Creato da dream.of_fable il 24/06/2010

dream of fable

...Raccontami una fiaba... raccontami un sogno.

 

 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: L'acciarino magico

Post n°29 pubblicato il 16 Luglio 2010 da dream.of_fable
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C'era una volta... un soldato valoroso che tornava dalla guerra. Nonostante il suo coraggio, le sue tasche erano vuote e la spada era rimasta la sua unica ricchezza. Passando in mezzo a una foresta, incontrò una vecchia strega che lo fermò. "Bel soldato, ti piacerebbe guadagnare un sacco di monete?" "Monete?! Farei qualunque cosa per un pò di denaro..." "Bene!" riprese la strega, "Vedrai che non sarà difficile! Devi calarti nel tronco vuoto di quell'albero finché troverai un grosso cane con occhi grossi come tazzine da tè a guardia di un grosso forziere pieno di monete di rame: dietro la seconda porta un tesoro di monete d'argento sarà difeso da un cane con occhi grossi come macine del mulino. Infine, se aprirai la terza porta, troverai un altro cane con gli occhi grossi come la base di un torrione, vicino a un tesoro di monete d'oro. Se però poserai davanti ai cani questo mio grembiule, loro vi si accucceranno sopra senza farti male e tu potrai prendere tutte le monete che vuoi. Cosa ne dici?" Il soldato chiese allora sospettoso: "Ma tu cosa vuoi in cambio?" "Voglio solo che mi riporti un vecchio acciarino dimenticato da mia nonna!" Il giovane si legò allora una corda alla vita e, senza abbandonare la spada, si calò nell'apertura. Con sua grande meraviglia trovò le tre porte e i tre cani, proprio come aveva predetto la strega. Poco dopo era di ritorno con le tasche piene di monete, ma prima di consegnare l'acciarino chiese alla strega: "A che cosa ti serve?" La strega urlando gli si avventò addosso tentando di graffiarlo: "Dammelo subito! Dammelo, altrimenti...." Il soldato, nel vedersi assalito dalla megera esclamò: "Ah! E' così che mi ringrazi? Adesso ti farò vedere io!" E, sguainata la spada, con un fendente tagliò di netto la testa alla vecchia. Poi fischiettando proseguì allegro il cammino finché arrivò in città: "Finalmente potrò mangiare e bere a volontà!" si disse, spalancando la porta di una bella locanda. Mai fino allora la locanda aveva avuto un ospite così: pranzi di parecchie portate, una più ricercata e abbondante dell'altra, ma soprattutto laute mance. Al soldato sembrava di essere diventato un Principe, per l'improvvisa ricchezza. Si comprò per prima cosa un paio di stivali nuovi poi, consigliato da alcuni nuovi amici, fece visita al miglior sarto della città. Dopo pochi giorni vestiva una splendente uniforme che tutti si giravano ad ammirare. Generoso, era sempre attorniato da gente che voleva consigliarlo sul come spendere il suo denaro: pranzi, balli, passeggiate in carrozza, teatri e soprattutto grandi bevute si susseguivano. Com'era inevitabile, il denaro finì: sparirono gli amici e fu scacciato dalla locanda quando si accorsero che non poteva più pagare.

Il povero soldato finì in una soffitta e ogni giorno doveva stringere di un buco la cinghia dei pantaloni. Tutto il buonumore e l'allegria di prima se n'erano andati. Una sera si trovò a fare l'inventario del poco che gli era rimasto e vuotando le tasche si accorse di non aver mai usato l'acciarino della strega. Lo sfregò e allo sprizzo della prima scintilla di colpo gli comparve davanti il cane con gli ochi grandi come tezine da tè. "Cosa comandi, mio signore!"disse la bestia. Il soldato, sbalordito, balbettò: "...portami tanti soldi!" Un attimo dopo il grosso cane era di ritorno, serrando fra i denti un sacco di monete. Il soldato buttò all'aria il cappello gridando: "Evviva! Sono ricco!" Poi continuò a sfregare l'acciarino e ogni volta il cane tornava con altre monete. Quando poi l'acciarino fu sfregato due volte di seguito, arrivò il cane con gli occhi come macine di mulino, carico di monete d'argento, mentre quello che portava monete d'oro comparve strofinando tre volte. Di nuovo ricco, il soldato ricominciò a fare una vita da gran signore. Durante un ricevimento a palazzo reale, venne a sapere che il Re, credendo a una profezia che destinava la bellissima figlia a sposare un semplice soldato, non permetteva a nessuno di avvicinarla.

Quella sera, tornato in albergo, sfregò l'acciarino formulando un nuovo desiderio: "Portami la Principessa, anche solo per un momento!" Aveva appena pronunciato queste parole che il cane tornò con la bellissima fanciulla addormentata. Il soldato non poté fare a meno di baciarla e la mattina dopo la ragazza raccontò ai genitori di aver sognato quanto invece era realmente accaduto. La madre, insospettita, corse subito ai ripari e una dama di corte fu incaricata di vegliare notte e giorno sulla giovane. La sera dopo, il cane era tornato a prendere la Principessa fu visto e, dato l'allarme, al suo ritorno venne studiato uno stratagemma per sapere dove veniva portata la giovane. La dama della Regina si procurò un sacchetto di semola con cui riempì l'orlo della gonna della Principessa: la polvere uscita da un buco rivelò dove veniva portata. All'alba il soldato, scoperto, fu subito arrestato e condannato all'impiccagione! In prigione il soldato aspettava tranquillo l' ora dell'esecuzione. Il giorno fissato, una gran folla si era radunata intorno al patibolo e quando il condannato arrivò, un mormorio si alzò: "Poverino! Muore per un bacio!". Il boia alzò il cappio verso il collo del soldato e questi ottenne come ultimo desiderio di poter fumare. Il giovane, messa in bocca la pipa, sfregò più volte l'acciarino. I tre cani comparvero per incanto. Il soldato dette un ordine e le tre belve si gettarono sulle guardie. Il Re, sbalordito di fronte al prodigio, dovette arrendersi e mormorò alla Regina: "Ecco che la profezia si avvera!"

Infatti il giovane soldato di lì a poco sposò la Principessa, e in quell'occasione l'acciarino fu sfregato ancora una volta per invitare anche i tre cani alla sontuosa cerimonia.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: Il compagno di viaggio 1 parte

Post n°28 pubblicato il 15 Luglio 2010 da dream.of_fable
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Il povero Giovanni era molto triste perché suo padre era gravemente malato e presto sarebbe morto. Non c'era nessun altro nella stanza oltre a loro due, la lampada sul tavolo si stava spegnendo, e era già sera tardi. «Sei stato un bravo figlio, Giovanni!» disse il vecchio «il Signore ti sarà d'aiuto in questo mondo!» e lo guardò con uno sguardo dolce e serio, poi respirò profondamente e morì; era come se dormisse.

Giovanni pianse, ora non aveva più nessuno al mondo, né padre né madre, né sorelle né fratelli. Povero Giovanni! Rimase inginocchiato accanto al letto e baciò la mano del padre morto, pianse molte lacrime, ma alla fine gli si chiusero gli occhi e lui si addormentò con la testa sulla dura asse del letto. Fece uno strano sogno: vide che il sole e la luna si inchinavano davanti a lui, vide suo padre ancora vivo e sano e lo sentì ridere, come faceva sempre quando era divertito. Una graziosa fanciulla, con una corona d'oro posata sui bei capelli, tese la mano verso Giovanni, e suo padre esclamò: «Vedi la sposa per te? È la più bella del mondo». Poi si svegliò e tutta quella meraviglia era svanita, suo padre giaceva gelido e senza vita nel letto e non c'era nessun altro; povero Giovanni!

