dias de verano

20 settembre


20 settembre. Un giorno, una data, un biglietto aereo. Perdevo la vera essenza di questo concetto che prendeva forme sempre diverse. 20 settembre. Quanto manca al 20 settembre. Chissà come starò il 20 settembre. Si, parto il 20 settembre. Devo prenotare un biglietto per il 20 settembre. 20 settembre, 20 settembre, 20 settembre. E’ assurdo come il giorno del mese che più rimbalzava nei miei pensieri e condizionava ogni momento della mia quotidianità rappresentasse il più grande buco nero avessi incontrato fin’ora nella mia vita. Il 20 settembre era tutto e niente. Era la fine e l’inizio allo stesso tempo. Era l’esaltazione e la paura. La convinzione e il dubbio. Tutti attorno a me ne parlano, tutto deve essere pronto per quel giorno, tutto era in funzione di quella data scritta su quel biglietto aereo che gelosamente custodivo nel primo cassetto del mio comodino. Ogni sera prima di andare a dormire controllavo fosse ancora li. Rileggo la data, la destinazione, 2, 3 volte, ne verifico l’esattezza, la ripeto nella mia testa per memorizzarla più di quanto già lo sia. Lo ripongo nella busta dell’agenzia di viaggio e con la massima delicatezza lo appoggio nel cassetto. Chiudo il cassetto, gli occhi. E sogno. E’il 20 settembre. Forse mi coglie impreparato, ho paura di non essere all’altezza per affrontare questo giorno. Ma è troppo tardi per pensarci, le valigie mi chiamano. Sono li, accanto al mio letto, mi osservano e mi ricordano che è giunto il momento. In queste circostanze cerco di essere il meno riflessivo possibile, di inserire il pilota automatico e di disattivare ogni minimo pensiero su quello che potrei o no aver dimenticato. Rischierei il collasso. Preferisco sempre lasciare posto alle emozioni. Vedo tutto con occhi diversi, camera mia, le stanze della casa della mia famiglia, tutto inizia ad allontanarsi da me. Per la prima volta tutto questo diventa estraneo, distante dalla mia vita e quotidianità. Anche la mia famiglia sembra così diversa, è assurdo come proprio nei momenti di transizione ci si accorge di ciò che prima era scontato, normale. Prendo in considerazione la possibilità che potrebbe mancarmi la mia famiglia. Fotografo tutto col pensiero, mi distacco e vedo l’auto correre sulla tangenziale verso Malpensa. Dentro 4 persone nervose. Ognuna per un motivo diverso. Un figlio che parte per un anno e tutte le possibile preoccupazioni di un genitore legate a questo evento. Un fratello maggiore, seppur sempre freddo e distaccato, che lascia casa, un modello che sparisce in uno dei momenti più delicati di un adolescente, l ’inizio del liceo. Ed io, che alle loro preoccupazioni aggiungo l’idea di prendere l’aereo per un posto di cui non so davvero nulla e dove ovviamente non conosco nessuno, il dover cercare casa, ambientarmi in un’università nuova, mettermi in gioco. Sono terrorizzato ed esaltato nello stesso tempo. Semplicemente mi sento vivo, artefice di me stesso. A tutto questo alternarsi di paure ed emozioni si somma la mia disarmante fobia di volare. Il solo pensiero di staccarmi con i piedi da terra mi paralizza, vorrei potessero anestetizzarmi e svegliarmi a destinazione. Eppure non sono un neofilo del volo, fin da piccolo prendevo l’aereo. Forse questo mio terrore è un semplice occultare a me stesso tutte le mie altre più ben giustificate paure. Non voglio accettare di aver paura per il dovermi organizzare una vita da zero in una terra straniera, non voglio accettare la mia paura di fallire e cerco, riuscendoci, di convincermi che l’inquietudine che sento sia semplice paura, fobia, di volare. E’ tutto sotto controllo, tutto sotto controllo, ne sono convinto. Respiro profondamente. Non mi rendo ancora conto di nulla. Mi chiedo chi sia chi parte o chi stiamo aspettando. Forse i parenti dalla Sicilia. Forse qualche amico di mio padre. Nemmeno il volo per Madrid annunciato nel tabellone mi fa prendere coscienza del corso degli eventi che questo 20 settembre sta testimoniando. Mi fratello cammina inquieto per il terminal dell’aeroporto osservando curioso gli aerei in decollo. Mia madre seduta in disparte non sa gestire i suoi pensieri, le sue preoccupazioni, forse anche un po’ di ammirazioni nei miei confronti, chiedendosi se sia la solita maschera il mio dimostrarmi tranquillo e disinvolto. Mio padre, rispecchia il mio modo di essere, celando dietro la sua espressione impassibile un’ansietà quasi fisica. Capisco che è inutile prolungare quest’attesa. Osservo i miei genitori e mio fratello ancora per qualche secondo, immortalo dentro di me questo momento. La mia famiglia. E’ paradossale ma già sento che mi mancheranno. Forse è uno dei primi momenti nella mia vita in cui realizzo cosa voglia dire avere una famiglia. Un punto di riferimento. Ora che la sto lasciando per un lungo anno ne prendo coscienza. Non spreco parole di troppo, raccolgo le mie cose, metto in spalla il mio zaino con un fare sicuro e deciso. Saluto i miei genitori. E’ incredibile come le raccomandazioni di rito siano praticamente le stesse in ogni circostanza, dalla vacanza al mare, alla partenza per un anno. Mi sento in una scena da film. Loro sono li, fermi mentre io mi allontano e mi avvicino al controllo del metal detector, l’aeroporto è stranamente poco affollato. Faccio scorrere sul rullo tutto ciò che avevo addosso, zaino, giacca a vento, sfilo anche la cintura perché immancabilmente suona. Anche quest’altra tappa rituale è passata, decido voltarmi un’ultima volta mentre sto ancora mettendo lo zaino in spalla e piegando la giacca attorno ad un braccio, faccio un cenno con la mano mentre li vedo allungarsi e spostarsi il più possibile per vedermi meglio. Decido di non voltarmi più e giro l’angolo. Ora posso togliermi la mascara e far scendere una lacrima. Ho freddo, stranamente freddo. Devo solo aspettare, scruto tra la gente e vedo solo sorrisi, persone in gruppo , ragazzi, ed io, sempre immobilizzato tra l’apoteosi della felicità e l’inconsapevolezza di ciò a cui vado incontro. E’ quanto più di difficile da spiegare. Probabilmente nulla sarebbe tornato come un tempo, né io, né le mie abitudini, sentivo che già iniziavo a cambiare, vedevo ciò che era stata la mai vita fino a quel giorno allontanarsi e concretizzarsi sempre di più il vuoto davanti a me. Dove avrei vissuto? In che città sarei finito? Chi sarebbero stati i miei compagni di avventura? Mi siedo nel posto assegnatomi, a lato del finestrino, quasi sull’ala. Il terminal mi appare come un intero edificio fatto da specchi, non riesco a riconoscere nemmeno dove finisce un piano e ne inizia un altro, a spanne deduco dove possano essere i miei genitori ricostruendo mentalmente il percorso che avevo fatto dopo averli salutati. Prendo il cellulare, lo riaccendo. “Sono nel finestrino appena sopra l’ala” e con tutte le mie forze mi spingo con lo sguardo oltre quelle vetrate a specchio cercando di scorgere un minimo movimento segno del loro saluto. Non vidi nulla. Chiusi gli occhi e pensai a quanto strano da parte mia fosse stato scrivere quel messaggio ai miei genitori. Sentivo che ero già un po’ diverso. Non ci pensai troppo e cercai di dormire.