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I "Bond Morte" della Deutsche Bank, goldman sachs, J.P. Morgan FERMIAMOLI NON SI PUO' SPECULARE SULLA MORTE

Post n°961 pubblicato il 12 Febbraio 2012 da dammiltuoaiuto
 

I "Bond Morte" della Deutsche Bank: incassi se crepano, perdi se vivono!

Che cos'è diventato il mondo della finanza ce lo spiega bene l'ultima trovata della Deutsche Bank (e di altri giganti della finanza): i Bond sulla morte, i "death bonds"!
Tecnicamente naturalmente non si chiamano così: sono i "db compass life 3".

Le versioni 1 e 2 erano più tradizionali anche se non meno ciniche. In pratica si commercializzavano come titoli finanziari le polizze vita che le persone fisiche non potevano più permettersi di mantenere. E quindi se il soggetto assicurato moriva precocemente se ne incassava il maggior rendimento. Un giochino che ha prodotto un mercato niente male, con la Deutsche Bank che acquista le polizze da cittadini americani in difficoltà economica e le rivende a Istituti bancari e fondi Hedge (fondi speculativi) incassando in pochi anni 700 milioni di euro...
In generale il mercato delle polizze vita muove oltre 17 miliardi di dollari e quello dei fondi pensione americani oltre 23 trilioni di dollari. Per recuperare la liquidità necessaria a coprire i bilanci dei fondi pensione, ecco che parte del portafoglio assicurativo viene ceduto sotto forma di securities legate alle polizze sulla vita. In pratica se la persona vive di più il Fondo ci perde perchè gli paga la pensione ma recupera sulla minore redditività dei "titoli-morte" emessi. Se muore prima ci guadagnano tutti (tranne lui, ovviamente!).

A gestire i mercati alternativi in cui trattare questi titoli correlati al "rischio longevità" ci sono i tre colossi bancari Goldman Sachs, Deutsche Bank e J.P. Morgan. Le obbligazioni in questione sono appunto i cosiddetti "Death bonds", derivati finanziari costruiti sulle assicurazioni sulla vita.
Un meccanismo senza scrupoli in cui i grandi colossi finanziari incassano tanto più quanto prima muore il soggetto (che gufata!).

Così siamo arrivati alla terza generazione, in cui la puntata sull'aspettativa di vita (anzi "di morte") diventa una scommessa esplicita: i "db compass life 3" si fondano sulle vite di un campione di 500 cittadini statunitensi di età compresa tra 72 e 85 anni. Anziani che vengono regolarmente contattati da una società specializzata e mettono a disposizione i loro dati sanitari in cambio di denaro. Il sistema della banca tedesca si basa poi su complessi calcoli matematici ma, come riassume lo Spiegel, si traduce in una formula molto semplice: tanto più velocemente una delle 500 persone del campione passa a miglior vita, tanto più alto risulta il guadagno per l’investitore!
Secondo i calcoli effettuati dallo studio legale von Ferber-Langer, se le persone-campione vivono in media al massimo 12 mesi in più di quanto stimato dai medici, la rendita per gli investitori va oltre il 6%. Se invece, malauguratamente, decidono che non è ancora arrivata la loro ora e vivono più di 3 anni in più di quanto pronosticato dai medici, allora gli investitori perdono la metà dei loro soldi. La rendita oscilla tra questi due punti: se le persone-campione vivono dai 12 ai 38 mesi in più di quanto atteso o meno!
Ora che è scopiato lo scandalo, l'associazione delle banche tedesche fa mea-culpa e parla di codice etico... Ma in realtà questa storia dimostra esattamente in che mani si trova la gestione finanziaria della crisi economica e la considerazione che questa burocrazia economica ha degli esseri umani e in particolare degli anziani usciti dal mondo del lavoro: un "peso" che deve togliere rapidamente il disturbo.

http://isegretidellacasta.blogspot.com/2012/02/i-bond-morte-della-deutsche-bank.html

 

 
 
 

DICIAMO NO A MONTI SUL FISCAL IMPACT FIRMA LA PETIZIONE

Post n°960 pubblicato il 12 Febbraio 2012 da dammiltuoaiuto
 

 

47 MILIARDI DI EURO ALL’ANNO PER 20 ANNI. ECCO COSA COSTERA’ ALL’ITALIA LA FIRMA DI MONTI SUL “FISCAL IMPACT”. DOBBIAMO FERMARLI!

