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giaccone

Post n°158 pubblicato il 23 Ottobre 2009 da nem_o

Stefano Giaccone - La vena d'oro

Non  mi interessa sapere chi guidava.

Stasera che ho anche bevuto un goccetto di più fatico a rileggere il libro e a cercare di capire chi faceva cosa.

Ma non è questo che importa.

Almeno non a me.

Importa sapere che ho letto di una vita che è la vita che non ho mai vissuto.

Chiuso nelle paure, nei miei bisogni piccolo-borghesi, nella mia voglia di cambiare il mondo attraverso un sistema educativo forse sbagliato a posteriori ma che allora sembrava l’unico vero (e forse lo è ancora ora, forse ero io inadeguato a quel sistema), ho vissuto la mia vita diversa da quella che qui viene descritta. E che sento comunque mia, almeno per l’amarezza della disillusione o per il sentirmi incompiuto in tutto.

Vite diverse che portano alle medesime riflessioni.

Conta di più quel che è successo prima o la comunanza delle conclusioni?

Non so dare risposta.

Mi colpisce però che “senza annunciarlo pubblicamente, ho finito poi per gettare la classica spugna”.

Tutti ci siamo passati, alcuni senza possibilità di redenzione, altri (pochi) con il riscatto dietro l’angolo. Siamo comunque la minoranza, i più non si pongono problemi e la spugna l’hanno gettata prima di nascere.

In Duccio ci ho visto i Franti come mi ha scritto Stefano sulla dedica, ci ho visto Stefano anche se non lo conosco e ci ho visto me stesso lungo le rive del Mekong laddove in Cina, il Mekong,  impara a diventare il grande fiume che è.

Si può andare a Ovest ma si può anche andare a Est.

Si deve comunque andare fino a trovare un luogo di bonaccia, di tregua dove poter guardare con distacco la vita passata.

“Amarezza, recriminazioni, consigli, moralità, tristezza: dietro di lui c’era di tutto, e davanti gli stava l’aspra ed estatica gioia del puro essere”

E’ questa la meta che Keruac vede per  Dean Moriarty, mi sembra questa la meta che insegue Duccio.

On The Road-La Vena d’Oro, un confronto azzardato? Non so, sarà una riflessione personale ma io ci ho trovato molto di Keruac qui dentro, per quanto poco mi ricordi di un libro letto vent’anni fa..

“Esci con tuo aquilone per farlo volare e si mette a piovere merda”.

L’amarezza è forte, il riscatto non sembra poter arrivare, un senso di tristezza pervade il libro in tutte le sue pieghe. Un periodo storico vissuto alla sua conclusione e per giunta dalla periferia, le cassette mai capite dei Franti, la necessità di essere comunque e sempre e nonostante tutto un bravo ragazzo, “il motivo per il quale, ad ogni passo compiuto verso una donna, io abbia sentito la necessità di farne uno nell’opposta direzione”, la perdita dell’odore dello stupore, la comune volontà (per strade diverse) “di ritardare l’ingresso nel mondo rispettabile del lavoro, della famiglia, dell’assimilazione”. Questo sono io, questo è anche Duccio.

Siamo soli in questo nostro cammino, o forse pensiamo di esserlo.

Duccio incontra molta gente nel suo viaggio verso il Portogallo, incontra nuovi amici a Peniche, anche nei momenti di massima solitudine ha un qualcuno con cui consumare un “pasto frugale”.

E nonostante tutto pensa che “il caso resti il nostro miglior compagno di viaggio, colui che conduce l’orchestra dei giorni, tenendosi sottovento per non farsi annusare”.

Duccio sembra finito ma trova la forza e la volontà di correre e di andare verso l’acqua “urlando come un folle tra i gabbiani”.

Mi piace questa immagine dell’uomo che nonostante tutto ha la forza di lanciarsi in avanti, anche là dove in avanti sembra non esserci nulla (Peniche è il paese più a occidente d’Europa) perché oltre al nulla ci può sempre essere un qualcosa ( le isole di Berlengas sono più a occidente del punto estremo dell’occidente).

Grazie Stefano per questa lezione di vita e per aver parlato anche di me pur senza conoscermi.

Ora i testi delle tue canzoni acquisiscono nuovi significati, ora si può guardare alla vita con un po’ più di ottimismo.

O almeno nel breve spazio della lettura del tuo libro.

“Il mare era appena tornato calmo, il frizzare della spuma si faceva via via più indistinto, quando mezzo miglio avanti alla prua l’abitatore abissale riemerse. Ma ora la balena s’era mutata in un branco di delfini, le groppe a ritmo, come nocche di un immenso pianista sottomarino”

 

 
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