La settimana dopo il morto venne seppellito; Giovanni camminava proprio dietro la bara, ormai non poteva più vedere il buon padre che gli aveva voluto così bene; sentì che gettavano la terra sulla bara, ne vide un ultimo angolo, ma alla successiva palata di terra anche questo sparì. Era tanto addolorato che gli sembrava che il cuore gli scoppiasse. Tutt'intorno cantavano un salmo, risuonava così dolce che a Giovanni vennero le lacrime agli occhi; pianse e questo gli fece bene. Il sole brillava tra i verdi alberi e pareva volesse dire: “Non devi essere così addolorato, Giovanni! Vedi com'è bello il cielo! Tuo padre è ormai lassù e prega il buon Dio che tutto ti vada bene!” “Voglio restare sempre buono!” disse Giovanni “così anch'io andrò da mio padre e sarà una gioia quando ci rivedremo di nuovo. Quante cose avrò da raccontargli, e lui mi mostrerà tante cose, mi insegnerà tutte le bellezze del cielo, come mi aveva insegnato sulla terra. Oh! sarà proprio una gioia!”. Giovanni immaginò tutto con tanta chiarezza che si ritrovò a sorridere, mentre le lacrime gli scorrevano ancora lungo le guance. Gli uccellini stavano appollaiati sui castagni e cinguettavano, erano contenti anche se erano a un funerale; sapevano che il defunto era ormai su nel cielo, aveva le ali, ali molto più belle e robuste delle loro, e era felice, perché era stato buono sulla terra. Per questo erano contenti. Giovanni li vide volar via dai verdi rami lontano verso il mondo e venne anche a lui voglia di volar via con loro. Prima però tagliò una grande croce di legno da mettere sulla tomba di suo padre e, quando alla sera la portò al cimitero, la tomba era stata ricoperta di sabbia e di fiori. Erano stati certo degli estranei che avevano voluto bene a suo padre, ormai morto. La mattina dopo, molto presto, Giovanni preparò le sue poche cose e nascose nella cintura tutta la sua eredità, cinquanta talleri e poche monete d'argento; con quelli voleva andare per il mondo. Ma prima andò al cimitero, alla tomba di suo padre, recitò il Padre Nostro e disse: «Addio, caro padre! Voglio essere sempre buono, così tu potrai pregare il buon Dio affinché tutto mi vada bene!»

Nei campi che Giovanni attraversava c'erano bei fiori freschi, illuminati dal sole, che si piegavano al vento come per dire: “Benvenuto nel verde! Non è bello qui?”. Ma Giovanni si voltò ancora una volta per vedere la vecchia chiesa dove da piccolo era stato battezzato, dove ogni domenica era andato col padre e aveva cantato i salmi. Vide così, proprio in cima al campanile, in una fessura, il folletto della chiesa, col suo cappellino rosso a punta: lo teneva sollevato per ripararsi dal sole. Giovanni gli fece un cenno di saluto e il folletto agitò il cappellino rosso, posò una mano sul cuore e gli mandò con le dita tanti baci, per mostrargli quanta fortuna gli augurava e perché facesse un buon viaggio. Giovanni pensò a quante meraviglie avrebbe ora visto nel grande e splendido mondo, e se ne andò lontano, lontano dove non era mai stato prima; non conosceva le città che attraversava, e neppure le persone che incontrava; era circondato da estranei. La prima notte dormì su un mucchio di fieno, non aveva altro giaciglio. Ma gli andò bene ugualmente, anzi pensò che il re non ne aveva certo uno migliore. Il campo, col ruscello, il mucchio dl fieno e il cielo azzurro, era proprio una bella stanza da letto. L'erbetta verde con i fiorellini rossi e bianchi faceva da tappeto, i cespugli di sambuco e le siepi di rose selvatiche erano i mazzi di fiori, e come catino d'acqua c'era il ruscello intero con la sua acqua fresca e trasparente, dove le canne si piegavano dicendo buon giorno e buona sera. La luna fungeva da grande lampada, appesa in alto al soffitto blu, e non appiccava fuoco alle tendine. Giovanni poteva dormire tranquillo e così infatti fece, si svegliò quando il sole si levò in cielo e tutti gli uccellini si misero a cantare: “Buon giorno! Buon giorno! Non sei ancora alzato?” Le campane col loro rintocco invitavano la gente in chiesa, era domenica. Tutti andarono a sentire il pastore e Giovanni li seguì, cantò il salmo e ascoltò la parola di Dio. Gli sembrò di essere nella sua chiesa, dove era stato battezzato e dove aveva cantato i salmi con suo padre. Nel cimitero c'erano molte tombe e su alcune l'erba cresceva alta. Allora Giovanni pensò alla tomba di suo padre, che sarebbe diventata come quelle, poiché lui non poteva più ripulirla dalle erbacce né curarla. Così si mise a strappare l'erba, rialzò le croci di legno che erano cadute e rimise a posto le corone che il vento aveva spostato dalle tombe, e intanto pensava che forse qualcuno avrebbe fatto lo stesso alla tomba di suo padre, ora che non poteva farlo lui. All'ingresso del cimitero c'era un vecchio mendicante, che si reggeva con una stampella: Giovanni gli diede le monete d'argento che aveva con sé e se ne ripartì felice per il vasto mondo.

Verso sera venne un tempo spaventoso, Giovanni si affrettò perché voleva trovare un rifugio, ma in un attimo fu buio pesto; infine raggiunse una chiesetta che si trovava tutta sola in cima a un'altura, la porta era socchiusa e così egli si infilò dentro: ci sarebbe rimasto finché il brutto tempo fosse passato. “Mi metterò qui in un angolo” pensò “sono proprio stanco e ho bisogno di riposarmi”. Sedette, giunse le mani e recitò la preghiera della sera, e prima ancora di accorgersene, stava già dormendo e sognava, mentre fuori lampeggiava e tuonava. Quando si risvegliò era ancora notte, ma il brutto tempo era passato, ora la luna lo illuminava attraverso la finestra. In mezzo alla chiesa c'era una bara aperta, con dentro un morto, che non era stato ancora seppellito. Giovanni non era affatto spaventato, perché aveva la coscienza tranquilla; sapeva che i morti non fanno del male; sono i vivi, i cattivi, che fanno del male. E proprio due persone, vive e cattive, si trovavano vicine al morto e volevano fare del male, lo volevano togliere dalla bara e gettare fuori dalla chiesa; povero morto! «Perché volete farlo?» chiese Giovanni. «È male! Lasciatelo in pace nel nome di Gesù!» «Oh! Quante storie!» risposero i due malvagi. «Ci ha imbrogliato! Ci doveva dei soldi, e non poté pagarli e adesso per di più è morto, così non avremo più neppure un soldo. Per questo ci vogliamo vendicare, e lui giacerà come un cane fuori dalla chiesa!» «Ho solo 50 talleri» disse Giovanni «è tutta la mia eredità, ma ve li darò volentieri se mi prometterete sinceramente che lascerete in pace quel povero morto. Io ce la farò anche senza quei soldi, ho un fisico forte e sano e il Signore mi aiuterà.» «Va bene» risposero i malvagi «se proprio vuoi pagare il suo debito, non gli faremo niente, puoi stare certo» e presero i soldi che Giovanni offriva, ridendo sguaiatamente della sua bontà, poi se ne andarono. Giovanni ricompose il cadavere nella bara, gli giunse le mani, disse addio e si avviò felice nel grande bosco. Tutt'intorno, dove la luna splendeva tra gli alberi, vide i graziosi elfi giocare e divertirsi in libertà; non si sentivano disturbati perché sapevano che lui era una persona senza colpe, solo le persone cattive non riescono a vedere gli elfi. Alcuni non erano più alti di un dito e avevano i lunghi capelli biondi raccolti con dei pettini dorati; a due a due si dondolavano sulle grosse gocce di rugiada che si trovavano sulle foglie e tra l'erba alta. A volte la goccia scendeva giù, così anche loro cadevano tra i lunghi fili d'erba, e le altre creaturine ridevano facendo un gran chiasso. Com'era divertente! Cantavano e Giovanni conosceva molto bene tutte quelle belle canzoni, che aveva imparato da bambino. Grossi ragni variopinti con una corona d'argento in testa tessevano da un cespuglio all'altro i lunghi ponti pensili e palazzi che, quando cadeva la rugiada, brillavano al chiaro di luna come fossero di vetro. Tutto questo durava finché non sorgeva il sole. Allora i piccoli elfi rientravano nei boccioli dei fiori e il vento portava via i loro ponti e i loro castelli, che si agitavano all'aria come grosse ragnatele. Giovanni era uscito dal bosco quando una possente voce gridò: «Salve, compagno! Dove sei diretto?» «Per il mondo!» rispose Giovanni. «Non ho più né padre, né madre, sono un povero ragazzo, ma il Signore mi aiuterà.» «Anch'io sto andando per il mondo» esclamò lo straniero. «Potremmo proseguire insieme.» «Certo» rispose Giovanni, e così si unirono. Dopo breve tempo erano già molto affiatati, perché erano entrambi due brave persone. Ma Giovanni notò che lo straniero era molto più intelligente di lui, aveva già viaggiato per quasi tutto il mondo e sapeva raccontare di tutte le cose esistenti.

