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Lettera di Giorgio Napolitano al Corriere della Sera del 6 giugno 2011

Post n°12 pubblicato il 07 Giugno 2011 da dirittiedignita
 

Aspettavamo da qualche tempo un input valido per lanciare sul nostro blog il tag "Cultura e Società" che seguisse l'introduzione che troverete nella tendina dei tag sulla sx. Crediamo che la lettera del Capo dello Stato che pubblichiamo, seguita dall'articolo di Magris, sia la migliore risposta al dramma dei migranti che scappano da guerre e dalla fame e un ricco contenitore di elementi utili per avviare il confronto sull'impervio tema della cultura e degli esseri umani che la producono. Attendiamo un vostro gradito riscontro

 Corriere della Sera del 6.6.11 di Giorgio Napolitano

UNA REAZIONE MORALE CONTRO L'INDIFFERENZA - LA LETTERA
"Caro Magris, lei ha dolorosamente ragione. Tocca noi tutti l'assuefazione alle tragedie dei «profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile" che periscono in mare. Le notizie relative ai duecento, forse trecento esseri umani scomparsi giorni fa in acque tunisine non riuscendo a salvarsi da un barcone travolto dalle onde, sono sparite dai giornali e dai telegiornali prima ancora che si sapesse qualcosa di piu'
sull'accaduto. E con eguale rapidita' e' sembrata cessare la nostra inquietudine per un fatto cosi' atroce. Non si e' trattato - lo sappiamo - di un fatto isolato, ma di un susseguirsi, negli ultimi mesi, di tragedie simili". "Ma se in qualche modo e' istintiva l'assuefazione, e' fatale anche che essa induca all'indifferenza? A me pare sia questa la soglia che non puo' e non deve essere varcata.
Se e' vero, come lei dice, che la democrazia e' tale in quanto sappia «mettersi nella pelle degli altri, pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare", occorre allora scongiurare il rischio di ogni scivolamento nell'indifferenza, occorre reagire con forza - moralmente e politicamente - all'indifferenza: oggi, e in concreto, rispetto all'odissea dei profughi africani in Libia, o di quella parte di essi che cerca di raggiungere le coste siciliane come porta della ricca - e accogliente? - Europa". "La comunita' internazionale, e innanzitutto l'Unione europea, non possono restare inerti - conclude Napolitano - dinanzi al crimine che quasi quotidianamente si compie organizzando la partenza dalla Libia, su vecchie imbarcazioni ad alto rischio di naufragio, di folle disperate di uomini, donne, bambini. Ô un crimine lucroso gestito da avventurieri senza scrupoli, non contrastati dalle autorita' locali per un calcolo, forse, di rappresaglia politica contro l'Italia e l'Europa. Ma e' un crimine che si chiama 'tratta e traffico' di esseri umani, ed e' come tale sanzionato in Europa e perfino a livello mondiale con la Convenzione di Palermo delle Nazioni Unite nel 2000. Stroncare questo traffico, prevenire nuove, continue partenze per viaggi della morte e aprirsi - regolandola - all'accoglienza: e' questo il dovere delle nazioni civili e della comunita' europea e internazionale, e' questo il dovere della democrazia. La ringrazio, caro Magris, per la sua sollecitazione: che ho sentito come rivolta anche a me, come rivolta, di certo, a tutti gli italiani"

 questo è l'articolo che ha stimolato la lettera del Capo dello Stato.....................

Corriere della Sera del 4.6.11
I morti in mare che non commuovono più
di Claudio Magris

Su alcuni giornali, duecento morti o dispersi in mare come quelli dell’altro ieri, in una fuga della disperazione, non finiscono neppure più in prima pagina, scivolano in quelle seguenti fra le notizie certo rilevanti ma non eclatanti. Per sciagure analoghe, solo qualche anno fa pure un presidente del Consiglio si commuoveva o almeno sentiva il dovere di commuoversi pubblicamente. Le tragedie odierne dei profughi in cerca di salvezza o di una sopravvivenza meno miserabile che periscono, spesso anonimi e ignoti, in mare non sono meno dolorose, ma non sono più un’eccezione sia pur frequente, bensì una regola
Diventano quindi una cronaca consueta, cui si è fatto il callo, che quasi ci si attende già prima di aprire il giornale e che dunque non scandalizza e non turba più, non desta più emozioni collettive. Questa assuefazione che conduce all’indifferenza è certo inquietante e accresce l’incolmabile distanza tra chi soffre o muore, in quell’attimo sempre solo, come quei fuggiaschi inghiottiti dai gorghi, e gli altri, tutti o quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono essere troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo. È giusto ma è anche facile accusarci di questa insensibilità, che riguarda pure me stesso mentre sto scrivendo queste righe e tutti o quasi tutti coloro che eventualmente le leggeranno. Diversamente da altri casi, in cui l’indifferenza o la livida ostilità si accaniscono sullo straniero, sul miserabile, su chi ci è etnicamente o socialmente diverso, in questa circostanza la nostra insensibilità non nasce dalla provenienza e dall’identità a noi ostica di quelli annegati. Nasce dalla ripetizione di quei drammi e dall’inevitabile assuefazione che ne deriva. Anche se, per sciagurate ipotesi, ogni giorno le cronache dovessero riportare notizie di soldati italiani caduti in Afghanistan, la reazione, dopo un certo tempo, si tingerebbe di stanca abitudine. Pure atroci delitti di mafia vengono a poco a poco vissuti come una consuetudine. Non si può sopravvivere emozionandosi per tutte le sventure che colpiscono i nostri fratelli nel mondo; pure la commozione per qualche delitto particolarmente raccapricciante, ad esempio l’efferata uccisione di un bambino, dopo un certo tempo orribilmente si placa; la notizia è stata assorbita, non scuote più l’ordine del mondo né il cuore. L’assuefazione — alla droga, alla guerra, alla violenza— è la regina del mondo. «Bisogna pur vivere — si dice in un romanzo di Bernanos — ed è questa la cosa più orribile» . Forse una delle più grandi miserie della condizione umana consiste nel fatto che perfino il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più; se annuncio la morte di un parente, incontro una compunta comprensione, ma se subito dopo ne annuncio un’altra e poi un’altra ancora rischio addirittura il ridicolo. Proprio per questo — perché, a differenza di Cristo, non possiamo veramente soffrire per tutti, così come non ci rattrista la lettura degli annunci mortuari nei giornali — non possiamo affidarci solo al sentimento per essere vicini agli altri. Il nostro sentimento, comprensibilmente, ci fa piangere per un amico che amiamo e non per uno sconosciuto, ma dobbiamo sapere — non astrattamente, ma realmente, con la comprensione di tutta la nostra persona— che uomini da noi mai visti e non concretamente amati sono altrettanto reali. Sta qui la differenza tra il pensiero reazionario e la democrazia. Il reazionario facilmente irride l’umanità astratta e l’astratto amore ideologico per il genere umano, perché sa amare il proprio compagno di scuola, ma non sa veramente capire che anche compagni di scuola di persone a lui ignote sono altrettanto reali; non astrazioni ma carne e sangue. La democrazia — schernita come fredda e ideologica — è invece concretamente poetica, perché sa mettersi nella pelle degli altri, come Tolstoj in quella di Anna Karenina, e dunque pure in quella di quei naufraghi in fondo al mare. 


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