FIRMA    LA   PETIZIONE  

http://petizionepubblica.it/PeticaoVer.aspx?pi=P2012N19402

 

Pubblicato il10 febbraio 2012

 

Questo é un appello a tutti i lettori per firmare la petizione online contro l’ultimo Trattato Europeo firmato da Monti che prevede la modifica della nostra Costituzione (art 81) e l’imposizione all’Italia del pagamento di ben 940 miliardi nei prossimi 20 anni (il 3% del PIL annuo). Un Trattato che prolungherà la crisi per anni e anni, facendo l’interesse delle banche e impoverendo noi e le nostre generazioni future per sempre. Il trattato si chiama Fiscal Impact ed é stato firmato da un governo che noi non abbiamo eletto e che non si é neanche degnato di chiedere al popolo italiano il permesso di farlo.

Il Fiscal Impact impone il pareggio di bilancio a tutte le nazioni dell’UE e rappresenterà l’ultimo grande e decisivo passo verso il compimento del golpe tecnocratico-finanziario che ci impoverirà tutti.

Il trattato impone l’abbattimento del debito pubblico italiano, per la quota che eccede il 60% del PIL, un ventesimo all’anno, quindi il 3% del PIL. Ergo, l’Italia dovrebbe pagare in 20 anni la bellezza di 940 miliardi di Euro. Si tratta di 47 miliardi all’anno. Considerando che la recente manovra Monti che ci sta dissanguando ha permesso al governo di incassare “solo” 24 miliardi, facendo un rapido e doloroso calcolo, si deduce che serviranno l’equivalente di due di queste manovre all’anno. Per vent’anni. Già piango.

Vi rendete conto a cosa stiamo andiamo in contro? Tasse sempre più alte, liberalizzazioni selvagge che ridurranno lo stipendio di chiunque, licenziamenti a tappeto dei dipendenti pubblici, nuove proroghe sulle pensioni, immensi taglia sulle opere pubbliche, infrastrutture, trasporti, servizi pubblici e di tutta la spesa pubblica in generale. Per di più, se mai sopravviveremo a questi vent’anni, per le nuove generazioni si prospetterà tragicamente l’austerity ad vitam: Per l’eternità dovranno subire le rigide condizioni che il pareggio di bilancio esige: se il governo ci darà 100, dovrà riprendersi 100. Se non lo farà l’Unione Europea ci tartasserà con salatissime multe. L’economia italiana sarà controllata ed imbrigliata per sempre. Ci vogliono mantenere in uno stato di crisi economica perenne.

Un trattato simile che avrà ripercussioni disastrose sul nostro futuro, che comporta addirittura la modifica dell’Articolo 81 (sul bilancio dello Stato) della nostra Costituzione, non può essere firmato da un governo non eletto dal popolo italiano e soprattutto senza interpellarci con un sacrosanto Referendum popolare. Ma che fine ha fatto la democrazia? Dove é finita la nostra sovranità popolare? Nessuno ha il diritto prendere decisioni simili, che ci impoveriranno per sempre, senza interpellarci.

