Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 98

Post n°98 pubblicato il 17 Novembre 2008 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

THE FIELD: FROM HERE WE GO SUBLIME (2007)

Nomen omen. Uno dei grandi miti dell’era postmoderna da demolire è quello per cui si rappresenta la minimal/techno come una mera sfaccettatura sonora glaciale, incolore, pallida e smunta: a scardinare inderogabilmente il malsano pregiudizio provvedono, negli ultimi tempi, disarmanti uscite su uscite che segnano una scia da seguire. Facendo sì che si compia una vera e propria evoluzione accelerata della specie. Il punto di partenza geografico è l’Europa di Mezzo. Laddove, etichette come la teutonica Kompakt si distinguono per una vena forse maggiormente melodica, ma decidendo di voler correre qualche rischio in termini di vendite non si impongono limiti alla sperimentazione. From Here We Go Sublime ne è l’inequivocabile prova provata. C’è chi ha parlato, a tal proposito, di “pop ricombinante”. Genere musicale che si differenzia da tutte le altre molteplici catalogazioni architettate dalla critica poiché non è determinato dalla mescolanza di suoni e ritmi che esibisce, piuttosto dal criterio con cui la musica risulta essere tradotta in realtà, che consiste nell’affidarsi a vari campionamenti, di canzoni pop anche, per poi assemblare qualcosa di diverso, spesso così diverso che il sample impiegato diviene del tutto non riconoscibile. Identificato, invece, è il loop. Ripetere per ipnotizzare l’ascoltatore, costringendolo a focalizzare la sua distorta e disturbata attenzione sui dettagli sparsi, percependo i breaks infinitesimi, inducendolo, via così, sul concentrarsi circa l’essenza del brano. A livello emotivo, la ripetizione può anche risultare noiosa, tuttavia, qui è fonte di alta suggestione.

Di necessità, virtù. «The process starts at this moment when I hear there’s a song I want to make something else. And I sample it, looking for bits and pieces in it that I really like and I’m trying to rearrange it. It could go backwards, forwards, sideways, everywhere, you know? Double it, loop some new things, new instruments, like the guitar in the software. And of course the beat. That’s probably the whole thing. Then I mix it live. Always». Axel Willner/The Field è assoluto padrone della sua nobile tecnica artistica e non è affatto nuovo ad un certo genere di idee a riguardo. Infatti, rende loro forma tratteggiata e ritmo destrutturato. Seppur continuo e, quanto meno, intenso. Per un suono che aliena qualsiasi rapporto con spazio e tempo circostanti. Ascoltarlo è vivere un’esperienza extra-sensoriale. Perché statico a tratti, fluttuante, indefinito ed indefinibile. In una parola, sospeso a mezz’aria. In un clima di tensione, attesa. Sempre in presa diretta. È un continuo rallentare ed accelerare. Per non fermarsi mai. Disarticolato, ma organico. Un corpo non-strutturato di tagli ed inserti che faticano a definirlo plastico. Tessuto su tessuto, molecola con molecola, cellula per cellula. Questo è il disco con cui perdersi, lasciarsi andare. Verso l’oblio tecnologico. Basato sull’incomprensibile ed intima connessione fra ripetizione e differenziazione di mille e più microscopici dettagli sonori e le loro altrettanto numerose ed impercettibili variazioni. Senza dimenticare, le pause ed inattese esplorazioni o un battito in quattro quarti. Un filamento tanto esile quanto terso lega le tracce: una sorta di pacato caos sonoro dallo sviluppo sconfinato che nella meticcia musica di The Field si raccoglie in smaglianti sovrapposizioni tonanti, che non possono che riportare alla mente talune produzioni progressive di metà anni ’90 del secolo scorso, così come quelle più shoegaze, da cui lo svedese è stato folgorato tempo fa.

Fra terra e blu. Over The Ice va oltre. Senza limiti. Senza ancoraggi. The Field ha scomposto, separato, estrapolato un frame da Under Ice di Kate Bush e forgiato un qualcosa di non-nuovo, denso di mirabile incanto.


Questo il “semplice” pezzo d’apertura. A Paw In My Face recupera, ristruttura, rivaluta e ripropone un sample da Hello di Lionel Richie. Per niente fredda minimal/techno, anzi sempre morbida, solare. Un’onda energetica che non si esaurisce, a dispetto del titolo, con Good Things End, perché un suono sferico attorciglia l’ascolto ed una tartassante mestizia s’avviluppa in nuove ossessioni sonore. The Little Heart Beats So Fast è l’episodio più pop delle dieci meraviglie, che scorrono via delicate, mai irruente, abbracciano le menti e le rapiscono, inizialmente, per più di un’ora e, chissà, per quanto altro tempo ancora. Raramente il titolo di un album è riuscito a racchiudere nelle sue esigue parole il senso dell’intera opera. Everday si plasma su linea-guida costituite tra echi e trame fitte come velluto, penetranti e piacevoli. Silent, invece, è un’immersione barbiturica in una sognante notte stellata. Con The Deal si tocca il punto più alto in assoluto del contemporaneo capolavoro: dieci minuti di sudore sgorgante da un caleidoscopio elettronico che sembra non esaurirsi. E l’aria si fa satura. Le pulsazioni aumentano. La quiete, in una discesa di flangers, giunge mai tarda con un’atmosferica Sun & Ice, presto interrotta dalla pressione esercitata da Mobilia, più incisiva nel suo incedere. In chiusura, From Here We Go Sublime atomizza il riverberante doo-wop dei Flamingos. In conclusione, il disco si sgretola, si granula, ma non si arena, galleggia placido tra saliscendi e crescendo passionali, asserragliato dietro ad frammentato muro sonoro, che non può che proiettarlo, quale ideale reincarnazione per il nuovo millennio dello shoegaze, nell’Olimpo delle “pietre miliari”. Rilegge, altresì, con classe, le suggestioni melodiche disseminate dalla trance nel corso della sua, ormai lunga, esistenza. Oggigiorno ha assunto i contorni di ciò che è stato dai più chiamato “pop ricombinante”, e cioè assumere un piccolissimo frame di una canzone infinitesimale punto di partenza dal quale poi si dipana il tutto. Al cuore della sostanza, la vita, metafora della musica, ha sempre inizio da un che di microscopico. Eppure, a seguito di apprezzamenti ad ogni latitudine e longitudine, l’arte di The Field non può che essere divenuta, ormai, macroscopica. Alla portata di tutti. Per coloro che amano il genere, così come tutti quelli che non hanno alcuna familiarità con esso. Non ci si dimenticherà facilmente di un disco d’esordio simile. Che non ha nulla di virtuoso, ma può risultare ripetitivo, ossessivo, persino monotono nel suo banale intercedere, scontato. Nonostante ciò, incarna i colori del giorno e della notte, rappresenta brividi e sentimenti in note e, squarciando l’anima, lascia in eredità ai posteri eteree carezze.

 
 
 
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