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Messaggi del 22/02/2012

 

la vita coniugale di tre coppie miste su quattro si chiude con un fallimento.

Post n°982 pubblicato il 22 Febbraio 2012 da dammiltuoaiuto
 
Foto di dammiltuoaiuto

Le separazioni dei matrimoni misti dipendono dalle più profonde differenze negli stili di vita e nella visione della famiglia.

di Gaia Cesare - IlGiornale - Servono a misurare il livello di integrazione di una società. Sono diventati invece il sintomo di un grave malessere. I matrimoni misti si sono triplicati nell’arco di un decennio in Italia (sono arrivati a quota 300mila, 590mila se si considerano anche le convivenze) eppure la vita coniugale di tre coppie miste su quattro si chiude con un fallimento.

 Nel 75 per cento dei casi l’amore sboccia in fretta ma l’epilogo è una separazione. La speranza di riuscire a conciliare le diversità si scontra con i più banali ostacoli quotidiani ma anche con le più profonde differenze negli stili di vita e nella visione della famiglia.
L’allarme e i numeri di questo fallimento sono stati diffusi dall’Ami, l’Associazione matrimonialisti italiani. E raccontano di un modello in piena crisi. Si chiamano «matrimoni misti». Lui italiano, lei straniera. O viceversa. Si amano e decidono di passare la vita insieme. La loro unione dovrebbe essere lo specchio del multiculturalismo, dell’immigrazione che si trasforma in scambio di vite, storie, tradizioni. È diventata invece il simbolo di una profonda incomunicabilità. Le abitudini sono diverse, la religione una scelta intima che in alcune culture condiziona profondamente lo stile di vita, la lingua un piccolo-grande ostacolo alla comprensione, e quel «sì» pronunciato davanti alla legge invece che far crollare le barriere diventa un muro di incomprensioni, disagi, nei casi limite anche di violenza.
La faccia più problematica del problema? L’unione tra una donna italiane e uno straniero. È in quel 22 per cento di matrimoni misti (il restante 78% riguarda maschi italiani che sposano una straniera) che si annidano le storie più difficili. «Le donne italiane, che sempre più frequentemente scelgono africani - nel 24% dei casi marocchini, nel 15% tunisini - spesso trovano dall’altra parte uomini gelosi, abitudini religiose che il compagno vuole condividere, a volte imporre, o semplicemente si trovano di fronte alla richiesta di adottare costumi e regole troppo restrittivi», spiega l’avvocato Gian Ettore Gassani, presidente di Ami. Così le liti esplodono anche per un nonnulla. «Abbiamo avuto molti casi di mariti che non riuscivano a comprendere le minime abitudini di una convivenza civile, che pretendevano di imporre alle mogli anche gli alimenti della loro tradizione, la carne macellata alla islamica, per esempio. E se lei si rifiutava, scattava la segregazione in casa e botte da orbi». Un fenomeno che si complica quando di mezzo ci sono i figli. «In Nord Africa sono potestà esclusiva del padre e le madri non hanno alcun potere sulla prole in caso di separazione o divorzio. Se il marito porta via il figlio, restituirlo alla madre e riportarlo in Italia diventa un’impresa difficilissima». Anche per questo l’associazione forense Ami ha proposto ai servizi sociali l’introduzione di corsi prematrimoniali gratuiti per le coppie miste.
Il gap culturale, insomma, spesso diventa un ostacolo insuperabile. Anche nel caso in cui lo straniero non arriva da troppo lontano. Come succede quando il matrimonio misto avviene fra un maschio italiano e una straniera, prevalentemente una cittadina dell’Est europeo: romene (25%), ucraine (17%), polacche (8%). «Sono matrimoni che in molti casi arrivano dopo tre o sei mesi dal fidanzamento. E vanno alla deriva con la stessa velocità», spiega Gassani. «Non ci si conosce a sufficienza, non c’è stata una convivenza alle spalle. Spesso succede che la conoscenza avvenga via chat. Così le differenze vengono subito al pettine - aggiunge Gassani -. E le donne dell’Est, per esempio, non hanno difficoltà a chiudere un rapporto in crisi. Proprio per un fatto culturale, perché nei loro Paesi un matrimonio si può sciogliere in pochi giorni e questo non è considerato un dramma».