Il sole era già alto quando sedettero sotto un grosso albero per fare colazione; in quel mentre giunse una vecchia. Era proprio vecchia e camminava tutta curva, si appoggiava a una stampella e portava sulla schiena un fascio di legna da bruciare, che aveva raccolto nel bosco. Il grembiule era sollevato e Giovanni vide che sotto c'erano tre grosse verghe di salice e felce intrecciate. Quando ormai era vicinissima a loro, le scivolò un piede; cadde gridando forte, perché si era rotta la gamba, quella povera vecchia. Giovanni disse subito che dovevano portarla a casa, ma lo straniero aprì il suo fagotto, tirò fuori un barattolo e spiegò che aveva un unguento che le avrebbe subito guarito la gamba, così sarebbe potuta andare a casa da sola, proprio come se non se la fosse mai rotta. Ma pretendeva che lei gli desse le tre verghe che aveva sotto il grembiule. «È un buon prezzo!» commentò la vecchia e fece un cenno strano con la testa. Non era contenta di separarsi dalle sue verghe, ma non era certo piacevole starsene con una gamba rotta. Così gli diede le verghe e non appena l'unguento venne spalmato sulla gamba, la vecchia si rialzò e poté camminare meglio di prima. L'unguento aveva questo potere, ma non era certo qualcosa che si potesse trovare in farmacia! «Cosa vuoi fartene delle verghe?» chiese Giovanni al suo compagno di viaggio. «Sono tre bei manici di scopa, e mi piacciono: sono un tipo strano, io.» Poi proseguirono un altro tratto. «Che tempo si prepara!» disse Giovanni indicando proprio davanti a loro. «Ci sono nuvole terribilmente cariche di pioggia.» «No!» spiegò il compagno di viaggio. «Non sono nuvole, sono montagne. Belle e alte montagne, su cui si sta sopra le nuvole, nell'aria fresca. È proprio splendido, credimi. Domani saremo certamente là.» Non era però vicino come sembrava; ci volle tutto un giorno di cammino prima che arrivassero alle montagne. Là i boschi scuri crescevano proprio verso il cielo, e le pietre erano grosse come villaggi interi. Sarebbe certo stata una bella fatica arrivare fino in cima: Giovanni e il compagno di viaggio si fermarono in una locanda per riposarsi e raccogliere le forze per la camminata dell'indomani. Nel salone della locanda c'erano molte persone perché un uomo faceva il teatro delle marionette. Aveva già preparato il teatro e la gente s'era seduta intorno per vedere lo spettacolo; davanti a tutti sedeva un vecchio e grosso macellaio, che si era assicurato il posto migliore. Il suo grosso mastino – oh! che aspetto feroce! – gli stava seduto accanto e faceva tanto d'occhi, come tutti gli altri.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: Storia di una madre

Post n°27 pubblicato il 14 Luglio 2010 da dream.of_fable
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Una madre sedeva accanto al suo bambino, era molto triste e temeva che morisse. Era così pallido, con gli occhietti chiusi, respirava a fatica e ogni tanto tirava un sospiro, ansimante quasi un gemito; la madre lo guardava allora col cuore ancora più addolorato. Bussarono alla porta e entrò un povero vecchio, avvolto in una grande coperta di quelle che si mettono di solito sui cavalli e che teneva molto caldo, e proprio di questo lui aveva bisogno, perché era un inverno rigido: fuori tutto era coperto di neve e di ghiaccio e il vento soffiava da tagliare il viso. Il vecchio tremava per il freddo, e poiché il bambino si era assopito un momento, la madre andò a mettere della birra sulla stufa, affinché si scaldasse e potesse riscaldare il vecchio mentre lui cullava il bambino, poi gli sedette accanto, guardò i bambino malato che respirava a fatica, e gli sollevò una manina. "Credi che lo perderò?" chiese. "Il Signore non vorrà togliermelo!" Il vecchio, che era la morte in persona, fece un cenno molto strano che poteva significare sì o no. La madre abbassò lo sguardo e le lacrime le scorsero lungo il viso; la testa le si appesantì; per tre giorni e tre notti non aveva chiuso occhio e ora si assopì, ma solo per un istante, poi sussultò, con un brivido di freddo. "Che è successo?" esclamò guardando da ogni parte. Il vecchio se n'era andato, e anche il suo bambino era sparito; il vecchio l'aveva portato via con sé. Dall'angolo giungeva il tic-tac dell'orologio, poi il grande pendolo rotolò sul pavimento, bum! e anche l'orologio si fermò. La povera madre si precipitò fuori casa chiamando il suo bambino. Là fuori, nella neve, si trovava una donna con un lungo abito nero che le disse: "La morte è stata a casa tua, l'ho vista uscire di corsa col tuo bambino; va più veloce del vento e non riporta mai quello che ha preso!". "Dimmi da che parte è andata!" implorò la madre "dimmi la direzione e io la troverò." "Io la conosco!" rispose la vecchia vestita di nero "ma prima che te lo dica, devi cantare per me tutte le canzoni che hai cantato al tuo bambino! Mi piacciono molto, le ho già sentite perché io sono la notte, e ho visto le tue lacrime mentre le cantavi!" "Te le canterò tutte, tutte!" rispose la madre "ma non mi fermare ora, devo raggiungerli, devo trovare mio figlio!" Ma la notte rimase muta e immobile, e la madre, torcendosi le mani, cantò e pianse; erano molte le canzoni, ma erano molte di più le lacrime! Infine la notte disse: "Vai a destra e inoltrati nel buio bosco di abeti, lì ho visto dirigersi la morte col tuo bambino".

