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« Effetto PsaTavaroli: "Tronchetti mi... »

"E Tronchetti mi disse:Le abbiamo chiesto troppo"

Post n°733 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa
 

Da Repubblica.it
Parla Tavaroli, l'ex capo della security Telecom al centro dell'inchiesta sui dossier illeciti
"Voglio il processo con tutte le mie forze, dimostrerò che ho fatto ciò che mi chiedevano"
di GIUSEPPE D'AVANZO





Tavaroli con Tronchetti Provera




A leggere i giornali, e qualche anticipazione del documento che
annuncerà oggi la chiusura delle indagini del pubblico ministero di
Milano, l'affaire Telecom sembra essersi sgonfiato come un budino
malfatto. Più o meno, si sostiene che fossero all'opera, in Telecom,
soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli) e un paio di suoi amici
d'infanzia (Emanuele Cipriani, un investigatore privato, e Marco
Mancini, il capo del controspionaggio del Sismi). La combriccola voleva
lucrare un po' di denaro per far bella vita e una serena vecchiaia. I
"mascalzoni" avrebbero abusato dell'ingenuità di Marco Tronchetti
Provera (presidente) e di Carlo Buora (amministratore delegato). Tutto
qui.





L'affaire Telecom è stato dunque, secondo quest'interpretazione,
soltanto un bluff mediatico-giudiziario utilizzato (o, per alcuni
avventurosi osservatori, organizzato) da circoli politici per sottrarre
al "povero" Tronchetti la società di telecomunicazioni.





La ricostruzione è minimalista. Evita di prendere in esame, anche
soltanto con approssimazione, la sequenza dei fatti accertati (a
cominciare dalla raccolta di migliaia di dossier illegali); la loro
pericolosità; i protagonisti (alcuni mai nemmeno nominati); un
multiforme network di potere che condiziona ancora oggi
un'imprenditoria debole senza capitali e una politica fragile senza
legittimità: imprenditoria e politica sorrette, protette o minacciate -
secondo convenienza - da alcune burocrazie della sicurezza. È nelle
pieghe di questi deficit e contraddizioni italiani che è fiorito
l'affaire, uno scandalo che nessuno - a quanto pare - ha voglia di
affrontare. Vedremo se lo farà la prudente magistratura di Milano.





Per definire almeno la cornice del "caso" e gli attori e un metodo e
qualche fondo fangoso, Repubblica -
nel corso del 2008 - ha avuto sei colloqui (a Bereguardo, Milano e
Albenga) con un Giuliano Tavaroli convinto già da tempo (e quel che
accade sembra dargli ragione) che "nessuno avrà interesse a celebrare
il "processo Telecom". Nessuno: né i pubblici ministeri, né gli
imputati, né la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma io non sono e
non farò né accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo
affare. Io vorrò con tutte le mie forze il processo e nel processo
vorrò vederli in faccia ripetere quel che hanno riferito ai magistrati.
Il mio vantaggio è che tutti - tutti - hanno mentito in questa storia,
e io sono in grado di dimostrare che le informazioni che ho raccolto
sono state distribuite in azienda perché commissionate dall'azienda e
nel suo interesse... Ne ho sentite di tutti i colori. Come Marco
Tronchetti Provera che nega di aver mai avuto conti all'estero, come se
non sapessi che per lo meno fino al 2006 i suoi conti erano a
Montecarlo".


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Tavaroli lamenta di essere stato "messo in mezzo" per aprire la strada
all'inchiesta Abu Omar. E' il "signore della sicurezza" Telecom. I
pubblici ministeri devono intercettare gli uomini del Sismi che hanno
cooperato con la Cia per sequestrare illegalmente il cittadino
egiziano, sospettato di essere un terrorista. Con i buoni rapporti di
Tavaroli con il Sismi, l'operazione sarebbe stata a rischio. "Così -
dice Tavaroli - hanno cominciato a indagare su di me in modo
strumentale. Sì, strumentale. Potrei farvelo leggere nelle carte. Nelle
carte c'è scritto. Dispongono la perquisizione nel mio ufficio con un
unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto nella convinzione che, se non
lo avessero fatto, non avrebbero avuto campo libero per le
intercettazioni dell'inchiesta Abu Omar e quindi per l'ascolto decisivo
dei funzionari del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne accorge e
avverte il suo amico Mancini (era il capo del controspionaggio
dell'intelligence) e noi non caviamo un ragno dal buco. Così sono
finito nel tritacarne...".





