Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 64

Post n°64 pubblicato il 19 Settembre 2005 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

DEFTONES: WHITE PONY (2000)

Una due giorni infernale. Il computer mi lascia a piedi. Fuori diluvia. Altro non posso fare che rispolverare qualche vecchio disco. White Pony (2000) dei multirazziali Deftones, per esempio. Cosa pensate che possano suonare un californiano di origine sino-ispaniche, un cinese, un irlandese e un americano? La risposta è subito pronta: cross-over, inteso idealmente come unione di più razze e di più tradizioni musicali. Tra i primi a mescolare i ritmi sincopati del rap alla forza d'urto del metal dell’ultimo decennio del ventesimo secolo, i Deftones virarono verso lidi deserti cavalcando il bianco destriero e partorendo uno dei migliori lavori di un'intera scena musicale. Contaminazione, fusione di generi opposti in un nuovo plurale ibrido, neologismi improbabili occorsi a classificare nel tempo la musica dei Deftones, band rispettata e di riferimento di una scena cui probabilmente non hanno mai fatto parte, se non agli esordi. Il loro genere è un po' particolare, ormai è noto: i ritmi sono lenti, ma, in un modo o nell'altro, riescono sempre a coinvolgere anche chi risulta essere amante di un più "violento" frangente musicale. White Pony, per i suddetti motivi, è un disco “sopra le righe”, anche se, immancabilmente, può sembrare un po' piatto, in alcuni momenti, proprio a causa dell’esasperante e strisciante suono di alcune canzoni. Ciò nonostante, è stata la conferma che tutti aspettavano: i Deftones non sono (e chissà se lo saranno mai) il fenomeno da baraccone che sono diventati i Linkin’ Park o i Limp Bizkit. Il quartetto di Sacramento lasciò, infatti, le scene con Around The Fur (1997), apprezzabile lavoro che ingiustamente aveva guadagnato loro dell’ennesima band che seguiva le orme dei Korn, causa qualche duetto e l'appoggio che il già celebre già celebre aveva loro offerto. I malcapitati Deftones, in realtà, non c'entravano nulla con la "new wave" di gruppi simil - KoRn, piuttosto, avevano scelto il momento sbagliato per lanciare il loro prodotto sul mercato discografico. L’accostamento era d’obbligo per gli addetti ai lavori. In questo contesto, non perdiamo di vista il percorso dei Deftones, che alla vigilia delle registrazioni di tale terzo studio – album, annunciarono l'allargamento a cinque membri della loro line-up, con l'ingresso in pianta stabile del dj Frank Delgado, già collaboratore in passato della band. La notizia inizialmente suonò come una rincorsa patetica all'ultima tendenza: la musica dei Deftones, fino ad allora, non aveva avuto affatto bisogno di nient’altro. White Pony, anche in ciò, si rivela essere singolare, poiché Frank Delgado stesso si rivelerà più che un “domatore” di scratches sia un abile manipolatore di suoni, campionando gli strumenti in modo da catturare quelle sonorità insite nei Deftones sin dai loro esordi e sorgenti dalle loro influenze precedenti. Mossa azzeccata. Tuttavia, se Around The Fur (1997) era libera interpretazione, White Pony (2000) è colmo di suoni duri, psichedelici, organici, addirittura industrial, per sfruttare un termine che sembrerebbe, all’apparenza, essere improprio a recensioni del genere. I Deftones dimostrarono di essere fatti di una pasta diversa e più densa dal resto della solita minestra riscaldata. Chino Moreno, il vocalist, spese molto tempo proprio nella ricerca di melodie efficaci che potessero fare da contrappunto alle atmosfere pesanti del suo gruppo e, certo è che, proprio la sua voce costituisce la reale differenza fra i Deftones e la “volgare” massa. Ogni parola è vissuta al limite dell'isteria, in ogni versante è possibile percepire l'anima di Chino Moreno, specchiarci in lui, emozionarci con lui. L’orecchiabilità non è tradita. Questo disco, tutto sommato, si può giustamente considerare come il completamento di un percorso cominciato con il debuttante Adrenaline (1995), ma al tempo stesso si distanzia parecchio dai predecessori. Capolavoro di suoni e di atmosfere melanconiche e sognanti; graffiante, mai spregiudicato.