Il Grande Golpe Finanziario finora ha agito nell’ombra. Ha messo governi fantocci in Italia e Grecia, attuato piani speculativi per colpire a piacimento qualsiasi nazione dell’UE (Spagna, Irlanda, Portogallo). Banche ed istituti finanziari hanno preso per le palle intere nazioni: Stati con milioni e milioni di abitanti ora gli devono dei soldi. É una cosa inaudita, ma ci pensate a cosa sta accedendo? In milioni stiamo dando soldi a pochi privati che hanno messo in piedi un abile meccanismo per accumulare denaro su denaro, alle nostre spalle. É il sistema capitalistico-finanziario che permette tutto questo: introducendo il pareggio di bilancio, tutti questi schifosi magheggi della Finanza Internazionale diventeranno la prassi.

Tutti noi dovremmo per sempre soldi alle banche che si stanno assicurando per anni e anni, un imponente credito sulla spesa pubblica dei nostri Paesi, incentivandoli a contenerla per sempre.  Per di più con l’obbligo del pareggio di bilancio, si stanno assicurando il rientro dei capitali investiti, corredati di succosi interessi, nel breve periodo della chiusura del bilancio. E non é finita qui, perché, se in futuro, qualsiasi stato europeo, compresa la povera Italia, non raggiungerà il pareggio di bilancio annuale, dovrà pagare pesantissime multe alla BCE, al FMI o a qualsiasi altro organo di controllo finanziario sovranazionale esistente, guarda caso controllati proprio da quelle banche private e istituti finanziari che hanno messo in moto la grande recessione economica per poter impadronirsi dell’intera Europa.

Uno scenario del genere non può e non deve esistere: ma che futuro ci attende? Siete disposti a vent’anni di austerity forzata? E per che cosa poi? Per pagare dei debiti che noi non abbiamo né voluto né contratto? Non siete stufi di subire le decisioni di altri? Di subire il golpe finanziario delle banche internazionali? Non vi fa rodere il fegato sapere che il nostro governo, ovvero chi ci rappresenta, si é così subdolamente prostituito ai voleri dei nuovi padroni d’Europa, svendondo il nostro futuro?

Dobbiamo svegliarci! E’ ora di farci sentire! L’unica nostra arma é la democrazia. Possiamo e dobbiamo chiedere un Referendum per bloccare tutto ciò:

Firma anche tu la petizione per richiedere un referendum sul Fiscal Impact e sulla modifica dell’Art. 81 della nostra Costituzione. Non dico tanto, ma che ci mettano almeno nelle condizioni di poter esprimere il nostro parere, di poter far valere i nostri diritti di sovranità, riconosciuti nella Costituzione e nella Carta dei Diritti Universali dell’Uomo! E allora firmiamo per riprendiamoci i nostri diritti. La nostra sovranità. Il nostro futuro!

>>Clicca qui per firmare la petizione on line<<

 

FONTI:

http://www.nodebito.it/

http://paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=327

http://contropiano.org/archivio-news/documenti/item/6526-il-nuovo-patto-fiscale-europeo-fine-della-democrazia

ECCO    IL  TESTO  DELLA   PETIZIONE    CLICCA   QUI PER  FIRMARE 

http://petizionepubblica.it/PeticaoVer.aspx?pi=P2012N19402

 

Chi decide?
Noi vogliamo decidere
- sul Trattato sulla stabilità e la governance dell’Unione economica e monetaria
- sull’articolo 81 della Costituzione
Si stanno assumendo decisioni di vitale importanza per tutti e tutte noi.
I governi dell’Unione Europea stanno varando un nuovo Trattato sulla stabilità e la governance per rendere permanenti i piani di austerità che mirano a tagliare salari, stipendi e pensioni, a manomettere il diritto del lavoro, a privatizzare i beni comuni, e che prevedono addirittura la modifica delle Costituzioni. Con questo Accordo economico i governi, qualunque siano i loro colori politici, devono attuare nelle politiche di bilancio le decisioni del Consiglio europeo, della Commissione europea e della Banca Centrale Europea: la democrazia sarebbe cancellata, il potere sarebbe nelle mani dei mercati finanziari, delle banche, della tecnocrazia.
Il governo Monti non può decidere i nostri destini, i cittadini e le cittadine devono decidere sul Trattato sulla stabilità e la governance.
Il Parlamento italiano sta riscrivendo, per accogliere i diktat dell’Unione Europea, l’articolo 81 della Costituzione per imporre il pareggio di bilancio così da legittimare e rendere intoccabili le politiche liberiste e impedire che le istituzioni pubbliche, dallo Stato ai Comuni, possano intervenire nella gestione dell’economia a salvaguardia degli interessi generali.
Noi cittadini e cittadine, ispirandoci alla saggia massima della giurisprudenza romana “ciò che tocca tutti, da tutti deve essere deciso”, chiediamo di fare svolgere:
1. un referendum popolare di indirizzo – come quello già tenutosi in Italia nel 1989 – sull'Accordo di Unione economica rafforzata;
2. un referendum popolare, rispettando le condizioni previste dall'articolo 138 della Costituzione, sulle modifiche dell'articolo 81 della Carta costituzionale.

