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Gli scenari dello scandalo

Post n°735 pubblicato il 24 Luglio 2008 da giromapa

Da Repubblica.it
Un'inchiesta in cui anche magistratura e informazione hanno dimostrato debolezze
Un dossieraggio frutto della guerra tra blocchi di potere

di GIUSEPPE D'AVANZO




Gli scenari dello scandalo

Giuliano Tavaroli




Si sente dire spesso che in quei luoghi, in quelle istituzioni, in quei
paesi dove non soffia alcun venticello di critica pubblica, cresce come
un fungo una corruzione senza colpa.





Non c'è dubbio che l'informazione sia e debba essere, per mestiere e
dovere, un alimento di critica pubblica. C'è il giornalismo che
pretende di ricostruire la verità. C'è un altro giornalismo che sa di
non poter afferrare con una presa sicura l'intera storia che racconta.
E' un giornalismo consapevole di un limite e accetta di lavorare a una
continua approssimazione della verità, cosciente che non saprà mai
davvero che cos'è la verità, ma saprà che cos'è la menzogna. La
indicherà ai suoi lettori. Vi si opporrà, per quel che poco o molto che
è in grado di fare. E potrà ripetere ai pochi o ai molti che gli
concedono ogni giorno fiducia: "Non vi abbiamo mentito".





Avremmo mentito ai nostri lettori se avessimo accettato le conclusioni
minimaliste dell'affaire Telecom. In questi giorni si è andata
disegnando, da più parti e anche con voci autorevoli, una scena
capovolta, fuori da ogni cardine. Scomparivano i protagonisti e i
comprimari, le loro condotte e responsabilità, la lunga scia di
illegalità, abusi e ricatti. Come d'incanto, soltanto distrattamente si
ricordava al lettore (e c'è chi non ha fatto nemmeno questo) che, nella
maggiore società di telecomunicazioni del Paese, la Telecom Italia di
Marco Tronchetti Provera, sono stati raccolti migliaia di dossier
illegali in collaborazione con l'intelligence italiana, in violazione
di ogni privacy con finalità ancora tutta da chiarire.
In occasione della
conclusione delle indagini, l'imputazione di una responsabilità
oggettiva di Pirelli e Telecom in capo al suo presidente (Tronchetti) e
amministratore delegato (Buora) è apparsa diventare, a leggere alcuni
commenti e bizzarre dichiarazioni, un'assoluzione piena: un esito da
esibire come un fiore all'occhiello. Per farlo, bisognava lavorare a
una cosmesi dei fatti.
Un annuncio di fine indagine è stato presentato come un proscioglimento
definitivo come se si trattasse di una sentenza assolutoria e
conclusiva, prima di leggere la richiesta di rinvio a giudizio che
ancora non c'è e la decisione del giudice dell'udienza preliminare che
un giorno verrà.





Si è scritto che Tronchetti è stato "scagionato". Il primo a crederci è
stato il presidente di Pirelli. Si è detto "contento e molto
soddisfatto perché è emersa con chiarezza la verità". La verità
provvisoria è che due società Pirelli e Telecom (con Tronchetti legale
rappresentante) non hanno impedito ai propri dipendenti di commettere
reati nell'interesse delle società. Tronchetti non avverte la
responsabilità di quella omissione. Non crede di dover chiedere almeno
scusa, con umiltà, agli spiati o almeno agli azionisti Telecom: già
provati dalla sua gestione, dovranno presto mettere mano al portafoglio
per pagare centinaia di miliardi di risarcimento alle vittime dello
spionaggio fiorito per la trascuratezza di un presidente e di un
amministratore delegato.





Non è nemmeno il peggio. Il peggio è l'acquerello a tinte tenui che
vuole rappresentare l'affaire. Tre amici d'infanzia (Tavaroli, Mancini,
Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la
potente e ricca security della Telecom (Tavaroli), il controspionaggio
militare (Mancini), un'importante agenzia d'investigazione (Cipriani).
Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier
spionistici in libertà con le risorse della Telecom e dello Stato.
Lucrano profitti e potere personali. Fine dell'affaire.