Sarà, quel che è saltato poi fuori giustificava l'iniziativa penale, ma
qui conta altro. E' vero o è falso che, nel tempo, si è creata una
sovrapposizione operativa, una contiguità d'interessi tra
l'intelligence di Stato, le security delle grandi aziende al servizio
di obiettivi ora istituzionali ora politici ora economici, ora l'uno e
l'altro? Un "sistema" che per alcuni anni ha avuto il suo centro nella
Telecom di Marco Tronchetti Provera?





Tavaroli dice che, se si vuole davvero capire che cosa è accaduto in
Telecom, bisogna andare indietro nel tempo.






Una data d'inizio.


"Questo metodo ha, se si vuole, una data d'inizio con la nascita del
nucleo speciale di polizia giudiziaria a Torino, un gruppo che non
aveva alcuna corrispondenza nell'Arma dei carabinieri. Esisteva
soltanto lì a Torino, dove il generale Dalla Chiesa era comandante (Tavaroli lo chiama sempre il Generale, e sembra di vedere la maiuscola).
E' nel "nucleo" che nascono l'operazione di Frate Mitra che conduce
all'arresto di Renato Curcio o all'arresto di Patrizio Peci. In
quest'occasione furono "infiltrati" in Fiat - con l'assenso e la
collaborazione della "sicurezza" dell'azienda - cinque operai
"collaborazionisti": uno di essi fu poi reclutato dalle Brigate Rosse;
fu l'uomo che indicò al Generale il "covo" di Peci.





Dopo questi successi il metodo trovò una "natura giuridica", una
sistematizzazione legislativa. Non è che le nuove leggi lo prevedessero
esplicitamente, ma rendevano possibile - meglio, tolleravano - quei
sistemi se, in qualche modo, "controllati" dall'autorità giudiziaria.
Diciamo che le linee di collaborazione con la magistratura si
accorciarono e capitava che il pubblico ministero lavorasse gomito a
gomito con il sottufficiale operativo senza la mediazione delle
gerarchie. Nacquero le sezione speciali anticrimine. Con l'assassinio
di Guido Rossa, comincia la collaborazione anche del Pci e dei
sindacati. Ugo Pecchioli offre tutte le informazioni che i militanti e
i sindacalisti raccolgono nelle fabbriche. Indicano tutti i nomi di
coloro che, in fabbrica, sono o paiono essere vicini al terrorismo. Ci
sono ancora in giro ex-sindacalisti che possono essere buoni testimoni
di questo lavoro".






(Dunque,
vediamo integrati in una sola "piattaforma", l'Arma dei carabinieri con
un suo nucleo speciale, le procure alle prese con un "diritto speciale
di polizia", le attività informative della più grande impresa privata
del Paese, la Fiat, e del maggior partito di opposizione, il Pci,
presente in modo massiccio nel sindacato e nelle fabbriche. Lo schema è
destinato a riprodursi e, con la sconfitta del terrorismo, a
deformarsi, a "privatizzarsi"
).






"Diciamo che nella lotta al terrorismo nacque un "sistema" e fu
selezionata un'élite di professionisti, che è o è stata al vertice
della security delle maggiori imprese italiane. Con i pool di
magistrati, operavamo a stretto contatto, avevamo molte responsabilità
anche di decisione. Accadde quello che nelle aziende si sarebbe
chiamato "accorciamento della catena decisionale". Gli ufficiali in
parte partecipavano e comprendevano l'importanza dell'esperienza, in
parte avvertivano di avere meno potere: contavano le competenze e non
il grado sulla spalla. Si forma così una generazione di uomini che
emerge per il merito, la competenza. Siamo in un periodo di "leadership
situazionali", ovvero di persone che prendono la leadership a seconda
delle situazioni e delle circostanze, con grande flessibilità. E' in
questo periodo che si afferma "la dittatura della conoscenza". Conta
chi ha competenza e conoscenza e capacità di analisi. Ecco perché io e
Marco Mancini ci affermammo nonostante fossimo soltanto dei
sottufficiali: noi avevamo competenza e conoscenza. I generali avevano
i gradi, ma né l'una né l'altra.





Nel dicembre del 1988, quasi con un colpo di testa - decisi d'istinto,
dalla mattina alla sera, appena mi arrivò la proposta - lasciai l'Arma
per l'Italtel. Ormai noi dell'Antiterrorismo ci giravamo i pollici.
Molti si decisero a riciclare i loro metodi nella lotta alla
criminalità organizzata. Non era per me. Io penso che la mafia ti
rovini la testa, ti avveleni. Quando mi chiudo alle spalle la porta di
casa, voglio poter lasciare fuori anche il pensiero del lavoro. Ma
quando hai a che fare con gente che scioglie un bambino nell'acido,
come fai a dimenticartelo? Te lo porti a casa, il lavoro. Andai via".