Ma il fallimento delle unioni miste ha aspetti persino più preoccupanti. Dietro ai quali c’è spesso un obiettivo: l’interesse, da parte dello straniero, a ottenere la cittadinanza. «Ci siamo trovati di fronte a casi di uomini stranieri che sposano un’italiana, ottengono la cittadinanza e poi chiedono il ricongiungimento familiare con l’altra moglie che si trova in Egitto, il riconoscimento di fatto della propria poligamia», spiega Souad Sbai, presidente di Acmid (Associazione donne marocchine) e deputata del Pdl. D’altra parte - confermano i numeri Istat - nel 45% dei casi le acquisizioni di cittadinanza concesse fra il 1996 e il 2004 sono arrivate per motivi matrimoniali.

 
 
 

NEONATI ABBANDONATI IN ITALIA 3000 BEBE'

Post n°981 pubblicato il 22 Febbraio 2012 da dammiltuoaiuto
 

NEONATI ABBANDONATI

 

ROMA - In Italia sono circa 3mila all’anno i neonati abbandonati e ritrovati (soprattutto vivi, ma anche morti): il 73% è figlio di italiane, il 27% di immigrate, prevalentemente tra i 20 e 40 anni; le minorenni risultano solo il 6%. Lo riferisce la vicepresidente della Commissione pari opportunità tra uomini e donne del Ministero pari opportunità, Lucia Borgia, annunciando il successo della campagna informativa contro l’abbandono dei piccoli e dicendo un secco “no” al ripristino della “ruota”: “Sarebbe una delega del problema da parte dello Stato, un ritornare indietro. L’alternativa? Campagne informative e potenziamento dei servizi, ospedali più informati sul parto in anonimato, aiuti alla gravidanza e assistenza alla donna in difficoltà, una rete di solidarietà”.
Un rifiuto del buonismo, dunque?
“Occorre assistenza prima che il fatto (l’infanticidio) accada; ci vogliono pietà, comprensione ma anche solidarietà. Non è questione di tolleranza, ma un dovere sociale. Puntare il dito contro le mamme che abbandonano i loro figli mi fa ribrezzo. Non si è mai vista una mamma che abbandoni il figlio battendo le mani. Non è una questione non di buonismo ma di realismo”.
 
Purtroppo in queste settimane si moltiplicano i casi di abbandono e di presunto infanticidio: è di ieri la notizia del cadavere di un bimbo ritrovato in un armadio. La giovane madre romena, badante, forse temeva di perdere il lavoro, oppure il bimbo è nato morto, ma il cadavere è stato nascosto per occultare il parto... Secondo lei questi fatti tragici sono in aumento con la crescita delle immigrate?
“Abbiamo assistito a 5-6 casi del genere negli ultimi giorni: ma non si tratta di un fenomeno del nostro tempo. A Venezia esiste tuttora quello che un tempo era chiamato ‘Ospedale della pietà’, e che dal 1335 ha ospitato decine di migliaia di bambini abbandonati; tra il 1754 e il 1899, quando fu abolita la ruota, vennero raccolti 32mila carte e segnali lasciati nelle fasce dalle madri (medagliette spezzate, santini, indumenti, ecc.) per ritrovare successivamente i figli, ora conservati in un grande armadio. D’altra parte, non bisogna pensare che oggi il fenomeno sia in aumento con la presenza crescente delle immigrate: lo dicono i dati da noi raccolti attraverso le associazioni e il monitoraggio sui territori. L’abbandono dei minori riguarda tutti i ceti sociali; l’unica costante è la solitudine della donna, anche dove c’è informazioni e cultura, insieme alla paura del giudizio in casa, in famiglia, ancora più forte nei piccoli paesi. Molte italiane – oltre alle straniere - non sanno che ci sono diversi modi per partorire in anonimato, che si possono ricevere assegni di maternità dai Comuni; per le straniere scatta il divieto di espulsione nei primi 6 mesi del nascituro, poi si può chiedere un permesso di soggiorno per motivi di salute. Il parto in anonimato si dà troppo per scontato: a volte è un percorso difficile, sia perché gli ospedali non sono informati, sia perché la donna si ritrova sola a dover affrontare questo momento, abbandonata dai familiari e dalla comunità di origine; la non conoscenza della lingua italiana, la povertà, lo scarso inserimento sociale rappresentano ulteriori ostacoli”.
 
