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« meno male che silvio c'ècome vincere la sfida de... »

vivere con meno è facile, persino divertente

Post n°61 pubblicato il 24 Febbraio 2008 da p_i_a_n_o
 

Nome Serge, cognome Latouche, nazionalità francese. Il profeta del nuovo verbo globale vive tra Parigi e una vecchia casa in pietra rimessa a posto con le sue mani sui Pirenei Orientali, sotto il Pic Canigou, l´ultimo "paracarro" prima del grande ammaraggio dei monti del Mediterraneo. Si sposta rigorosamente
in treno e spende molto del suo tempo in giro per l´Europa a organizzare le pattuglie
disperse del consumo virtuoso. Affascina, racconta, scrive pamphlet, fustiga
l´economia globalizzata e la sciagurata «teologia del Pil». Insiste,
soprattutto, sul lato «conviviale» di un´austerità intelligente.
Già in
treno, andando da lui, la diga si rompe. Appoggio un suo libro sul tavolinetto
- titolo Come resistere allo sviluppo
- e i vicini di scompartimento si avvicinano, come attirati da una calamita.
Pendolari trentenni, titolari di lavoro precario. Chiedono di dare un´occhiata,
leggono avidamente. Dentro c´è scritto che il collasso è questione di
trent´anni. Diecimila giorni, roba da conto alla rovescia. Il petrolio si
esaurisce, gli oceani si innalzano, centinaia di milioni di uomini dovranno
spostarsi, il clima impazzisce, l´aria si avvelena, la sterilità maschile
aumenta anno dopo anno. Tutto converge verso la stessa "deadline", il
2030 o giù di lì.
I
pendolari insistono, chiedono chi sia Latouche, vogliono sapere di lui, danno
inizio a una discussione. Sono bastate poche righe di quel libro a svelare la
paura sommersa più diffusa degli italiani. «Macché criminalità», dicono, «ci
parlano di zingari e rumeni per non farci riflettere seriamente su queste
cose». Hanno mangiato la foglia, ma non si accontentano di un megafono di
protesta. Cercano una guida, qualcuno capace di rassicurare e tirarli fuori dal
vicolo cieco. Chiedono soprattutto parole di buon senso.
È
esattamente ciò che trovo quando incontro il mio uomo. Colui che ho di fronte,
accanto a un piatto di stoccafisso e una bottiglia di Montepulciano d´Abruzzo,
è l´esatto contrario dell´eco-fanatico imbonitore di folle. Latouche è un tipo
semplice, tranquillo, asciutto, segaligno e robusto come un ramponiere. Il suo
volto è segnato da rughe, ha capelli grigio-ferro e l´occhio da aquilotto. È
arrivato zoppicando con un gran sorriso, appoggiato al lungo bastone che è il
suo emblema di viandante. «Che vuole, cher ami, ho le ginocchia calcificate e
le piante dei piedi consumate dal troppo camminare. Ma è giusto così…, non è
mica giusto lasciare al buon Dio un fisico in perfetta efficienza. No?».
Pensi che
abbia formule da svelare: invece spiega che basta concentrarsi sulla qualità
della vita. Dobbiamo liberare l´immaginario, reso schiavo di un feticcio
apportatore di sventure. La parola sviluppo. Basta dire ai politici che,
rinunciando alla mistica della crescita, non perderanno elettori, al contrario.
Far capire alla gente che, scegliendo la decrescita, non torneranno all´età
della pietra, ma solo a quarant´anni fa.
«I poteri
forti ci ricattano, tengono in ostaggio la nostra immaginazione. Ci dicono che
con la decrescita scenderà su di noi la tristezza di un´infinita quaresima. Non
è vero niente. Invertire la corsa ai consumi è la cosa più allegra che ci sia»
.
Questo è del resto il tema del suo prossimo libro in uscita in Italia a metà
marzo per Boringhieri: s´intitola Breve trattato sulla decrescita serena.
Latouche ce l´ha a morte anche col terrorismo mentale degli ecologisti
annunciatori di penitenza. Sorride sotto la barba: «Ah, il masochismo
protestante, il senso del dovere, i dieci comandamenti… Ma no! La sola regola è
la gioia di vivere».