Avremmo mentito se avessimo accettato senza un dubbio, senza un
interrogativo questo tableau piccino, semplificatorio. E non per un
pregiudizio sfavorevole alla Telecom o a Tronchetti Provera. Ma per
quel che già si è potuto leggere nelle cinque ordinanze dei giudici
milanesi.





La security di Tavaroli disponeva di risorse finanziarie senza limiti,
alimentate in parte dal "fondo personale" del presidente. Nessun
controllo aziendale di audit. Dipendenza diretta dal presidente.
Quattro diversi "sistemi" capaci di rubare informazioni riservate senza
lasciare traccia. Una piattaforma di hackeraggio ("zone H") nei paesi
dell'Est, utilizzata per intrusioni informatiche, finanziata dalla
Telecom e posta in bilancio come "investimento per immobilizzazione
materiale" (poteva dare benefici a lungo termine). Una rete di pubblici
ufficiali sparsi su tutto il territorio nazionale, ""sensori" per ogni
indagine o accertamento che potesse interessare la Telecom-Pirelli".
Collegamenti con l'intelligence francese, inglese, americana,
israeliana e naturalmente italiana. Una pericolosissima "macchina da
guerra".





In due occasioni, il giudice per le indagini preliminari Giuseppe
Gennari ne indica esplicitamente il beneficiario. Ordinanza 18 gennaio
2006, pag. 188: "... che Tavaroli gestisse pratiche di questo genere
nel suo singolare interesse è altamente improbabile. Ci troviamo di
fronte a una gravissima intromissione nella vita privata delle persone
e a un tentativo di captazione occulta di dati e notizie riservate,
mossa da logiche puramente partigiane, nella contrapposizione tra
blocchi di potere economico e finanziario. Logiche che tendono a
beneficiare non già l'azienda come tale, ma colui che, in un dato
momento storico, ne è il proprietario di controllo". Ordinanza 20 marzo
2007, pag. 168: "Osserviamo anche il riemergere di una tipologia di
investigazioni che, in modo difficilmente revocabile in dubbio,
rispondevano a esigenze dei vertici e della proprietà aziendale".





La convinzione del giudice quasi imponeva a un autonomo lavoro
giornalistico di cercare Giuliano Tavaroli. Di chiedergli un colloquio.
Di raccogliere la sua versione dei fatti. Era il diavolo. Era descritto
come l'artefice e il conduttore di quella "macchina da guerra". Si
diceva che avesse lavorato nel suo esclusivo interesse gabbando il suo
padrone. Che cosa aveva da dire? Qual era la sua verità? E questa
verità non era, pur nella sua parzialità, di interesse pubblico in un
affaire dove tutti avevano avuto possibilità di accusare o difendersi e
che aveva provocato anche un decreto di legge del governo approvato
dalle Camere (la distruzione dei dossier raccolti illegalmente)?
Sono queste le ragioni
che hanno convinto Repubblica a pubblicare l'ampio resoconto dei
colloqui con Giuliano Tavaroli.





Abbiamo ritenuto che l'inedita ed esclusiva ricostruzione del
principale indagato (anche con le possibili manipolazioni di cui
abbiamo avvertito il lettore) potesse dare al quadro un tassello in più
e una profondità, una concretezza, un profilo che le anticipazioni
giudiziarie annunciavano piatto, senza asperità, quasi neutro con la
storia assai poco credibile dei "tre amici intraprendenti".
Comprendiamo l'irritazione di chi, proclamandosi estraneo a quei fatti,
ne è stato coinvolto. Ma oggi abbiamo sotto gli occhi, con i nomi, i
cognomi, qualche circostanza e dettaglio, quella "contrapposizione tra
blocchi di potere" già intuita dal giudice nel gennaio del 2006. Vi
affiorano figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna
responsabilità istituzionale; una filiera di immarcescibili massoni che
lo scandalo della P2 non ha eliminato dalla scena; comportamenti
obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze
della magistratura, dell'informazione, delle amministrazioni dello
Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai
trasparente.






Non ci appare la verità. Ci appare uno scenario più vicino alla realtà
dello scandalo Telecom.






(23 luglio 2008)

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