Una chitarra nervosa inizia la corsa, aspettando che poi tutto il gruppo la segua. Rumorosamente la canzone esplode, potente come un vulcano in eruzione; le note colano spazzando, bruciando via tutto. << Slegami adesso, hai detto che lo avresti fatto, vero? E avevi ragione (presto ti lascerò andare) presto sarà tutto finito spero presto lei cantava, lei cantava così (presto ti lascerò andare) >>. La calma distorta. Di metà canzone. La voce di Chino Moreno, meravigliosa. Alterna il cantato, calma e schizofrenia a braccetto. E la rabbia. La chitarra domina ancora. Tagliente, distorta, potente corre veloce. Il basso nascosto pulsa note. Ecco Feiticeira. Digital Bath, piuttosto, è una delle due canzoni in cui Chino Moreno suona anche la chitarra. Stavolta la batteria cavalca da sola all’inizio. Conferendo poi il giusto “feeling” al pezzo. Tappeti sonori di chitarra e tastiera incantano, mentre la voce intona manciate di parole. Molto soffusa. Quasi delicata. Bellissimo l’arrangiamento delle chitarre sulle strofe, pulite. << Stasera ho voglia di qualcosa di più. Respiravi poi hai smesso. Respiravo poi ti ho seccato e stasera ho voglia di qualcosa di più >>. Esplode, poi. Adirata sui ritornelli, con le chitarre che disintegrano qualunque pensiero, rilasciandomeli poi, modificati. Sembra gocciolare adesso il suono, ed i sussurri si possono udire dalle più impervie viscere. Improvvisamente, giunge la calma, ma è cosa da poco, riespode, infatti, ancora meravigliosamente, la rabbia, distorta fino alla fine. Terrificanti gli stacchi di batteria, notevoli davvero. In piedi per gli applausi.

Elite, stranamente, è il pezzo che entusiasma meno. La voce canta irregolare. Il pezzo è quasi un treno metal. Un bel riff, comunque, scuote tutta la canzone quasi sempre uguale. Niente di speciale, insomma. Ancora batteria, con alcuni suoni elettronici a dipingerla un po’ strana. La chitarra scalda l’ambiente con un vellutato suono. Ancora la voce, serena. Apertura distorta. E poi ancora calma, apparente, nervosa. Pronta ancora una volta ad aprirsi in sentieri più rumorosi. Rx Queen è aperta dal rullante che, letteralmente, entra in testa, elettronico e oscurato. << Poi voleremo più lontano perché tu sei la mia ragazza e questo va bene. Se tu mi pungi non ci penserò. Ci fermeremo per riposare sulla luna e faremo un falò >>. Carino il finale, con echi distorti di chitarra, feedback taglienti, e la batteria vestita di suono “industrial”. Tanto per cambiare, la seguente Street Carp non si sottrae al rumore, anche se, rispetto a Elite, appare molto più piacevole. Cantata senza distorsione e con più espressività. Quasi una continua strofa rap. Riff di chitarra molto robusto, ai limiti ancora del metal. La batteria ed il basso macinano un bel serrato ritmo. Scorre via, velocemente.