 

 
 
 

Monti faccia cose di sinistra Per salvare l’Italia

Post n°959 pubblicato il 12 Febbraio 2012 da dammiltuoaiuto
 

 

Intervista
“Per salvare l’Italia Monti faccia cose di sinistra”

Niccolò Cavalli

Applicando la ricetta individuata da Keynes nell’ultimo capitolo della Teoria generale, l’Italia potrebbe crescere in 5 anni del 2,5% in termini reali. Ne è convinto Giorgio Lunghini, ordinario di Economia politica all’Università di Pavia e accademico dei Lincei. Per l’economista l’azione del Governo Monti, improntata a una politica “dei due tempi”, è per definizione fallimentare: «È vero che il vincolo di bilancio è un problema reale, ma l’equità e la crescita lo sono altrettanto, anche perchè le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni». 

Il premier Mario Monti, per Lunghini la sua politica è finora «fallimentare»
Il premier Mario Monti, per Lunghini la sua politica è finora «fallimentare»

Il 6 febbraio Giorgio Lunghini, professore di Economia Politica all’Università di Pavia e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ha tenuto con Stefano Lucarelli una conferenza sulle Teorie economiche di fronte alla crisi, terzo incontro nell’ambito delle 10 lezioni sulla crisi alla Casa della Cultura di Milano.

«La teoria economica oggi dominante - la teoria neoclassica – si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto dell’attività umana», ha spiegato Lunghini. «Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato: la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo, essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche». «Tuttavia», nota Lunghini, «un economista non deve conoscere soltanto un metodo e una sola teoria, ma deve partire dalla consapevolezza che la teoria neoclassica è solo uno tra i molti modi di guardare alla realtà economica e sociale». «Leggere i classici», continua l’economista, «non è solamente un esercizio di storia del pensiero economico, ma è l’unico modo per acquisire quegli strumenti di comprensione e di critica che la teoria mainstream non è in grado di fornire. I classici sono molto più vivi di molti degli economisti che oggi scrivono su riviste e quotidiani».

Professor Lunghini, in cosa consiste la teoria economica neoclassica?
Al contrario dell’economia politica a essa precedente, l’economia neoclassica considera l’individuo, e non le classi sociali, quale oggetto della propria analisi, un individuo che è caratterizzato e studiato come un essere perfettamente razionale e con una conoscenza perfetta del futuro, intento a massimizzare la propria funzione di utilità. Questo individuo si muoverà, nello spazio astratto di un mercato in cui la moneta non conta nulla, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dalle strategie degli altri individui, fino a che tale interazione non condurrà all’equilibrio. Anche quando l’analisi neoclassica viene problematizzata, tentando di integrarla con asimmetrie informative, aspettative razionali, o distinguendo tra breve e lungo periodo, l’impostazione di base rimane quella ora descritta.