"Lo scambio delle figurine"


"Per il mondo della sicurezza privata, quelli, sono anni decisivi. Nel
1989 cade il Muro, implode l'Unione Sovietica. Le ragioni costitutive
di una cultura della sicurezza, della sua organizzazione, metodo,
visione del mondo vengono meno. Io ho 30 anni e sono consapevole che
devo trasformarmi in un uomo di business. Comprendo subito che la
sicurezza deve diventare una funzione dell'azienda, non restare - come
era allora - un corpo separato dell'impresa. Tra il 1991/1992 nascono business intelligence, market intelligence, competitive intelligence...
Un vecchio mondo si frantuma, prestigiosi "salotti" diventano polverosi
e inutili. Mondi che prima erano separati da ostacoli, più o meno,
invalicabili - o valicabili a prezzo di grandi rischi - entrano in
costante comunicazione. A quel punto i servizi segreti che, con il
mondo diviso in blocchi, erano monopolisti dell'informazione perdono,
nello spazio di un mattino, la loro supremazia. E' uno scettro che
passa nelle mani dell'impresa privata.





Italtel, per dire, aveva dopo il 1989 150/200 uomini in Urss e agiva
con i governi delle singole repubbliche dell'ex-blocco sovietico mentre
il Sismi faticava per infiltrare anche soltanto un uomo oltre le linee.
Chi contava di più? Chi poteva avere più informazioni?
Queste condizioni creano
un nuovo mercato. Comincia lo scambio delle figurine tra security
private e servizi segreti. La parola d'ordine convenuta è "diamoci una
mano". E' una collaborazione che cresce, si allarga e sviluppa senza
uno straccio di protocollo, senza rendere trasparente e condiviso che
cosa è lecito, che cosa non lo è. In ogni altro paese - Stati Uniti,
Inghilterra, Francia - ci sono protocolli che regolano i rapporti tra
imprese, sicurezza privata e servizi. Da noi, c'è un vuoto che ciascuno
occupa come crede.





Nel 1996, aprile, vado in Pirelli. A quel punto le aziende che agiscono
sul mercato globale hanno già una sovranità superiore a quella degli
Stati. I governi hanno abdicato. L'11 settembre, se riproduce nel mondo
una nuova logica bipolare Occidente contro Islam, esalta le
potenzialità e il protagonismo delle imprese multinazionali o
plurinazionali. Con in più lo straordinario e inedito potere della
tecnologia. Cambia di nuovo tutto. Cambiano la cultura e i players
dell'informazione. Tutti affidano tutto all'indagine elettronica:
tracce elettroniche, carte di credito ecc. ecco che le
telecomunicazioni diventano appetite, sempre più strategiche. Le
indagini si fanno con le intercettazioni. Di nuovo: difficile dividere
lecito e meno lecito. In Francia, la polizia fa le intercettazioni
legali; la Direction de la Surveillance du Territoire (Dst) fa quelle illegali. Tutto normale, in Italia no".







"Tronchetti voleva il Corriere"


"Poi Pirelli acquista la Telecom. E' per tutti noi una sorpresa. Forse
non tutti sanno che Tronchetti Provera non aveva alcuna intenzione di
entrare in Telecom, in realtà. In quel 2001, stava scalando Rcs. Ha
sempre avuto una passione non nascosta per il Corriere della Sera che
riteneva, e forse ritiene, un'istituzione essenziale per la democrazia
italiana. In quei mesi stava acquisendo posizione e posso credere che
si preparasse a lanciare un'offerta pubblica di acquisto. Fu Buora a
proporre il dossier Telecom. Tronchetti gli diede fiducia.





Le cose, per noi, non stanno per niente messe bene nel 2001, quando
Berlusconi e i suoi si insediano a palazzo Chigi. Era al potere una famiglia impenetrabile,
gente che è insieme, gomito a gomito, dai banchi di scuola, gente che
pensa soltanto agli affari e all'assalto alla diligenza e tutti - dico,
tutto l'establishment - sono "fuori asse". A chi rivolgersi?
Come scegliere gli interlocutori "giusti"? E ci sono davvero, in quella
compagnia, gli "interlocutori giusti"? Per dirne una. Telecom aveva un
contenzioso per un centinaio di miliardi di lire con il ministero della
Giustizia. Come venirne a capo? Chi era Roberto Castelli? E quel
Brancher lì (era l'"ambasciatore" di Forza Italia presso la Lega di Bossi), che "pesce" era?