Quarant´anni
fa, si diceva. Il disastro è comincia allora. È lì che si è scatenata la corsa
allo spreco. In quarant´anni il nostro impatto negativo sulla biosfera è
triplicato, e non smette di crescere. Sembra impossibile, no? In fondo, non
mangiamo il triplo, non facciamo il triplo di viaggi, non usiamo il triplo di
vestiti… Come si spiegano questi numeri da apocalisse?
Semplice.
Nella nostra vita ha fatto irruzione l´Usa e Getta, l´obsolescenza programmata
dei beni. Una follia. Il trenta per cento della carne dei supermercati va
direttamente nella spazzatura… Un´auto è vecchia dopo tre anni, un computer
peggio ancora… E se non li cambi sei "out"… Viviamo di acque minerali
che vengono da lontanissimo, in mezzo a sprechi energetici demenziali, con
l´Andalusia che mangia pomodori olandesi e l´Olanda che mangia pomodori
andalusi…
E che dire
delle bistecche, che quarant´anni fa avevano il sapore dei pascoli. Oggi sono
gonfie di mangimi alla soia, coltivata a migliaia di chilometri di distanza, in
campi ricavati dai disboscamenti dell´Amazzonia. «Una volta ero un divoratore
di carne. Oggi la mangio col contagocce. Ma non per negarmi qualcosa. Lo faccio
per divertirmi a scoprire le nuove frontiere del mangiare. Il mio amico Carlo
Petrini dice che un gastronomo non ecologista è un imbecille, e un ecologista
non gastronomo è una persona triste. Ci pensi: è verissimo».
Per i
rifiuti la regola base del benessere non cambia. «Inutile fare come i tedeschi,
per i quali la raccolta differenziata è diventata ossessione. Basta comprare
diversamente, vivendo in modo conviviale. Non c´è inceneritore che tenga… Il
miglior rifiuto è quello non prodotto… E attenzione, lo dico agli amici
italiani, l´assedio da immondizie non è una questione napoletana. È una
questione mondiale, il libro di Saviano lo dice chiaro. Gli Stati Uniti mandano
in Nigeria ottocento navi al mese di rifiuti tossici non riciclabili».
Affrontiamo
in letizia lo stocco, il pane e il vino, e il discorso di Latouche è come una
litania francescana che ti obbliga a sillabare senza paura l´abc della
rinuncia. Le e-mail, per esempio. «Scrivo spesso lettere a mano, ma non per
tornare alla candela e alla pergamena. Lo faccio per il semplice piacere di
dimostrare a me stesso che posso camminare senza le protesi artificiali imposte
dal sistema, in modo atossico. Intendo la posta elettronica, e tutto il resto.
La mia è una forma di allenamento al digiuno dalla tecnologia. Un
tecno-digiuno».
E poi la
bici. «Non la uso perché si deve, ma solo perché è bello. Se nella mia casa in
montagna pedalo chilometri ogni mattina per procurarmi i croissant per la
colazione, significa che mi fa vivere meglio, punto e basta. Incontro persone,
parlo, imparo, e la giornata comincia col piede giusto. Ivan Illich, grande
fustigatore dello spreco, diceva che questo mondo ad alto consumo di energia è,
inevitabilmente, un mondo a bassa comunicazione fra uomini. Ecco, la bici è il
simbolo del contrario. Una vita a bassa energia genera alta comunicazione».
Non
parliamo dei telefonini. «Potrei dire che fanno male, che per costruirli si usa
un minerale rarissimo e altamente tossico; o che dietro a ogni cellulare c´è il
sangue delle guerre tribali fomentate dall´Occidente in posti come il Congo.
Invece dico solo questo: senza telefonini si vive meglio. L´ansia cala.
L´allegria aumenta. Non hai più il Grande Fratello che ti sorveglia. Uno lo
capisce anche senza sapere niente di economia e scomodare la geopolitica».
Sviluppo:
l´imbroglio è contenuto già nella parola. Nasconde lo sfruttamento e la rapina;
lo sradicamento in massa di individui, la morte delle diversità, l´evidenza di
un´umanità apatica, infelice, obesa, precaria, insicura e, a ben guardare, anche
più povera. «L´idea di sviluppo resiste ostinatamente all´evidenza del suo
fallimento. Per questo ha smesso da tempo di essere una cosa scientifica. È
diventato mistica, mitologia, religione. Un feticcio imbroglione che
anestetizza le sue vittime. Il vero oppio dei popoli».