Nel bosco le strade si incrociavano e la povera donna non seppe più da che parte andare; vide un rovo, senza più fiori né foglie, perché era inverno, e dai rami pendevano soltanto ghiaccioli. "Hai forse visto passare la morte e il mio bambino?" "Sì" rispose il rovo "ma non ti dirò da che parte sono andati se non mi riscalderai sul tuo cuore! Sto morendo di freddo e sono tutto gelato!". E lei strinse forte al petto il rovo, affinché questo si riscaldasse; le spine le penetrarono nella carne e da lì sgorgarono grosse gocce di sangue, ma al rovo spuntarono in quella gelida notte invernale nuove foglioline verdi e sbocciarono fiori; tanto ardeva il cuore di quella madre in pena! Il rovo le indicò poi la strada. Lei giunse a un grande lago, dove non c'erano né navi né barche. Il lago non era gelato tanto da poterla reggere, ma neppure era tanto basso che potesse attraversarlo a guado pure doveva attraversarlo, se voleva ritrovare il suo bambino. Allora si chinò per bere tutta l'acqua del lago; non era una cosa possibile per un essere umano, ma poteva sempre avvenire un miracolo. "No, è impossibile!" le disse il lago "cerchiamo invece di metterci d'accordo. Io colleziono perle e i tuoi occhi sono le perle più lucenti che abbia mai visto. Se piangerai tanto da farli cadere dentro di me, ti porterò sull'altra riva, alla grande serra dove la morte abita e coltiva alberi e piante; ognuno di loro è una vita umana." "Oh, cosa non darei per raggiungere mio figlio!" esclamò la madre piangendo, e pianse finché gli occhi caddero nel lago trasformandosi in due perle preziose. Il lago allora la sollevò, e a lei sembrò di essere in altalena, e volò in un colpo solo fino all'altra riva, dove si trovava una dimora molto strana che si estendeva per miglia e miglia e non si capiva se era una montagna con boschi e grotte, o se era stata edificata ma la povera madre non poté vederla, perché non aveva più gli occhi per il gran piangere. "Dove posso trovare la morte, che s'è presa il mio bambino?" chiese la madre. "Qui non è ancora arrivata" rispose la vecchia becchina che faceva la guardia alla grande serra della morte. "Come hai fatto a arrivare fin qui, chi ti ha aiutato?" "Il Signore mi ha aiutata!" rispose la madre. "Egli è misericordioso e siilo anche tu: dove posso trovare il mio bambino?" "Io non lo conosco" rispose la donna "e tu non ci vedi! Molti fiori e molte piante sono appassiti questa notte e la morte arriverà presto per trapiantarli. Tu sai che ogni essere umano ha il suo albero della vita o il suo fiore, a seconda di come ciascuno è fatto. Apparentemente sono come le altre piante della natura, ma hanno un cuore che batte. Anche il cuore dei bambini batte! Ascoltali! Forse saprai riconoscere quello di tuo figlio. Ma che cosa mi dai, perché ti dica che altro devi fare?" "Non ho nulla da darti" disse la madre afflitta "ma andrei in capo al mondo per te!" "No, non ho nulla da fare là!" rispose la donna "ma mi puoi dare i tuoi lunghi capelli neri. Tu stessa sai quanto sono belli e a me piacciono! Avrai i miei capelli bianchi in cambio. È sempre qualcosa!" "Se non desideri altro" le rispose la madre" te li do con gioia!" e così le diede i suoi bei capelli neri e ricevette quelli della vecchia, bianchi come la neve. Entrarono nella grande serra della morte, dove fiori e piante crescevano mescolati in modo strano. C'erano sottili giacinti sotto campane di vetro e c'erano peonie grosse e robuste; crescevano piante acquatiche, alcune molto fresche, altre un pò malate; vi si appoggiavano le bisce acquatiche, e i granchi neri ne afferravano gli steli. C'erano splendide palme, platani e querce, piantine di prezzemolo e di timo fiorito; ogni albero e ogni fiore aveva il suo nome e ognuno rappresentava una vita umana, una persona ancora in vita, in Cina, in Groenlandia, in tutto il mondo. C'erano grandi piante in vasi molto piccoli, che soffocavano e sembrava che stessero per spezzare il vaso, c'erano anche da molte parti piccoli fiori insignificanti piantati nella terra, circondati dal muschio, ben custoditi e curati. La madre afflitta si chinava sulle piante più piccole e ascoltava il loro cuore che batteva, e tra milioni di cuori riconobbe quello del suo bambino. "È questo!" gridò, e tese la mano verso un piccolo croco azzurro, debolmente piegato da un lato. "Non toccare il fiore!" gridò la vecchia "mettiti qui e quando la morte arriverà, e sarà qui tra poco, impediscile di strappare la pianta minacciando di strappare tutti gli altri fiori. Avrà paura, perché ne risponde davanti al Signore, e nessuno può sradicarli senza il suo permesso."

Improvvisamente soffiò un'aria gelida per il salone e la madre cieca capì che la morte stava arrivando. "Come hai fatto a arrivare fin qui?» le chiese "come hai potuto arrivare prima di me?" "Sono una madre!" rispose lei. E la morte tese la sua lunga mano verso quel fiorellino delicato, ma lei vi tenne sopra le mani sfiorandolo quasi e temendo di toccare uno solo dei suoi petali. Allora la morte soffiò su quelle mani, e lei sentì che era ben più fredda del vento gelato, e le sue mani ricaddero inerti. "Tu non puoi nulla contro di me!" disse la morte. "Ma lo può il Signore!" rispose la madre. "Io faccio ciò che Lui vuole!" replicò la morte. "Io sono il suo giardiniere! Colgo tutte le sue piante e i suoi fiori e li ripianto nel grande giardino del paradiso, in una terra sconosciuta, ma non oso raccontarti come vi crescano e come sia il luogo." "Rendimi mio figlio!" supplicò la madre piangendo, e improvvisamente afferrò due bei fiori che si trovavano lì vicino e gridò alla morte: "Strapperò tutti i tuoi fiori! Sono disperata!". "Non toccarli!" disse la morte. "Dici di essere infelice e ora vuoi rendere un'altra madre altrettanto infelice?" "Un'altra madre?" chiese la povera donna, lasciando immediatamente i due fiori. "Ecco i tuoi occhi, li ho ripescati dal lago" disse la morte "splendevano lucentissimi, ma non sapevo che fossero tuoi. Riprendili, ora vedrai meglio di prima; guarda nel pozzo profondo qui vicino: io chiamerò per nome i due fiori che tu volevi strappare, così potrai vedere il loro futuro, la loro vita di uomini; guarda quello che volevi turbare e distruggere!" La madre guardò nel pozzo; era una gioia osservare come uno dei fiori diventasse una benedizione per il mondo, e quanta gioia e felicità si spandesse intorno a lui. Poi guardò la vita dell'altro fiore, e era solo dolore e miseria, orrore e infelicità. "Entrambi sono volontà di Dio!" commentò la morte. "Quali dei due fiori è quello dell'infelicità e quale quello della benedizione?" chiese la madre. "Non te lo dico" rispose la morte "ma sappi che uno dei due fiori è quello di tuo figlio; hai visto il destino di tuo figlio, il suo futuro!" La madre gridò di terrore: "Quale dei due era mio figlio? Dimmelo! Salva l'innocente! Salva mio figlio da tutta quella miseria! Portalo via, piuttosto! Portalo nel regno di Dio! Dimentica le mie lacrime, dimentica le mie preghiere e tutto quello che ho detto e fatto!". "Non ti capisco!" disse la morte "vuoi riavere tuo figlio oppure devo portarlo nel paese che ti è sconosciuto?" La madre si gettò in ginocchio e, torcendosi le mani, pregò il Signore: "Non ascoltarmi, se prego contro la tua volontà, che è la migliore! Non ascoltarmi! Non ascoltarmi!". E piegò il capo in grembo. La morte se ne andò col bambino in quel paese sconosciuto.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: Il piccolo Claus e il grande Claus

Post n°26 pubblicato il 11 Luglio 2010 da dream.of_fable
Foto di dream.of_fable

C'erano una volta in un villaggio due uomini con lo stesso nome, entrambi si chiamavano Claus, ma uno possedeva quattro cavalli, l'altro ne possedeva solo uno, quindi, per poterli distinguere, quello coi quattro cavalli veniva chiamato grande Claus e quello che aveva solo un cavallo piccolo Claus. Adesso sentiamo come se la passavano, perché questa è una storia vera.

