini», anche a livello di raccolta dati sugli «arresti legati al traffico di esseri umani, i procedimenti giudiziari, le vittime inserite nei programmi sociali, il numero degli immigrati clandestini intercettati, l’emissione di temporanea di permessi di soggiorno, le persone che chiamano il numero verde per chiedere aiuto».
 
Un vero e proprio scandalo per gli americani, dato che l’Italia è una nazione di destinazione e transito di uomini, donne e bambini vittime di tratta a livello internazionale. Favorita dalla nostra particolare posizione geografica, vera e propria “portaerei” naturale adagiata nel Mediterraneo, che ha portato gli Usa a installare in Italia numerose basi militari. Il cable aggiunge poi che proprio «su richiesta dell’ambasciata degli Stati Uniti, il ministero della Giustizia raccoglie dati su arresti, processi e condanne per reati connessi a questo traffico». Ancora più grave, sempre secondo Thorne, «l’assenza di un Piano nazionale sul traffico di esseri umani che impedisce la valutazione degli sforzi per migliorare l’efficacia delle azioni intraprese». Oppure il fatto che «i pubblici ministeri spesso non riescono a provare il reato di traffico di persone per mancanza di prove e di conseguenza gli contestano altri crimini, come il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».
 
Donne e bambini vengono portati in Italia per essere destinati alla prostituzione. «Vengono segregati, costretti a lavorare per lunghe ore e a spostarsi frequentemente sia in altre città sia italiane che all’estero». Gli assistenti sociali hanno inoltre «riferito che nelle grandi città sono stati registrati anche casi isolati di figli maschi di immigrati “affittati” dai trafficanti a clienti che pagano in anticipo». Secondo il Parsec, che per Thorne è «l’unico istituto di ricerca sociale che raccoglie statistiche affidabili sul traffico di esseri umani», il numero di persone coinvolte è rimasto stabile nel 2009 in Italia a quota 2.500. Almeno 28mila, secondo un ricercatore del Parsec, sarebbero invece le prostitute, prevalentemente straniere, che lavorano nelle strade italiane; l’80 per cento di queste di nazionalità rumena e nigeriana cui vanno aggiunte le 16mila che esercitano in club e appartamenti.
 
Se il Pacchetto sicurezza approvato dal governo Berlusconi nel 2009, ha certamente «ridotto il numero di donne che si prostituiscono per le strade delle grandi città, come Roma e Milano, la maggior parte si è solo spostata nelle periferie, nei centri più piccoli o in club e appartamenti privati, dove sono ancora più soggette a violenze e abusi», denuncia il cable. «I minorenni rappresentano il 10 per cento del numero totale delle vittime, il 13 per cento di quelli rumeni e nigeriani». Secondo il ministero del Lavoro, a fine 2009 erano circa 6.100 i minori non accompagnati registrati dal governo e solo il 23 per cento con documenti. Provengono soprattutto da Marocco, Egitto e Albania. Peccato, si lamenta ancora l’ambasciatore Usa, che «non esistono statistiche specifiche sul traffico di persone sfruttate nei servizi o nell’agricoltura e di bambini». Anche se «secondo gli esperti, dei 70mila uomini di nazionalità straniera arrivati illegalmente ​in Italia nel 2009, fino a 30mila sono stati sfruttati». E soprattutto «nel settore agricolo e al Sud, dove la stragrande maggioranza dei migranti lavora senza contratto».
 
Una decina di giorni prima di questo cable sul traffico di migranti, il console americano a Milano, Carol Z. Perez, aveva inviato al governo Usa un rapporto «riservato» sulle politiche del titolare dell’Interno, Roberto Maroni, «il ministro più potente della Lega», sull’integrazione. Si parla del cosiddetto permesso di soggiorno a punti. Il console riferisce che «mentre Maroni annuncia pubblicamente il nuovo provvedimento, in privato ci è stato segnalato come organizzatore di un Consiglio consultivo sulle questioni musulmane, dotato di 400mila euro». Motivo per cui Perez lo apostrofa come «pecora che si veste da lupo, per assecondare i propri elettori che temono l’immigrazione». Con proposte «quanto meno sospette».