Si passa poi alla “chicca”: Teenager. Una di quelle canzoni che spezzano il ritmo, che cullano ogni ascoltatore. Provocano, sensazioni. Altro non è che un “tappeto” di suoni elettronici creati da Frank Delgado e dai suoi macchinari. Di batteria “decadente”. Una continua scalata prima di inciampare. Rialzandosi ogni volta. Sotto, è come sentire un arpa cantare. Particolareggiata. Con Knife Party il ritmo trafigge come lama appuntita dopo i primi accordi puliti di chitarra. Poi si placa, ed infine annienta tutta la canzone. Dal buio di un feedback poi nasce la voce di Rodleen, una special voice-guest, che strazia. Urla e geme. L’ambiente che viene ricreato è proprio come viene descritto dalle parole di Chino Moreno. Mentre il charleston, rullante e cassa scandiscono il tempo. << Allora va a prendere il tuo coltello va a prendere il tuo coltello ed entra. Va a prendere il tuo coltello. Va a prendere il tuo coltello e sdraiati. Va a prendere il tuo coltello. Va a prendere il tuo coltello e baciami. Oh… potrei fluttuare qui per sempre. In questa stanza non possiamo toccare il pavimento. Qui siamo tutti anemici e dolci… >>. Il finale è geniale. Ancora un grosso riff di chitarra distorto riporta l’ascoltatore sul pianeta. Korea devasta. Di fatti, potente ed urlante vomita rancore. Magnifica. Finalmente è il turno di Passenger, ove l’ospite è Maynard James Keenan (Tool, A Perfect Circle). Non uno qualunque. La canzone è meravigliosa. Senza se e senza ma. Feedback di chitarra lontani. Come sirene. Sospiri nascosti. La chitarra ruggisce. La batteria martella il ritmo, danzando. E poi maestoso il basso e le loro voci che si mischiano in un unico viatico. Quando il suono sembra rallentare, la voce di Maynard James Keenan provoca chiari sintomi di “pelle d’oca”. Tra gocce di note di chitarra che cadono lente. Irrompe una distorsione, melodia e furore. La ricetta dello spettacolo. << Io sono il tuo passeggero ora alzati e mettiti qui. Ti chiedo solo di non accostare e di guidare più velocemente, ti prego. Abbassa i finestrini. Questa aria notturna è curiosa. Lascia che il mondo ci dia un’occhiata a chi importa che cosa vedono stanotte abbassa questi finestrini appannati per prendere fiato ancora e poi vai, vai, vai. Basta che mi porti a casa dove torno di nuovo a stendermi. Non lasciarmi. Vieni a prendermi all’angolo >>. Struggente. Ed è solo il preludio al gran finale, che, degnamente, spetta di diritto alla mia preferita: Change [In The House Of Flies] (click). << Ti ho vista cambiare in una mosca. Ho guardato lontano E tu eri in fiamme. E ho visto un cambiamento in te, è come se tu non avessi mai avuto le ali. Adesso ti senti viva, ti ho vista cambiare, ti ho portata a casa, ti ho messa sul vetro, ti ho tolto le ali e poi ho riso. Ho visto un cambiamento in te. È come se tu non avessi mai avuto le ali >>. Da brividi. Ecco l’altra canzone che vede anche Chino Moreno chitarrista. Stupendi gli accordi distorti che introducono la canzone. L’ambiente è spaventosamente sublime. Il giro di basso depredante. La batteria fila via che è un piacere, soprattutto il charleston impazza. Il cantato è intimo, praticamente una confessione sussurrata. Seguita da grida, potenti sull’inciso, che echeggiano virulente. Sembra che tutto si rilassi, ma, indugiando nervosamente, il canto ritorna bisbigliato tra gli armonici e i flebili accordi di chitarra. Una carezza in un pugno.

Pink Maggit chiude il cerchio. << Ti bloccherò un po’. Abbastanza. Adesso porta via il tuo ossigeno. Io ti incendierò. Perché io sono in fiamme. Ed io sono con te solo. Sono così. Dentro questa puttana. Spiacente. Potrei perderla. Così che mi dimentichi. Perché ti bloccherò >>. Basso, batteria. Energica e rumorosa. La voce di Chino Moreno. Le grida. Incessante la chitarra, milioni di note. Ora che entra il finale. Che si abbassa pian piano. Le luci si spengono con lo stesso arpeggio iniziale. Un vortice avvolgente. White Pony (2000) è da avere. Costi quel che costi.

 
 
 
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