Per tutta la settimana il piccolo Claus doveva arare il campo del grande Claus e gli prestava il suo unico cavallo, poi il grande Claus lo aiutava con i suoi quattro cavalli, ma questo avveniva solo una volta alla settimana e precisamente di domenica. Hup! Come agitava il piccolo Claus la frusta sui cinque cavalli; quel giorno era come se fossero tutti suoi! Il sole splendeva così bello e le campane della chiesa suonavano a festa, la gente era ben vestita e si avviava col libro dei salmi sottobraccio per sentire la predica del pastore e vedeva il piccolo Claus che arava con i cinque cavalli e era così contento che agitava la frusta gridando: "Hup, cavalli miei!" "Questo non lo devi dire" gli disse il grande Claus "perché solo uno del cavalli è tuo."  Ma passò ancora qualcuno che andava in chiesa, e il piccolo Clausdimenticò che non doveva dirlo e gridò ancora: "Hup cavalli miei!". "Ti chiedo di smetterla" gli disse il grande Claus. "Se lo dici ancora una volta, colpisco il tuo cavallo alla fronte così che cada morto all'istante: almeno è finita con lui." "Non lo dirò più" replicò il piccolo Claus, ma quando passò dell'altra gente che lo salutò, fu molto contento al pensiero che era così evidente che possedeva cinque cavalli per arare il campo; quindi agitò la frusta e gridò. "Hup, cavalli miei!" "Li incito io i tuoi cavalli" disse il grande Claus e prese il maglio e colpì sulla fronte l'unico cavallo del piccolo Claus, che cadde a terra morto.

"Ahimè, adesso non ho più cavalli!" esclamò il piccolo Claus e cominciò a piangere. Poi spellò il cavallo, prese la pelle, la lasciò seccare al vento, la mise in un sacco che si gettò sulle spalle e andò in città per vendere la pelle del suo cavallo. La strada da percorrere era molto lunga, si doveva attraversare un enorme bosco buio e improvvisamente venne brutto tempo; il piccolo Claus vagò per qualche tempo e quando finalmente ritrovò la strada giusta era già sera e si trovava troppo lontano sia per arrivare in città, sia per tornare a casa prima che venisse la notte. Vicino alla strada c'era una grande casa di campagna, le persiane erano chiuse, ma la luce filtrava fuori. “Avrò sicuramente il permesso di passare la notte qui” pensò il piccolo Claus, e andò a bussare.

La padrona di casa aprì la porta, ma una volta saputo cosa voleva, disse che se ne doveva andare, perché suo marito non era in casa e lei non poteva ospitare sconosciuti. "D'accordo, allora mi sdraierò qui fuori" disse il piccolo Claus, e la donna gli chiuse la porta in faccia. Lì vicino c'era un grande mucchio di fieno e tra questo e la casa avevano fatto un deposito con un tetto di paglia. “Posso sdraiarmi lassù” pensò il piccolo Claus quando vide il tetto “è un ottimo letto, purché la cicogna non venga a beccarmi le gambe.” Infatti c'era una cicogna col suo nido proprio sopra il tetto. Così il piccolo Claus si arrampicò sul tetto, si sdraiò e si girò per stare proprio comodo. Le persiane davanti alle finestre non coprivano la parte più alta, così egli poteva vedere nel soggiorno. C'era un grande tavolo apparecchiato con vino e arrosto e con uno splendido pesce, la padrona di casa e il sacrestano sedevano a tavola, e non c'era nessun altro; la donna gli riempiva il bicchiere e lui si serviva il pesce, perché era una pietanza che gli piaceva molto. “Beato chi lo può mangiare!” pensò il piccolo Claus e avvicinò la testa alla finestra. Dio mio, che meravigliosa torta riusciva a vedere lì dentro! Sì, era una bontà! Sentì che qualcuno cavalcava lungo la strada maestra verso la casa, era il marito della donna che tornava. Era un ottimo uomo, ma aveva un terribile difetto: non poteva sopportare la vista dei sacrestani. Se un sacrestano gli si presentava davanti, diventava furibondo. E proprio per questo il sacrestano era andato a salutare la donna perché sapeva che il marito non era in casa, e la brava donna aveva preparato tutto il cibo migliore per lui. Ma ora, sentendo che l'uomo stava rientrando, si spaventarono e la donna pregò il sacrestano di nascondersi in una grande cesta vuota che era lì in un angolo, e il sacrestano si nascose perché sapeva che quel pover'uomo non sopportava i sacrestani. La donna nascose tutto quel buon cibo e il vino nel forno, perché se il marito lo avesse visto avrebbe naturalmente chiesto per quale motivo l'aveva preparato. “Che peccato!” sospirò il piccolo Claus dal tetto, quando vide che tutto il cibo veniva portato via. "C'è qualcuno lassù?" chiese il contadino e guardò verso il piccolo Claus. "Perché stai li sdraiato? Vieni piuttosto in salotto." Così il piccolo Claus raccontò come si era perso e gli chiese se poteva restare lì per la notte. "Certamente" disse il contadino "ma prima dobbiamo mangiare qualcosa."

La donna accolse con gioia i due, apparecchiò la tavola e offrì un grande piatto di farinata. Il contadino era molto affamato e mangiò con appetito, ma il piccolo Claus non poteva fare a meno di pensare al delizioso arrosto, al pesce e alla torta che si trovavano nel forno. Sotto il tavolo, vicino ai suoi piedi, aveva messo il sacco con la pelle del cavallo; ricordate che stava andando in paese a venderla? La farinata non gli piaceva affatto, così mosse il sacco e la pelle secca scricchiolò forte. "Ssst!" disse il piccolo Claus al suo sacco, ma nello stesso momento lo colpì più forte e quindi questo scricchiolò più di prima. "Ah, che cosa hai in quel sacco?" gli chiese il contadino. "Oh, è un mago" disse il piccolo Claus "dice che non dovremmo mangiare la farinata, perché ha compiuto una magia e il forno ora è pieno di arrosto, pesce e torta." "Cosa?" chiese il contadino e aprì immediatamente il forno, dove poté vedere tutto quel buon cibo che la moglie aveva nascosto, ma che lui credeva fosse stato magicamente portato dal mago. La donna non poté dire nulla, ma portò il cibo in tavola e così mangiarono pesce, arrosto e torta. Il piccolo Claus colpìdi nuovo il sacco e la pelle scricchiolò. "Che cosa dice adesso?" chiese il contadino. "Dice" rispose il piccolo Claus "che ha anche preparato tre bottiglie di vino per noi e che si trovano nel forno."  Così la donna dovette tirar fuori il vino che aveva nascosto e il contadino bevve e divenne molto allegro, certo gli sarebbe proprio piaciuto possedere un mago come quello che il piccolo Claus aveva nel sacco. "Può anche far comparire il diavolo?" chiese il contadino "mi piacerebbe proprio vederlo, ora che sono così allegro!" "Sì" disse il piccolo Claus "il mio mago può fare tutto quello che io gli chiedo. Non è vero? Tu!" chiese, e colpì il sacco finché non scricchiolò. "Senti che dice di sì? Ma il diavolo è così brutto che non vale la pena di vederlo." "Oh, non ho affatto paura; e quale sarebbe il suo aspetto?" "Ah, apparirebbe esattamente come un sacrestano!" "Uh!" disse il contadino "è proprio brutto! Dovete sapere che io non sopporto la vista dei sacrestani. Ma ora non fa niente, so che è il diavolo e quindi mi sento già meglio. Adesso ho il coraggio; ma non mi deve venire troppo vicino." "Allora provo a sentire il mago" disse il piccolo Claus, colpì il sacco e tese l'orecchio. "Che cosa dice?" "Dice che potete andare a aprire quel baule che c'è nell'angolo, lì dentro troverete il diavolo che sta ammuffendo, ma dovete tenere il coperchio, affinché non scappi fuori." "Dovete aiutarmi voi a tenerlo" disse il contadino, e andò verso il baule, dove la moglie aveva nascosto il vero sacrestano, che ora stava morendo dl paura. Il contadino sollevò un po' il coperchio e guardò dentro: "Uh!" gridò, e fece un balzo indietro. "Sì, l'ho visto, ha proprio l'aspetto del nostro sacrestano – che spavento!"