 
 
 

Spese militari e sprechi. Ecco dove serve tagliare .Spese militari e sprechi. un risparmio di 68, 3 miliardi di euro

Spese militari e sprechi. Ecco dove serve tagliare

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Valentina Conti

LA PROPOSTA. Ieri in piazza Montecitorio i Verdi hanno presentato la “contromanovra” da 68,3 miliardi di euro. Bonelli: «Nessuno tocca i privilegi della casta. Servirebbe una ribellione morale».

«Un risparmio di 68,3 miliardi di euro tagliando spese militari, opere inutili e sprechi». è questa la proposta ribadita ieri dai Verdi che hanno presentato ieri in piazza Montecitorio, alla presenza del leader nazionale Angelo Bonelli, di Michele Dotti per l’appello “Abbiamo un sogno” e di Giuliano Tallone della Costituente ecologista, e di alcuni militanti, una controproposta alla manovra econnomica appena varata dal governo. L’enorme quantità di risorse indicata dai Verdi si potrebbe risparmiare «per mettere in ordine i conti pubblici e per produrre una manovra che davvero rilanci l’economia, evitando il disastro sociale che deriverà dalle misure decise dal governo Berlusconi», spiega Bonelli. Il presidente del partito ha altresì accusato il governo di aver «polverizzato l’Italia» nonché di aver «eliminato i fondamenti basilari di giustizia ed equità».
 
I Verdi, nel loro dossier, capovolgono completamente l’impostazione culturale dell’esecutivo, e allo slogan della campagna «svuotiamo gli arsenali e riempiamo i granai» avviata già da mesi - per informazioni, www.verdi.it - associano una proposta concreta. Tabelle alla mano, secondo il Sole che ride «occorre innanzitutto tagliare le spese militari risparmiando 68,3 miliardi. Ogni giorno», spiega ancora Bonelli, «gli italiani spendono 70-80 milioni di euro per comprare 210 caccia bombardieri, 10 fregate, 2 sommergibili». Ed ecco, nel dettaglio, le spese che spese che potrebbero essere tagliate: 15 miliardi per l’acquisto di 135 caccia, 5 miliardi per gli eurofighter, 1,3 miliardi per 8 aerei, 4 miliardi per 100 nuovi elicotteri militari, 5 miliardi per 10 fregate Freem, 1 miliardi per 2 sommergibili e 12 miliardi per l’acquisto di sistemi digitali per l’esercito».
 
Altri esempi, altri numeri per rendere meglio l’idea della contromanovra ecologista: «Basti pensare che con il costo di un solo cacciabombardiere F-35 (124 milioni di euro) si possono realizzare 83 asili nido oppure che possono accogliere 60 bambini ognuno. Con la cifra necessaria ad acquistare 10 F-35 (1,24 miliardi di euro) si possono acquistare impianti fotovoltaici (da 3 Kwh) per 80mila famiglie (che potrebbero così quasi azzerare la loro bolletta elettrica). Si produrrebbero 288 milioni di Kwh di energia pulita ogni anno e con un taglio alle emissioni di ben 235 milioni di kilogrammi di CO2 ogni anno ossia una riduzione di 80.000 Tep (tonnellate di petrolio equivalente) ogni anno».
 
Per non parlare dei tagli che deriverebbero dallo stop alle opere considerate «inutili»: rinunciando a Ponte sullo Stretto di Messina, Corridoio Tirrenico (Maremma) e Corridoio Tirrenico Sud (autostrada Roma Latina) si risparmierebbero 6 miliardi di euro. l’insieme delle misure servirebbe da un lato per centrare gli obiettivi europei e, dall’altro, rappresenterebbe una misura fondamentale per avere un’aria più pulita nelle nostre città, con un evidente miglioramento della vivibilità delle metropoli. Ma, osserva Bonelli, «mentre altri paesi hanno tagliato, questo governo non intacca i privilegi della casta militare e anche le opposizioni non proferiscono parole. Tutto questo meriterebbe una ribellione morale».

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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