Creato da low_waves il 19/11/2006

non mi strofinare

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Post N° 6

Post n°6 pubblicato il 09 Dicembre 2006 da low_waves

Qualcosa aveva cominciato in me.
Era una fredda mattina di agosto quando decisi di riaprire gli occhi, dopo una nottata di perversa insonnia. In quel periodo il tempo aveva deciso di invertirsi e anziché sprecare calore, elargiva come un sadico un freddo insano. Ci si avvolgeva i pezzi di carne in cappotti neri e grigi, tanti panini umani. Faceva realmente freddo, un gelo ancora sconosciuto. Il cielo mostrava abiti a lutto, ma nemmeno una lacrima era ancora caduta. Un vedovo che si preparava nella sua vestizione ad un sorprendente evento non ancora attuato. Ogni cosa appariva lontana dalla consuetudine. Per le strade ormai non si camminava più, ma si correva, inseguiti come si era da un’angosciosa sensazione. Un vuoto che si creava intorno al proprio muoversi che inghiottiva la mente, la fantasia. Era una paura spropositata, un’insinuazione di epilogo della propria esistenza che azzannava l’immaginario di tutti. Si entrava nelle case altrui e si era stupefatti di scoprire che si era accomunati da stessi riti, identici sogni, uguali sensazioni. Si era sbalorditi. Fin tanto che si era soli non ci si preoccupava, ma quando ci si ritrovava nelle stesse azioni controsenso altrui, tutto assumeva toni più irreali. Uno smarrimento ancora sconosciuto dilaniava i pensieri. Si era sfumati, apatici, abulici.
Niente. Non riuscivo a scrivere, un macigno pesava sui miei pensieri più dell’insonnia che mi aveva colpito. Come la notte precedente e quella ancora prima avevo tentato di intorpidirmi scivolando nel sonno, ma ormai provavo solo dolore. Le sue parodie della realtà si erano annebbiate e le mie ore notturne si erano perse in un vuoto senza coscienza. I miei sogni erano stati divorati da un nulla senza senso. Quale triste vita ha colui che non conosce più gli insoliti mondi della fantasia. Sospirai lieve e decisi di abbandonare momentaneamente la cellulosa bianca. Alzai lo sguardo oltre i vetri grigi della finestra, un’altra mattina si prestava allo svolgimento. Presi i miei pochi stracci ammucchiati senza cura, la camera era spoglia, in un altro tempo avrei potuto definirla quasi spartana, ma questa era ancor meno che tale. Era semplicemente tendente al vuoto. Tutto era inutile. Mi vestii in fretta. In cucina un fornello consumato stava già scaldando una colazione meno che frugale, l’unico pasto della mia giornata. Non che il cibo non abbondasse, ma la mia fame era quasi scomparsa, non sentivo più quel desiderio di percepire gusti particolari, di soddisfare il mio corpo. Il necessario consisteva semplicemente in una razione che facesse sì che non morissi. Era chiaro che quindi il mio aspetto si fosse alleggerito, che avesse perso le fattezze comode dell’uomo, ma avevo perso anche la voglia di essere accettabile, se non addirittura desiderabile. Fuori il cielo, invece, si appesantiva sempre più di un nero abbondante: tutto ciò che riusciva a destare ancora la mia attenzione. Ormai avevo perduto ogni debole emozione per il mondo discreto degli esseri umani, solo il dispiegarsi di stagioni era la mia tiepida passione. Amavo con neutralità la prassi giorno/notte e discendevo tra le nuvole con sguardi temperati.
Non mi era dato dormire, non potevo più sognare, raggiungere i miei simili. Dovevo vagare con i ricordi su questo mondo come un reietto. Era destino.
Passi dal profondo, scarpe che sfrigolavano sotto i piedi mentre una bocca diffondeva rumore. Era arrivata. Chiusi. Un processo infiammatorio del mio apparato psichico si stava svolgendo. “fuori, fa proprio freddo, sai?”, incisivi sporgenti si mostrarono verso di me. Ero minacciato. “dove ho sentito che tra un po’ tutto passerà?”, molari si prestarono al mio epilogo. “smettila di osservare il muro, quando ti parlo dovresti guardarmi…”. Certo, rumore, solo un sibilo, piccole note perforanti in successione. “tra un po’ verrà a trovarci Ingmar…”. “Ingmar?” mi difesi. “sì, ma allora parli, sei vivo. Comunque verrà tra qualche ora. Dai alzati, non sarai ancora arrabbiato per ieri?” due linee rosse si avvicinarono al mio viso in un unico schiocco morbido. Tepore primaverile: soffioni bianchi mi accarezzarono la pelle. “no”. Dissi con un cenno, perché la mia natura umana era tornata. “allora smettila di rimanere in silenzio. oggi ho voglia di uscire, tu no?”. Come poteva voler di nuovo uscire, era appena tornata. “non vorrai, vero?”. Sguardi veloci si incrociarono “cosa?, io ho solo detto che ne avevo voglia, non che l’avrei fatto”. Rispose colpevole.