Dovettero berci sopra e così bevvero tutta la notte. "Adesso mi devi vendere il tuo mago" disse il contadino "chiedimi in cambio tutto quello che vuoi. Ah sì, ti do immediatamente un sacco pieno di denaro." "No, non posso assolutamente; pensa quanti vantaggi posso avere da questo mago." "Ma io desidererei moltissimo averlo" disse il contadino e continuò a pregarlo. "Va bene" acconsentì alla fine il piccolo Claus "Tu sei stato così gentile a ospitarmi questa notte, e io te lo cedo. Avrai il mago per un sacco di denaro, ma il sacco dev'essere pieno fino all'orlo." "È quello che avrai" disse il contadino "ma devi portarti via anche il baule, perché non lo voglio avere qui un minuto di più; non si sa mai, se è ancora dentro!" Il piccolo Claus diede il sacco con la pelle secca al contadino e ricevette in cambio un sacco stracolmo di denaro.  Il contadino gli donò anche una grande carriola per trasportare il baule e il denaro. "Addio!" disse il piccolo Claus, e se ne andò col denaro e il baule in cui c'era ancora il sacrestano. Dall'altra parte del bosco c'era un grande e profondo torrente, l'acqua scorreva così forte che uno a malapena avrebbe potuto nuotare controcorrente; avevano costruito un nuovo grande ponte e il piccolo Claus si fermò proprio nel mezzo e disse a voce ben alta, affinché il sacrestano potesse sentirlo dal baule: "E no! Che cosa ne faccio di questo inutile baule? Pesa tanto che è come se fosse pieno di pietre; mi stancherei troppo a trascinarmelo ancora dietro; quindi è meglio che lo butti nel torrente. Se viene trasportato a casa mia tanto di guadagnato, altrimenti non ci perdo nulla." Così afferrò il baule con una mano e lo sollevò un po', come se volesse gettarlo in acqua. "No, lascia stare!" gridò il sacrestano dal baule "fammi uscire!" "Uh!" disse il piccolo Claus, fingendo di aver paura. "È ancora nel baule! allora è meglio che lo butti subito nel torrente, così annegherà." "Oh no! Oh no!" urlò il sacrestano. "Se mi lasci andare, ti darò un sacco pieno di denaro!" "Ah, allora è un'altra cosa!" disse il piccolo Claus e aprì il baule. Il sacrestano uscì subito e gettò il baule vuoto in acqua e se ne andò a casa sua, dove il piccolo Claus ricevette un sacco pieno di denaro. Uno l'aveva già avuto dal contadino e ora aveva la carriola piena di denari! “Visto, il cavallo me l'han pagato proprio bene!” disse a se stesso il piccolo Claus quando arrivò a casa sua e fece di tutti i soldi un grande mucchio in mezzo al pavimento. “Certo il grande Claus si arrabbierebbe molto venendo a sapere quanto sono diventato ricco col mio unico cavallo, ma non mi va di andare a dirgli la verità.” Così mandò un ragazzo dal grande Claus per farsi prestare un misurino. “Che cosa mai ci vuol fare!” pensò il grande Claus, e spalmò sul fondo del misurino un po' di catrame, affinché restasse appiccicato qualcosa di quello che veniva misurato. E fu proprio quello che accadde, e quando il grande Claus riebbe il misurino c'erano attaccate tre monete d'argento da otto scellini. "E questo che significa?" disse il grande Claus, e si precipitò immediatamente dal piccolo Claus. "Da dove vengono tutti questi soldi?" "Dalla pelle del mio cavallo, che ho venduto ieri sera." "Certo che te l'hanno pagata bene!" esclamò il grande Claus; corse a casa, prese una scure e colpì a morte i suoi quattro cavalli, poi tolse la pelle e andò in città. "Pelli, pelli! chi vuole comprare pelli?" gridava per le strade. Tutti i calzolai e i conciatori corsero da lui per sapere quanto voleva per le pelli. "Un sacco pieno di denari per ognuna." "Sei matto?" dissero tutti "credi che abbiamo tanti denari?" "Pelli, pelli! Chi vuol comprare pelli?" gridò di nuovo, ma a tutti coloro che chiedevano quanto costassero le pelli, rispondeva: "Un sacco di denari". "Ci vuol prendere in giro" dissero tutti e così i calzolai presero le loro cinghie di cuoio e i conciatori i loro grembiuli di cuoio e cominciarono a picchiare il grande Claus. "Pelli, pelli!" lo schernivano "te la diamo noi una pelle che ti si adatti! vattene dalla città!" gridarono, e il grande Claus dovette darsela a gambe a più non posso, perché non ne aveva mai prese tante. "Ah" disse una volta giunto a casa "adesso il piccolo Claus la deve pagare, lo pesterò a morte per questo."

Ma al piccolo Claus era morta la nonna; in realtà era stata cattiva con lui, ma ne era comunque addolorato e prese la morta e la mise nel letto ben caldo, per vedere se non riusciva a resuscitare. Sarebbe rimasta lì tutta la notte, e lui si sedette in un angolo e dormì su una sedia, come aveva del resto già fatto altre volte.

Mentre dormiva, la porta si aprì e il grande Claus entrò con la sua scure: sapeva bene dov'era il letto del piccolo Claus, andò direttamente lì e colpì in fronte la nonna che era già morta, pensando che fosse il piccolo Claus. "Ecco qua!" gridò "ora non mi prenderai più in giro!" e così se ne andò di nuovo. "È proprio un uomo malvagio e cattivo!" disse il piccolo Claus "mi voleva colpire a morte; per fortuna la vecchia nonna era già morta, altrimenti l'avrebbe uccisa lui." Vestì la nonna con gli abiti della festa, prese in prestito un cavallo dal vicino, lo attaccò al suo carro e mise la vecchia nonna sul sedile posteriore, perché non potesse cadere durante il viaggio; infine partirono passando per il bosco; quando il sole sorse, erano giunti a una locanda; lì si fermò il piccolo Claus e entrò per mangiare qualcosa. L'oste aveva moltissimi soldi e era un brav'uomo, ma era iracondo, come se in lui ci fosse pepe e tabacco. "Buon giorno" disse al piccolo Claus "hai avuto premura di indossare i vestiti belli oggi!" "Sì" rispose il piccolo Claus "devo andare in città con la nonna, lei è rimasta sul carro, non vuole assolutamente entrare. Non volete portarle un bicchiere di idromele? Parlatele a voce alta, perché non ci sente molto bene." "Certamente!" replicò l'oste e riempì un grande bicchiere di idromele, che portò fuori alla nonna morta che stava sulla carrozza. "Qui c'è un bicchiere di idromele da parte di vostro nipote!" disse l'oste, ma la morta non disse neanche una parola. "Non sentite?" gridò l'oste più che poté. "Ecco dell'idromele da parte di vostro nipote!"

Di nuovo gridò lo stesso e poi ancora, ma dato che lei non si muoveva affatto, si arrabbiò e le gettò il bicchiere in faccia, così che l'idromele le si versò sul naso e lei cadde riversa nel carro, perché non era stata legata saldamente. "Come!" gridò il piccolo Claus, si precipitò fuori e afferrò l'oste: "Hai ucciso mia nonna! Guarda che grande buco ha sulla fronte!". "Oh, è stata una disgrazia!" gridò l'oste e congiunse le mani. "È tutta colpa del mio caratteraccio! Povero piccolo Claus; ti darò un sacco di denaro e farò seppellire tua nonna come se fosse la mia, ma tu non devi dirlo a nessuno, perché altrimenti mi taglieranno la testa, e l'idea è così disgustosa!" Così il piccolo Claus ebbe un sacco di denari e l'oste seppellì la vecchia nonna come se fosse stata la sua. Non appena il piccolo Claus fu a casa con tutti quei soldi, mandò un ragazzo dal grande Claus, per farsi prestare il misurino. "Come?" esclamò il grande Claus "non l'avevo colpito a morte? Devo andare io stesso a controllare!" e così si recò dal piccolo Claus col misurino. "E dove hai ottenuto tutti questi soldi?" gli chiese, e sgranò gli occhi quando vide quanti altri soldi c'erano! "Tu hai ucciso mia nonna e non me!" disse il piccolo Claus. "Ora l'ho venduta e ne ho ricavato un sacco di denari."