La verità è che noi in quell'avvio avevamo soltanto pochissimi
interlocutori. Ad esempio, Pisanu (ministro per l'attuazione del programma).
Vecchia scuola. Formazione politica solida. Interlocutore affidabile.
Con lui, Tronchetti filò subito d'amore e d'accordo. Con gli altri
soltanto guai. E i guai toccava a me affrontarli. In quel periodo
accade qualcosa che mi fa capire.





Accade che dovevamo rivedere gli organici e le responsabilità negli
uffici di Roma. Una persona, di cui non voglio dire per il momento il
nome, mi sollecita a "salvare", negli uffici della capitale, la signora
Laura Porcu. La cosa mi convince e la Porcu viene "salvata". Dopo
qualche tempo, la Porcu mi chiede se voglio essere messo in contatto
con personalità influenti del mondo romano. Accetto".






"Il network eversivo"


"La Porcu organizza un giro delle sette chiese, un'agenda di incontri
con Nicolò Pollari, Francesco Cossiga, Paolo Scaroni (Eni), Enzo De
Chiara (uno strano personaggio, finanziere italo-americano, vicino alle amministrazioni Usa, già finito in qualche inchiesta giudiziaria),
Pippo Corigliano (Opus Dei) che a sua volta mi presenta Luigi Bisignani
che già aveva chiesto di incontrarmi (se fosse stato siciliano, dopo
averlo conosciuto, avrei pensato che fosse un mafioso) e la Margherita
Fancello (moglie di Stefano Brusadelli, vicedirettore di Panorama),
che a sua volta mi riportò da Cossiga, Massimo Sarmi (Poste), Giancarlo
Elia Valori, il generale Roberto Speciale della Guardia di Finanza.
Insomma, dai colloqui, capisco che questi qui sono in squadra.






(Tavaroli
annuncia in settembre una memoria difensiva molto documentata e
comunque va ricordato qui che la sua è la ricostruzione di un indagato
).
Mi immagino una piramide. Al vertice superiore Berlusconi. Dentro la
piramide, l'uno stretto all'altro, a diversi livelli d'influenza,
Gianni Letta, Luigi Bisignani, Scaroni, Cossiga, Pollari. E' il network
che, per quel che so, accredita Berlusconi presso l'amministrazione
americana. Io non esito a definire questa lobby un network eversivo che
agisce senza alcuna trasparenza e controllo.





Mi resi conto subito che quella lobby di dinosauri custodiva segreti
(gli illeciti del passato e del presente) e li creava. Che quei segreti
potevano distruggere la reputazione di chiunque e la vera sicurezza è
la reputazione. C'era insomma, tra la Telecom di Tronchetti e
quell'area di potere, un disequilibrio informativo
che andava affrontato subito e nel miglior modo da noi,
riequilibrandolo o addirittura annullandolo con la creazione, a nostra
volta, di altri segreti. C'era bisogno di coraggio. Che è proprio la
virtù che manca a Marco Tronchetti Provera. Ha il culto di se stesso.
Non decide mai. Non se la sentiva di attaccare frontalmente, magari
pubblicamente, quel network né voleva "sporcarsi le mani", cioè entrare
nel club pagandone il prezzo in opacità, ma incassandone i vantaggi
lobbistici. Non prende posizione. Non si "compromette" né in un senso
né nell'altro. Per questo quella "compagnia" lo scarica. Come, lo
spiegherò presto. Il fatto è che quando Tronchetti si insedia in
Telecom è debole. Debole non per l'indebitamento, come tutti pensano.
Ma per il suo isolamento nel mondo politico, economico. Tronchetti non
piace alla politica. Ne è distante e questo non è gradito. Non capisce
la politica di Roma e questo è un problema. Non piace agli industriali.
La Confindustria è guidata da Antonio D'Amato, espressione della media
industria, e questo è un altro problema. E' su questa zona di confine
che mi dicono di "ballare". E io ballo. Me ne ha dato atto, quando mi
ha liquidato, anche Tronchetti. Mi ha detto papale papale: "Forse le
abbiamo chiesto troppo". E' vero, mi chiesero molto. Forse troppo".







(1. Continua)







(21 luglio 2008)

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