Come sta procedendo la campagna di sensibilizzazione contro l’abbandono dei neonati da voi lanciata alcuni mesi fa?
“La campagna informativa in 5 lingue (italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo) promossa dalla nostra Commissione, presieduta dal ministro Prestigiacomo, sta andando avanti. Non è rivolta solo alle mamme e alle gestanti, ma a medici, infermieri, gente comune. Bisogna aiutare le donne in difficoltà a non commettere un crimine; se si lascia una persona sola, si diventa conniventi. Non incitiamo le mamme ad abbandonare i figli: sarebbe una battaglia di retroguardia e di sconfitta; vogliamo tutelare la madre e il bambino. Si tratta una campagna attesa, arrivata fin troppo tardi; oltre al convegno del 13 luglio scorso a Roma, ne abbiamo programmati altri due a Milano (a fine novembre) e a Siracusa il 5 dicembre. Siamo interpellate come Commissione dagli Enti locali, che organizzano incontri su questo tema. Inoltre sono state già spedite a firma del ministro Prestigiacomo centinaia di lettere a sostegno della campagna ad assessori regionali, Asl, aziende ospedaliere, Caritas diocesane, consultori materno-infantili, associazioni femminili, assessori comunali alle politiche sociali. Infine gli opuscoli informativi, già diffusi su tutto il territorio nazionale in circa 400mila, sono stati inviati anche (altre 500mila copie) ai centri di ascolto presso le parrocchie e le associazioni che hanno il compito di tutelare le gestanti in difficoltà, che spesso si rivolgono a loro per paura delle istituzioni”.
Quando si concluderà la campagna?
“Non pensiamo di chiuderla; non è esaustiva, vuole essere un inizio. Abbiamo ricevuto riscontri positivi da parte di enti locali e Asl, una certa attenzione e risalto; intendiamo insistere per anni con questa buona pratica. Ben vengano altre iniziative di questo genere, sia ecclesiali che laiche”.
A livello di assistenza, cosa può fare lo Stato per queste donne in difficoltà?
“Abbiamo il welfare e il sistema sociale, ma molto sofisticato e complicato, anche se moderno. Le leggi ci sono ma non si conoscono e le straniere non sanno usufruirne, ma anche le italiane; da alcune la gravidanza indesiderata viene vista come la fine della vita non solo della mamma, ma anche del resto della famiglia. I contraccettivi ancora oggi sono talvolta criminalizzati; invece bisogna diffondere una cultura della procreazione responsabile, mettere la persona in grado di usare l’organizzazione sociale e di pretendere di essere assistita. Per quanto riguarda gli assegni di maternità, la donna ha diritto a 1.747 euro l’anno erogati dall’Inps entro 6 mesi dalla nascita del bambino; i Comuni riconoscono assegni di maternità per madri italiane e straniere con 283.82 euro mensili per 5 mesi. Chi non è residente in Italia può iscriversi al Servizio sanitario nazionale e ottenere la residenza. Si può chiedere consiglio ai centri di ascolto presso associazioni religiose, femminili, i Comuni. Certo, ci vorranno anni per diffondere questo tipo di cultura. Il nostro vuole essere solo un inizio”. (lab)

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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