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Post n°63 pubblicato il 30 Maggio 2006 da nem_o
Al mattino alle 1,45 ci alziamo (mi era quasi venuto da dire ci svegliamo!) e scendiamo a Laban Rata per la colazione. Ovviamente vestiti da montagna con tanto di pila frontale. Giusto il tempo di accorgerci che non fa freddo e che il sentiero è illuminato da fari come fosse un viale cittadino. Alle 2,40 partiamo con la nostra giuda e i due lumaconi neozelandesi. Il tempo di fare la prima rampa di scalinate, di toglierci giacca e felpa e li abbiamo già staccati. Pian pianino (mica tanto però) risaliamo i gruppi partiti prima di noi e all’ultimo check point, prima di iniziare le corde fisse, siamo già i primi. Arriveremo in cima alle 4,30, prima di noi nessuno. E’ una bella soddisfazione. Il cielo è terso, di uno stellato strabiliante. In basso le luci lontane di Kota Kinabalu. Pochi minuti e arriva la coppia che avevamo conosciuto la sera prima, buoni camminatori anche loro. Per un po’ saremo solo noi 4, la loro guida (stupita che siamo senza guida) e un insolito topastro che mi chiedo ancora ora come faccia a vivere quassù (poi ci penso e capisco che vive grazie all’inciviltà dei turisti che scaricano qui i loro avanzi cibari). Ma torniamo al check point. Ci controllano il permesso e possiamo così iniziare la fase finale della salita. Quella con le corde fisse. Il solo evocarle porta alla mente pagine epiche di alpinismo, l’Hillary Step, il Colle Sud e quant’altro. Nulla di tutto ciò. In realtà si tratta di un modo come un altro di segnare un sentiero (non sempre) particolarmente inclinato. Si è vero, in alcuni tratti sono di aiuto (soprattutto per la discesa) ma per lo più danno la direzione da seguire di notte o in caso di nebbia. Mi renderò conto in discesa che hanno comunque anche la poco nobile funzione di permettere ai pochi esperti giapu di trascinarsi in patin fino alla cima. Praticamente si sale su lastroni di granito venati di bianche venature di quarzo, tipo una lunghissima cengia che conduce fino a un colletto che dà dritto sul crepaccio di Low. Poi il sentiero piega a sinistra, sale un po’ più dolcemente attraverso una specie di altipiano-pietraia e si impenna nuovamente per gli ultimi metri. In cima niente croce ma una targa con l’altezza. In basso una processione infinita di lumini che salgono verso il Kinabalu. Tempo un’ora e mezza e la cima è gremita di gente. Scendiamo mentre gli ultimi disperati “alpinisti” si trascinano su per conquistare non tanto la cima, quanto piuttosto il diploma attestante la salita. Alle 8,00 siamo al rifugio e iniziamo la lunga, eterna, dolorosa e sfiancante discesa. Alla fine impiegheremo tre ore, giusto mezzora in meno della salita. Niente pioggia questa volta col valore aggiunto di camminare soli nella giungla del Borneo. Tutto intorno l’impenetrabile mistero di questo groviglio verde. Uno dei pochi ultimi polmoni verdi di questo pianeta che cerchiamo ogni giorno di più di far fuori. Giusto che il Kinabalu Park sia Patrimonio Mondiale dell’Umanità secondo l’Unesco. Meno giusto che ne abbiamo trasformato la salita in baracconata turistica. Tutti quelli che passno di qui “devono salire”. E in un modo o nell’altro ci riescono. E’ desolante vedere gente che arranca senza neanche lo zaino che è stato ceduto ai portatori, chi ciabatte o infradito, chi mezzo andato perché non abituato all’altezza. Un minimo di dignità imporrebbe loro di stare a casa e a tutti gli altri di godersi un po’ di più il silenzio e la maestosità della cima più alta di questa parte di mondo.
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