"Ne vale proprio la pena!" disse il grande Claus; si affrettò a casa, prese la scure e uccise la nonna, poi la mise sul carro e andò in città a casa del farmacista e chiese se voleva comprare un cadavere. "Chi è e da dove arriva?" chiese il farmacista. "È mia nonna" rispose il grande Claus, "l'ho uccisa per un sacco di denari." "Dio ci salvi!" disse il farmacista, "Voi parlate troppo! Non dite una cosa simile, altrimenti perderete la testa!" e poi gli spiegò quale cosa terribile aveva commesso e che uomo cattivo era e che doveva essere punito; ma il grande Claus si impressionò talmente che saltò sul carro, frustò i cavalli e volò a casa. Il farmacista e gli altri credevano che fosse matto e lo lasciarono andare dove pareva a lui. "Me la pagherai!" disse il grande Claus una volta raggiunta la strada maestra. "Sì, me la dovrai pagare, piccolo Claus!" e non appena fu a casa prese il sacco più grande che aveva, si recò dal piccolo Claus e gli disse: "Mi hai preso in giro un'altra volta. Prima ho ucciso i miei cavalli, poi mia nonna e tutto per colpa tua, ma non mi ingannerai mai più!" e così lo prese per la cintola e lo cacciò nel sacco, se lo mise sulle spalle e gli gridò: "Adesso ti affogo". C'era un bel pezzo di strada prima di arrivare al torrente e il piccolo Claus non era tanto leggero da portare. La strada passava vicino alla chiesa, l'organo suonava e la gente cantava proprio bene, lì dentro; così il grande Claus appoggiò il sacco col piccolo Claus vicino all'ingresso della chiesa e pensò che era una buona cosa andare a sentire un salmo prima di proseguire. Il piccolo Claus non poteva certo fuggire e tutta la gente era in chiesa. Così entrò anche lui.

"Ah, ah!" gemeva il piccolo Claus chiuso nel sacco; continuava a rigirarsi, ma gli era impossibile sciogliere il nodo che lo legava. In quel mentre passò di lì un vecchio mandriano con i capelli bianchi come il gesso e un grosso bastone tra le mani, guidava una grande mandria di mucche e tori che, passando sul sacco dove il piccolo Claus era rinchiuso, lo rovesciarono. "Ah" gemette il piccolo Claus "sono così giovane e già devo andare in cielo!" "Oh, povero me!" disse il mandriano "io invece sono così vecchio, ma ugualmente non posso andarci ancora." "Apri il sacco" gridò il piccolo Claus "mettiti qui al mio posto e sarai subito in cielo." "Certo che mi piacerebbe molto" disse il mandriano e liberò il piccolo Claus che saltò fuori dal sacco. "Ci pensi tu alla mandria?" chiese il vecchio, e entrò nel sacco che il piccolo Claus legò di nuovo, poi il piccolo Claus se ne andò con le mucche e i tori.

Poco dopo uscì dalla chiesa il grande Claus e si mise il sacco sulla schiena; sentì che il sacco era più leggero, perché il mandriano pesava la metà del piccolo Claus. “Com'è leggero ora! forse perché ho sentito un salmo!” e così arrivò al torrente che era grande e profondo, e vi gettò il sacco col vecchio mandriano gridando: "Visto? ora non potrai più ingannarmi!"; pensava che dentro ci fosse il piccolo Claus. Poi se ne tornò a casa, ma quando giunse a un crocicchio, incontrò il piccolo Claus che stava guidando la mandria. "Ma come?" disse il grande Claus. "Non ti avevo affogato?" "Sì. Mi hai gettato nel torrente, ma era mezz'ora fa." "E dove hai ottenuto quella splendida mandria?" gli chiese il grande Claus. "È una mandria di mare!" spiegò il piccolo Claus, "Ora ti racconto com'è andata. E grazie a te, che mi hai annegato, adesso sto proprio bene, sono ricco, e lo puoi credere! Avevo molta paura, là nel sacco, e il vento mi fischiava nelle orecchie quando tu mi gettasti giù dal ponte nell'acqua gelida. Raggiunsi subito il fondo; ma non mi feci nulla, perché laggiù cresce l'erba più tenera. Vi caddi sopra e subito il sacco venne aperto, e la più graziosa delle creature, vestita di bianco con una corona verde sui capelli bagnati, mi prese per mano e mi disse: “Sei qui, piccolo Claus? Ora hai per la prima volta una mandria! e un miglio più in su ce n'è un'altra che io ti voglio donare”. Allora vidi che per la gente del mare il torrente era la strada maestra. Sul fondo andavano a piedi o in carrozza dal mare fino a dove il torrente finisce. Era così bello con i fiori e l'erba freschissima, e i pesci che nuotavano nell'acqua mi sfioravano le orecchie come fanno gli uccelli nell'aria. Che gente simpatica e quanto bestiame camminava lungo le siepi e i fossi!" "Ma perché allora te ne sei tornato quassù?" gli chiese il grande Claus. "Io non l'avrei fatto se laggiù fosse stato così bello!"

"Sì" rispose il piccolo Claus "ma sono stato furbo. Tu hai sentito quello che ti ho detto: la ragazza del mare disse che un miglio più su – dunque lungo il torrente, perché lei non può arrivare da altre parti – c'è un'altra mandria per me. Ma io so che il torrente è pieno di insenature, una qui, una là, è tutto un lungo giro, quindi è più veloce, quando si può fare, tornare sulla terra e attraversare il torrente; in questo modo risparmio quasi mezzo miglio e arrivo più in fretta alla mia mandria di mare." "Come sei fortunato!" disse il grande Claus. "Credi che anch'io avrei una mandria di mare, se arrivassi sul fondo del torrente?"

"Sì, credo di sì, ma io non riesco a portarti nel sacco fino al torrente, sei troppo pesante per me; se vai fin là da solo e poi ti infili nel sacco, ti butterò giù io con grande piacere." "Grazie infinite!" disse il grande Claus. "Ma se poi non avrò lamia mandria di mare, una volta giù, allora te ne buscherai tante! Ne puoi star certo." "Oh, no! non essere così cattivo!" e così andarono al torrente. E la mandria, che era assetata, non appena vide l'acqua corse più che poté per avere da bere. "Vedi come si affrettano?" disse il piccolo Claus. "Non vedono l'ora di raggiungere il fondo di nuovo." "Sì, ma ora aiutami, altrimenti ti pesto!" e così si infilò nel grande sacco che si trovava sulla schiena di un toro. "Mettici dentro anche una pietra, così sono sicuro di annegare." "Va bene così" rispose il piccolo Claus, ma mise ugualmente una grande pietra nel sacco, lo legò bene e diede una spinta: plump! il grande Claus cadde nel torrente e raggiunse subito il fondo.

"Temo proprio che non troverà mandrie!" esclamò il piccolo Claus, e si avviò verso casa con quello che aveva.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: La regina delle Nevi 7 e ultima parte

Post n°25 pubblicato il 09 Luglio 2010 da dream.of_fable
Foto di dream.of_fable

Settima Storia, Che cosa era successo nel castello della regina della neve e che cosa accadde in seguito.