Assurdo. Il desiderio è un preludio all’atto. Come potevo ancora guardarla dopo questo parossistico accordo mancato? Alzai gli occhi al cielo murato. Uno stridio si accasciava morente nelle mie orecchie. Un linguaggio acuto si propagava nella stanza richiamando tutta la mia considerazione. Inutile, non comprendevo più quell’idioma, l’avevo perso insieme alla capacità di rivedere i miei simili nel sonno. Percorsi, tuttavia, la parete fino a raggiungerne la fonte. Un’inconsapevole struttura geometrica, una modulazione logica che tendeva le sue estremità nella mia stanza si stava spandendo di fronte al mio temperato stupore. Il periodo non si prestava che al raffreddamento, ma quella costruzione procedeva nel suo contrario: si muoveva e si duplicava, ignorando l’apatia generale, spandendosi dove tutto, invece, si stava ritirando. Non era che un messaggio chiaro di un futuro avvenimento importante, ma la mia natura ripudiata non ne comprendeva che qualche sfumatura terribile. Sospirai inconcludente.
Urla, spine nei timpani. Qualcuno stava chiamando dall’altro lato della porta. Mi alzai dalla sedia e salii nella mia stanza. Non volevo rimanere passibile di dittatura vocale e di concetti inutili. Mi rinchiusi nella camera. Una luce fievole attraversava i vetri grigi andandosi a posare sul letto sfatto. Rughe sulle lenzuola consumate ondeggiavano al ricordo di mani e di pelle che una volta erano scivolate morbide su di esse, mura spente vibravano nella memoria di parole che suonavano come echi mancati. In questi spazi minimi si erano succeduti respiri vitali. Quante volte mi ero trascinato con la fantasia su per monti, feste, vasti oceani di folla. Tutta la mia piccola esistenza si svolgeva come una matassa intricata di lana tra poche mura di carta da scrivere con tante immagini della stessa materia dei sogni.
“Ingmar…sei venuto…sarà felice di vederti”, inutile esultanza per una sporcizia dotata di capacità comunicativa. Dal fondo delle scale giunse: “allora…non vuoi venire a salutarlo?” il mio silenzio agghiacciava la loro attesa. “mi hai sentita?” voce che traspariva una lasciva accondiscendenza. era appena entrata nella mia stanza e mentre si era fermata sull’uscio risposi con un “no” violento. “perché ti ostini tanto a non volerlo vedere? è un tuo amico” replicò sorpresa della mia inaspettata aggressività. Il suo sguardo deluso no fece che farmi irretire ancora di più. “va bene” ringhiai sordo. “può entrare” sussurrò una voce discreta. “allora, come stai? Ti vedo ripreso, hai un colorito più sano, so che non volevi vedermi. Ma rimarrò poco, giusto il tempo di capire se stai meglio…e mi sembra di sì.” Protese il braccio sinistro verso di me, prendendomi il polso. “bene, bene” denti bianchi digrignarono in segno di sfida. “ora vado tranquillo, tornerò domani mattina.” Un’ombra scura scomparve dietro la porta e così fece anche quella bianca che lo seguì per le scale. Un flusso di parole circondò le due figure al fondo “signora, aumenti la dose, sta cadendo in depressione, il polso è regolare anche se flebile, cerchi di farlo mangiare di più” “ma è sicuro? racconta di non fare più sogni, e ogni giorno che passa il suo sguardo assume una fissità sempre più vitrea, le confesso che ho paura. Quel suo vaneggiare di un raffreddamento generale, di un mondo che non può più raggiungere, mi spaventano. Io gli sto vicino solo per un legame che mi ha portata a conoscerlo per quello che lui era, ma ora non è che nebbia, sfocatura. E confesso che non ho la capacità di cercare la sua mente ogni volta che si perde nella foschia. Così…vorrei domandarle…lei mi capisce…” “certo, non si preoccupi, per il suo stato psicologico le posso solo dire che si trova in balia di convinzioni, ma bisogna evitare che abbia allucinazioni. Per quello che mi stava chiedendo: non c’è problema, domani stesso le manderò qualcuno, lì alla villa si troverà meglio ”. un largo sorriso accolse l’approvazione di un grazie leggero. “sì, grazie, dottore L.”
immagine
testo di "pupa femminista"
foto di "pupo pupi"

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Commenti al Post:
Stramba82
Stramba82 il 12/12/06 alle 01:39 via WEB
ognuno ha la sua foschia e il che implica la coscenza del viaggio che si sta intraprendendo...la personale conoscenza di questo viaggio e del suo perchè...nei miei limiti di pazzia sono contenta della mia foschia...nonchè dei miei viaggi che fortunatamente nn si sa dove arrivano...bellissimo testo...
 
Hard_Candy
Hard_Candy il 19/12/06 alle 16:11 via WEB
vorrei un gelato :)
 
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