Ci dicono
che per uscire dalla crisi economica dobbiamo lavorare di più. Diventare
cinesi. Che la Cina
vada al disastro e affoghi nell´inquinamento, sono obiezioni irrilevanti. Si va
avanti lo stesso. «È da questa cecità che dobbiamo liberarci», dice il
francese. Sì, ma allora qual è il modello giusto? «Anni fa ho incontrato un
contadino laotiano. Stava seduto sul bordo di un campo e non faceva nulla. Gli
ho chiesto: che fai? Ha risposto: ascolto il riso che cresce. J´écoute le riz pousser.
Ritroviamo il piacere della vita, prima dell´ansia di fare».
È così
ovvio: una società che ha come solo scopo lo sviluppo economico è come un
individuo che vuole solo essere obeso. Eppure la gente ha lo stesso paura di
cambiare, teme di perdere il benessere. «Qui gli allarmi degli ultimi decenni,
cose come Chernobyl o l´epidemia di mucca pazza, sono stati utilissimi. Hanno
posto interrogativi alla gente. Fanno il gioco del partito della decrescita.
Per questo, più che immaginare La Grande Catastrofe Finale, preferisco costruire
una pedagogia delle piccole catastrofi intermedie. Non c´è niente di meglio per
far capire alla gente l´apocalisse che verrà».
E la
lentezza? «La guerra della Valsusa contro la linea ferroviaria ad alta velocità
è sacrosanta ed è stata un pilastro nella storia del partito della decrescita.
Era il dicembre del 2005, trentamila persone si erano schierate sotto la neve
contro i bulldozer e io ero in tv, a L´Infedele di Lerner, a commentare in
diretta. Ecco, proprio allora si è creata la saldatura tra quella battaglia
concreta e la teoria della decrescita. È lì che i movimenti sono usciti dalla
foresta e hanno cominciato a saldarsi tra loro. Quello anti-Tav, quello contro
il megaponte di Messina o la centrale di Civitavecchia».
Latouche
ne è certo: i poteri forti temono la pubblica opinione. Per questo ci tengono
all´oscuro. Nell´Unione Europea hanno bloccato tutti i referendum sulle grandi
opere e gli ogm, perché sanno benissimo che la gente voterebbe contro, come è
successo in Svizzera. José Bové ha dovuto fare lo sciopero della fame perché il
governo francese, per timore di reazioni popolari, mantenesse la promessa
moratoria sugli organismi geneticamente modificati. «Se un politico andasse in
tv e dicesse: signori, stiamo viaggiando su un treno senza conducente, da
domani dobbiamo cambiar vita… Se quel politico desse nuove regole di
comportamento virtuoso alla nazione, non ho dubbi che sarebbe ucciso nel giro
di una settimana».
È un segno
di paura. Per questo l´economia globale accelera invece di rallentare. Per
questo le immondizie diventano montagne, il fossato fra ricchi e poveri si
allarga, le banlieues si incendiano. Per questo la corsa alle ultime risorse
diventa rapina, guerra, e il sistema entra nel tunnel dell´assurdo. «Assurdistan»
lo chiamava Illich. E poiché paura e consumi aumentano in parallelo, ecco che
la costruzione di un partito della decrescita diventa una gara di velocità, una
corsa contro il tempo.
«Quarant´anni
fa sono andato a lavorare in Africa come esperto di sviluppo. Volevo redimere
il continente dalla sua arretratezza. Ma ero anche affascinato dai popoli
africani. Studiavo appassionatamente quelle stesse culture che con l´economia
contribuivo a distruggere. È stato lì che la contraddizione mi è apparsa chiara.
Ed è stato lì che ho perso la fede. Da allora ho combattuto, sentendomi un
predicatore nel deserto. Oggi, per la prima volta, vedo che le cose stanno
cambiando. I nuclei a economia sostenibile si moltiplicano. Nelle città conosco
interi palazzi che si organizzano in modo ecosostenibile. Lo sento, ce la
faremo». (Paolo Rumiz)

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