E che cosa c’è che non va in questa impostazione?
Il mondo neoclassico è dominato dall’armonia invece che dal conflitto, dalla razionalità invece che dall’incertezza, dall’equilibrio invece che dalla crisi: chiunque può rendersi che non si tratta affatto di una descrizione realistica della realtà in cui viviamo. È significativo che l’economia neoclassica non abbia una teoria delle crisi, ossia non preveda la crisi come possibile esito endogeno del sistema. Questo, alla luce dei fatti, dovrebbe già essere un motivo sufficiente per abbandonarla; ed è politicamente preoccupante che le ricette proposte per uscire dalla crisi non facciano altro che ispirarsi proprio alla sua filosofia, che è quella del laissez faire. Il mercato del lavoro, ad esempio, è concepito come inefficiente quando sindacati troppo potenti impongono un salario più alto di quello d’equilibrio: per la teoria neoclassica, la soluzione consiste nell’indebolire i sindacati e creare maggiore concorrenza tra i lavoratori, così da eliminare gli attriti artificiali e determinare un saggio salariale più basso, di equilibrio, in corrispondenza del quale non vi sarà disoccupazione involontaria, così che la produzione che ne risulta sarà interamente venduta. È questo l’impianto ideologico che giustifica l’idea di eliminare l’articolo 18, e diminuire le tutele ai lavoratori.

Cosa direbbero, invece, i classici?
David Ricardo era giunto, al termine di un ragionamento analitico molto rigoroso, a dimostrare una cosa che sembrerà molto semplice, ossia che se i salari sono alti, i profitti saranno bassi, e viceversa. In una società divisa in classi, il prodotto sociale non andrà tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. In quest’ottica, nella sfera della distribuzione non vi è armonia, come sostiene la teoria neoclassica quando si concentra sulla “produttività marginale”, ma vi è conflitto: tra i rentiers e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Piero Sraffa riprese questo punto, mostrando ineccepibilmente, e con un inconfutabile apparato matematico, che l’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e non esiste nessuna configurazione “di equilibrio” nella distribuzione del prodotto sociale, poiché esso sarà distribuito, oltre che in base alle condizioni tecniche della produzione, in funzione dei rapporti di forza e delle variabili monetarie e finanziarie. Il risultato di questa critica è però stata la damnatio memoriae caduta su Sraffa e su tutto il suo lavoro.

Tra gli autori classici, lei cita anche Marx.
Marx è l’unico autore che fornisce una teoria della crisi, eppure è proprio lui a mostrare che il capitalismo potrebbe anche riprodursi senza incontrare crisi, ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare situazioni in cui i redditi sono troppo bassi per sostenere la domanda, ossia quando la distribuzione della ricchezza viene spostata dai salari ai profitti. Marx parlava in questo senso di “crisi di sovrapproduzione”; il che però non significa che “abbiamo prodotto troppo”, poiché si tratta di una sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni della società, che sono anzi spesso frustrati proprio da questo meccanismo di mercato, che lascia le parti non abbienti della popolazione in stato di privazione. L’altra condizione individuata da Marx era che moneta, banca e finanza avrebbero dovuto essere funzionali soltanto al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dare invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Se le merci non si vendono, infatti, è anche perché la ricchezza viene tesaurizzata oppure utilizzata per attività speculative. Keynes condivise con Marx quest’analisi.

Ma Keynes non era convintamente antimarxista?
Da buon liberale inglese nato nell’Ottocento lo era, certo, ma d’altronde lo stesso Marx dice di sé je ne suis pas marxiste. Il punto su cui Keynes si trovò in accordo con Marx è la critica alla teoria standard, che considera neutrale la moneta, cioè vede la moneta come un semplice mezzo per lo scambio di merci, mentre nella realtà capitalistica la moneta viene domandata di per sé stessa. Questo potrebbe essere considerato un comportamento irrazionale: perché mai detenere moneta, così rinunciando all’utilità derivante dall’acquisto di un bene oppure all’interesse fornito dall’acquisto di titoli? Solamente Paperon de’ Paperoni ama il denaro in quanto denaro! In realtà, spiega Keynes, nel mondo reale è perfettamente razionale detenere moneta in forma liquida, poiché viviamo in un mondo incerto, e la domanda di moneta tende a crescere con l’aumentare della nostra percezione di incertezza, così come tenderà in questo caso a crescere il tasso di interesse, ossia il premio che chiediamo per separarcene. Ma il tasso di interesse, unito all’incertezza circa il futuro, sono proprio le due determinanti delle scelte di investimento da parte degli imprenditori, che potranno dunque prendere decisioni non ottimali e far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo. Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; e ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali: la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.