 

Le pareti del castello erano formate dalla neve che cadeva, le finestre e le porte dai venti che soffiavano; c'erano più di cento saloni, secondo la forma che prendeva la neve caduta; il più grande si allungava per molte miglia, tutti erano illuminati dall'aurora boreale e erano grandi, vuoti, gelati, luminosi. L'allegria non arrivava mai, mai c'era stato un ballo di orsacchiotti dove la tempesta potesse intonare la musica, e gli orsi camminare sulle zampe posteriori e comportarsi in modo distinto, mai c'erano stati giullari che facessero ballare gli orsi polari; mai una riunione per bere il caffè con le bianche signore volpi, tutto era vuoto, enorme e gelato nelle sale della regina della neve. Le aurore boreali brillavano con tanta regolarità che si poteva addirittura calcolare quando brillavano della luce più potente e quando della luce più debole. Proprio in mezzo a una sala di neve vuota e enorme si trovava un lago ghiacciato; era infranto in mille pezzi, ma ogni pezzo era identico all'altro, e era una vera opera d'arte. Proprio lì sopra stava seduta la regina della neve quando era a casa, così diceva che sedeva sullo specchio dell'intelligenza, e che quello era l'unico e il miglior posto del mondo. Il piccolo Kay era viola per il freddo, anzi quasi nero, ma non se ne accorgeva, perché lei con un bacio gli aveva tolto il brivido del freddo, e il suo cuore era come un grumo di ghiaccio. Stava trafficando intorno a alcuni pezzi di ghiaccio lisci e appuntiti, che deponeva in tutti i modi possibili, perché ne voleva ricavare qualcosa, un po' come quando noi abbiamo dei pezzettini di legno e li mettiamo insieme per formare delle figure: quello che si chiama il gioco cinese. Anche Kay faceva varie figure, le più perfette, era il gioco di ghiaccio dell'intelligenza; ai suoi occhi le figure erano meravigliose e molto importanti, e questo per merito del granellino di vetro che aveva nell'occhio! Poi realizzava delle figure che erano delle parole scritte, ma non riusciva mai a comporre la parola che lui voleva, «eternità», e la regina della neve gli aveva detto: "Se riuscirai a comporre quella parola, diventerai signore di te stesso, e io ti regalerò il mondo intero e un paio di pattini nuovi". Ma lui non riusciva. "Ora devo andare nei paesi caldi" disse la regina della neve, "devo andare a guardare nelle mie pentole nere." Erano le montagne che gettano il fuoco, l'Etna e il Vesuvio, come si chiamano. "Devo imbiancarle un pò! È ora ormai. E la neve sta molto bene sui limoni e sulle viti!" Così la regina della neve volò via. Kay rimase tutto solo in quelle grandissime e gelide sale vuote a guardare i suoi pezzi di ghiaccio continuando a pensare finché la testa quasi non gli scoppiava; restava rigido e immobile, tanto da sembrare morto assiderato. Fu in quel momento che la piccola Gerda entrò nel castello attraverso il grande portone, fatto di vento tagliente, ma lei recitò la preghiera della sera e il vento si calmò, come volesse dormire, così lei entrò in quelle sale gelide, vuote e enormi. Allora vide Kay, lo riconobbe, e gli saltò al collo, lo abbracciò stretto e gridò: "Kay! Dolce piccolo Kay! Finalmente ti ho trovato!". Ma lui rimase immobile, rigido e gelido; allora la piccola Gerda pianse calde lacrime, che gli caddero sul petto, gli entrarono nel cuore, sciolsero il grumo di ghiaccio e corrosero il pezzettino di specchio che si trovava dentro; Kay la guardò e lei cantò l'inno:

Le rose crescono nelle valli,
laggiù parleremo con Gesù Bambino!

Allora Kay scoppiò in lacrime; pianse tanto che il granellino di specchio gli uscì dagli occhi, lui riconobbe la fanciulla e esultò di gioia: "Gerda, dolce piccola Gerda! Dove sei stata tutto questo tempo? E dove sono stato io?" e si guardò intorno. "Che freddo fa qui! Com'è tutto vuoto e enorme!" E abbracciò forte Gerda, e lei rise e pianse di gioia, era così bello che persino i pezzi di ghiaccio si misero a danzare di gioia intorno a loro, e quando furono stanchi si fermarono, formando proprio quelle lettere che la regina della neve aveva detto a Kay di comporre, per poter diventare signore di se stesso e ottenere da lei tutto il mondo e un paio di pattini nuovi. Gerda gli baciò le guance, e queste ripresero colore, poi gli baciò gli occhi, che luccicarono come quelli di lei, poi gli baciò i piedi e le mani, e lui divenne vispo e sano. La regina della neve poteva pure tornare a casa: la lettera di addio stava scritta là con i pezzi di ghiaccio luccicanti. Allora si presero per mano e uscirono dal grande castello; parlarono della nonna e delle rose sul tetto; e dove loro camminavano i venti si placavano e il sole splendeva; quando raggiunsero il cespuglio con le bacche rosse trovarono la renna che li aspettava; c'era un'altra giovane renna con lei, con le mammelle gonfie: diede ai piccoli il suo latte e li baciò sulla bocca. Poi le due renne portarono Kay e Gerda prima dalla donna di Finlandia, dove si scaldarono nella calda stanza e dove si informarono sul viaggio di ritorno; quindi dalla donna della Lapponia, che aveva cucito per loro dei nuovi abitini e preparato una slitta. Allora le due renne si misero a saltare al loro fianco e li accompagnarono fino ai confini del paese, dove cominciava a spuntare la prima erbetta, e là i bambini salutarono le renne e la donna della Lapponia. "Addio!" dissero tutti. I primi uccellini cominciarono a cinguettare, il bosco era pieno di verdi gemme, e da li uscì cavalcando su un magnifico cavallo che Gerda conosceva (era stato attaccato alla carrozza d'oro) una fanciulla con un bel cappello rosso in testa e in mano le pistole; era la figlia del brigante, che, stanca di stare a casa, voleva andare prima verso Nord e poi, se non si fosse divertita, da qualche altra parte. Subito riconobbe Gerda e Gerda riconobbe lei; fu veramente una gioia! "Sei proprio un bel tipo a andare in giro per il mondo!" disse al piccolo Kay. "Mi piacerebbe sapere se meriti che la gente vada fino alla fine del mondo per te!" Ma Gerda le accarezzò la guancia e le chiese del principe e della principessa. "Sono partiti per una terra straniera" rispose la figlia del brigante. "E la cornacchia?" chiese la piccola Gerda. "Ah, la cornacchia è morta!" rispose quella. "La cornacchia domestica è diventata vedova e se ne va in giro con un pezzetto di lana nero intorno a una zampa; si lamenta in modo pietoso, ma sono tutte storie! Adesso raccontami tu piuttosto come ti è andata e come hai fatto a trovarlo." Gerda e Kay raccontarono insieme. "Oh, accidenti!" esclamò la figlia del brigante, strinse loro la mano e promise che se un giorno fosse passata per il loro paese sarebbe andata a trovarli; poi se ne cavalcò via nel vasto mondo, mentre Kay e Gerda s'incamminarono mano nella mano, e dove camminavano spuntava la bella primavera con i fiori e il verde; le campane della chiesa suonarono, e loro riconobbero le alte torri e la grande città. Era quella in cui abitavano: vi entrarono e camminarono fino alla porta della nonna, su per le scale, nella stanza dove tutto si trovava nello stesso modo di prima, e l'orologio diceva: "Tic! Tac!" e le lancette giravano; ma quando entrarono dalla porta si accorsero che erano diventati adulti. Le rose che si trovavano sulla grondaia e che erano fiorite entravano dalle finestre aperte e c'erano ancora i loro due seggiolini da bambini; Kay e Gerda sedettero ognuno sul proprio e si tennero per mano; avevano dimenticato, come fosse stato un brutto sogno, quel freddo vuoto splendore della regina della neve. La nonna si trovava nella chiara luce di Dio e leggeva a voce alta dal Vangelo: "Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli". Kay e Gerda si guardarono negli occhi, e improvvisamente capirono il vecchio inno:

Le rose crescono nelle valli,
laggiù parleremo con Gesù Bambino!

Stavano lì seduti, entrambi adulti, eppure bambini, bambini nel cuore, e era estate, la calda estate benedetta.

 
 
 

 

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