Creato da abballedante il 27/06/2009

Eudemonologia..

L'arte di essere Felici... by Dante A.

 

 

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L'Intelletto...

Post n°5 pubblicato il 05 Luglio 2009 da abballedante
 
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noi troviamo in noi stessi un potere di cominciare o non cominciare, continuare o interrompere varie azioni della nostra mente e vari moti del nostro corpo

semplicemente con un pensiero o con una preferenza della mente. Questo potere è ciò che noi chiamiamo volontà. La volontà è qui definita come il

potere di fare o non fare qualcosa sulla base di un pensiero o di una preferenza della mente che decide se fare così o no; ma l’elemento della

preferenza non è il frutto di una libera scelta, ma è piuttosto il presupposto dato per determinare la scelta. "La libertà è l’idea del potere che un agente ha

di fare o di tralasciare qualunque azione particolare secondo la determinazione della sua mente […] cioè secondo la sua volontà": la libertà di cui qui si

parla è la libertà di fare ciò che è deciso dalla volontà, testè definita come un qualcosa che troviamo già in noi stessi e che, quindi, non possiamo

liberamente determinare, con la conseguenza che dove io non sono in grado di mettere in atto quella volontà che trovo in me, là io non sono libero.

Preliminarmente è bene osservare come i concetti di volontà e libertà non siano coestensivi, giacchè se la libertà comporta sempre la volontà, non vale

l’inverso: così posso volere uscire dalla stanza e non poterlo fare perché la porta è sbarrata. La questione ora più generale è chiedersi se l’uomo sia

libero oppure no: la risposta è che l’uomo è libero nella misura in cui - a meno che non vi siano impedimenti esterni - può compiere quelle azioni che la

volontà gli ordina: "che cosa possiamo pensare di più, affinchè l’uomo sia libero, che egli possa fare ciò che vuole?". Per esser libero, non vi è bisogno

che sia libera la volontà, ma basta poter mandare liberamente ad effetto ciò che essa ci comanda di fare: così se trovo in me la volontà di uscire

(volontà che però non sono io a determinare), non v’è nulla in me che impedisca di mettere in atto quella libertà, intesa naturalmente come "libertà da"

impedimenti intrinseci a fare ciò che la volontà prescrive. Ma, allora, dobbiamo chiarire se la volontà sia libera oppure no: essa - dice Locke - non è

affatto libera, giacchè consiste appunto in una preferenza, cosicchè non possiamo non preferire ciò che preferiamo. Sarò allora libero di fare ciò che la

volontà mi impone, ma non sarò in alcun caso libero di voler diversamente da come voglio. "Chiedere se l’uomo sia libero di volere il movimento o il riposo

[…], secondo che gli piaccia, significa chiedersi se vuole ciò che vuole": l’uomo non può dunque preferire altro da ciò che preferisce, sicchè la libertà

non potrà mai riguardare la volontà, ma sempre e comunque l’agire, il rispondere o meno ai comandi di tale volontà. Ci si può allora chiedere - ed è quel

che fa Locke - che cosa determini la volontà: su questo punto, il filosofo inglese assume una posizione oscillante o, meglio, differente nella prima e nella

seconda edizione del Saggio sull’intelletto umano. Nella prima edizione, egli fornisce una risposta assolutamente incongruente rispetto alla sua tesi sulla

volontà determinata, ragion per cui nella seconda edizione cambia posizione, conscio dell’incongruenza in cui era incappato. Così, nella prima edizione,

leggiamo che la volontà è determinata dalla felicità (e lo dice anche nella seconda), la quale è un bene (questo compare solo nella prima), o, meglio è la

ricerca del maggior bene: e per sapere quale esso sia, l’analisi pratica trapassa necessariamente in quella teoretica, giacchè è l’intelletto ad indicare

quale sia il bene maggiore, intelletto che per Locke coincide con la ragione, la quale a sua volta è la mia coscienza stessa, sicchè sono io a scegliere il

bene maggiore e a scegliere che cosa sia la felicità: ne segue allora che la volontà non può più essere una preferenza che trovo già determinata in me;

viceversa sono io a determinarla col mio intelletto, il che è in evidente contraddizione con la tesi di partenza. Locke si avvede di questa contraddizione e,

nella seconda edizione, corre ai ripari sostenendo che a determinare la volontà è sì la felicità, però determinata dal piacere, cosicchè la massima felicità

sarà data dal massimo piacere; da qui prende spunto quell’eudemonismo settecentesco che riconduce la felicità al piacere sensibile. Ma resta da

chiarire da che cosa sia dato il piacere: esso è, ad avviso di Locke, dato dall’eliminazione della condizione di disagio, sicchè a muover l’esigenza di

felicità e la volontà è il disagio in cui mi trovo. Rispetto alla prima edizione, la differenza fondamentale è che là interveniva inevitabilmente l’intelletto come

momento cognitivo dominante la situazione; ora, invece, l’intelletto non ha più voce in capitolo, e l’esempio che Locke adduce per chiarire questo punto è

quello dell’ubriaco, la cui felicità è data dal bere che gli consente di uscire dal disagio in cui si trova; la ragione gli suggerisce di non bere perché ciò è