E come si può intervenire per eliminare questi difetti?
Nell’ultimo capitolo della Teoria generale, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello Stato nell’economia. La ricetta keynesiana è, di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale, come la sanità o l’educazione. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, il suo compito è proprio quello di svolgere efficacemente quelle attività che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, senza sovrapporsi ad essi. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.

Come giudica in questo senso l’azione del governo?
La politica del governo è stata sino ad ora improntata a una politica dei “due tempi”: si tratta di una strategia per definizione fallimentare. Il vincolo di bilancio è un problema reale, certo, ma non è l’unico: l’equità e la crescita sono altrettanto importanti, e si doveva agire simultaneamente nei confronti di questi due aspetti – anche perché le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni. Pierluigi Ciocca, che è stato il primo a parlare, già nel 2003, di un “problema di crescita dell’economia italiana”, ha di recente ha suggerito tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore, equità e crescita.

Di quali misure stiamo parlando?
Ciocca individua tre voci di spesa su cui intervenire: i trasferimenti alle imprese, che sono spesso forme d’inefficienza se non di illegalità e corruzione, e che alimentano un sistema imprenditoriale affetto da nanismo, con bassi standard tecnologici e scarsa propensione all’innovazione. Questi trasferimenti dovrebbero diminuire almeno di 2 punti percentuali. Gli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione andrebbero poi centralizzati e ridefiniti, ricontrattando i prezzi fuori mercato, riducendo complessivamente le uscite dal 6 al 9%. Infine, la spesa per il personale potrebbe diminuire circa del 10% con un parziale turnover, tenendo fermi i salari unitari. Assieme ad alcune misure a sostegno della produttività (dagli interventi per le infrastrutture e per la diminuzione della pressione fiscale alla revisione del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo) e della domanda (attraverso una spending review dei conti pubblici, per individuare le spese improduttive e tagliarle, aumentando al contempo le spese produttive), queste misure potrebbero portare ad una crescita in 5 anni del 2,5% in termini reali.

Eppure il presidente Monti ha promesso una crescita del 10% con le liberalizzazioni e ha dichiarato che, rispetto alla crisi, siamo a metà del guado.
Sarebbe utile, intanto, spiegare in quanto tempo è prevista questa crescita. In ogni caso, non si risolvono problemi strutturali con 500 notai in più e il doppio dei taxi o delle farmacie. Occorre piuttosto rendersi conto che la crisi non è affatto a metà del guado, e chiunque conosca l’andamento dell’export e della crescita ne è perfettamente consapevole. Senza contare l’occupazione, che va malissimo: è oggi all’8-9% e, facendo i conti veri, cioè conteggiando cassaintegrati, scoraggiati e inattivi, è plausibile che questa cifra possa essere stimata attorno al 12%. A questo va aggiunto che la quota di giovani disoccupati è altissima, quasi al 40%, e che, quando i giovani lavorano, sono lavoratori temporanei, precari, e sono sempre i primi a essere licenziati. Si tratta di una condizione drammatica di crisi economica e politica, che coinvolge un’intera generazione e, con essa, tutto il Paese.

Professore, ma come siamo finiti in questa situazione?
Negli ultimi anni si è avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte, la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali, la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.

Che cosa intende per “senato virtuale”?
Il “senato virtuale”, secondo una definizione che Noam Chomsky mutua da Barry Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente - poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa - in forme di populismo autoritario. Con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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