nocivo, ma egli continua a farlo pur di uscire dal disagio, contravvenendo le prescrizioni della ragione: così facendo, Locke pone alla base della volontà

un elemento che sfugge al controllo dell’uomo e ci determina. Locke tenta anche di correggere un po’ questo determinismo, dicendo che quando l’uomo

sente un disagio, egli può qualche volta sospendere l’esecuzione (che prima appariva automatica) e valutare le conseguenze di queste azioni, per

vedere se esse portino all’eliminazione del disagio o se piuttosto non lo incrementino. E’ questo un momento di ponderazione che tuttavia Locke ritiene

possibile "soltanto qualche volta"; anche qui, però, si agisce in vista di uscire da un disagio maggiore, sicchè sono sempre condizioni che sfuggono alla

sovranità razionale dell’uomo. A conclusioni pressoché analoghe perviene Hume, il quale, nel Trattato sulla natura umana (III, 1), asserisce che "la

volontà è quell’impressione interna che avvertiamo e di cui diventiamo consapevoli quando diamo origine a qualche nuovo movimento del corpo o a

qualche nuova percezione della mente". Da ciò si ricava che le impressioni possono essere esterne o interne (di riflessione), ma tanto le une quanto le

altre sono passive, sono il frutto dell’azione di qualcosa che si imprime in noi, cosicchè esse son sempre un dato di fatto, tant’è che son la pietra di

paragone delle idee (le quali sono vere a fasulle a seconda che rispecchino o meno l’impressione); sicchè se la volontà è l’impressione proveniente

dalla mia coscienza di iniziare qualche cosa, tale impressione è indiscutibile. La volontà e il suo contenuto sono un qualche cosa di dato, il che ci rivela

già come non possiamo controllare la nostra volontà né le nostre impressioni: così come non possiamo non dire che il tavolo è giallo, ugualmente non

posso dire di non voler agire in quel dato modo. Tale controllabilità è meglio chiarita applicando alla volontà - come alle cose - quel concetto di causalità

che per Hume non è deducibile a priori né dimostrabile empiricamente, è una credenza poggiante sull’abitudine. Sicchè la categoria della causalità è il

concetto fondamentale con cui ci regoliamo per tutte le "matters of fact" (i "dati di fatto"); ne segue che tal concetto diventa rilevante non solo per la

connessione dei dati di fatto del mondo esterno, ma anche per quelli inerenti al mondo interno, per cui la causalità necessaria investe anche la volontà,

così come qualsiasi altra impressione. Ora, per mostrare ciò, Hume ricorda che il principio di causalità implica: 1) l’unione costante e necessaria della

causa con l’effetto; 2) la possibilità da parte della mente di inferire un certo effetto data una certa causa. Hume si chiede allora se questi due caratteri,

validi per il mondo esterno, valgano anche per il regno delle impressioni interne e risponde affermativamente: "le nostre azioni possiedono un’unione

costante coi nostri motivi, coi nostri caratteri e con le circostanze in cui ci troviamo"; ciò equivale a dire che le nostre azioni hanno una connessione

costante con la volontà, cosicchè quando i motivi, i caratteri e le circostanze saranno uguali, allora si determineranno la stessa volontà e le stesse

azioni: anche nella sfera delle azioni umane, cause simili producono effetti simili. E Hume adduce l’esempio del carcerato che vorrebbe evadere ma che

dispera di farlo perché la porta e la finestra sono sbarrate e perché non è possibile corrompere il guardiano, inflessibile e timoroso di esser punito dai

suoi superiori: il prigioniero inferisce la conseguenza che in nessun caso il guardiano lo lascerà evadere. Sono due cause diverse: una è fisica (la porta

e la finestra chiuse), e l’altra è morale (l’atteggiamento del guardiano), aventi tuttavia il medesimo effetto (l’impossibilità di evadere), cosicchè la

connessione è necessaria, non vi è in alcun modo più probabilità che il guardiano faccia uscire il prigioniero di quanta ve ne sia che questi attraversi la

porta o la finestra. Ciò avvalora la tesi secondo cui la causalità vale nel mondo morale non meno che in quello fisico, sicchè l’uomo non ha "libertà di", è

solo libero - come per Locke - di fare ciò che la volontà gli impone. Ma Hume aggiunge alla posizione di Locke alcune valenze positive, mettendo in luce

la positività di tale concezione deterministica della volontà: egli nota, in primis, come i motivi che determinano la volontà e che la rendono necessitata

implichino che io la possa considerare come espressione della mia personalità individuale, giacchè essa è determinata da motivi, caratteri e situazioni

che sono sempre miei (perfino le circostanze sono sempre il mio modo di considerarle); la volontà dunque è determinata, ma non dipende che da noi,

cosicchè essa esprime la nostra specifica individualità e deve essere considerata non come una passività, ma come una spontaneità. E’ questa la

libertà psicologica, per cui non ho reale libertà di scelta, ma poiché la volontà coincide con me, non mi sento coartato, ma psicologicamente libero.

 
 
 
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