Creato da dream.of_fable il 24/06/2010

dream of fable

...Raccontami una fiaba... raccontami un sogno.

 

 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: Le scarpette rosse

Post n°14 pubblicato il 27 Giugno 2010 da dream.of_fable
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C'era una volta una bambina tanto graziosa e delicata, ma che d'estate andava in giro sempre a piedi nudi, perché era povera, e d'inverno calzava zoccoli di legno così grandi che il collo dei suoi piedini diventava tutto rosso e faceva pena a guardarlo. Nel centro della città abitava la vecchia madre del calzolaio, che cucì, come meglio poté, un paio di scarpette con vecchie strisce di cuoio rosso. Le scarpe erano un pò goffe, ma l'intenzione era buona: le avrebbe date alla bambina, che si chiamava Karen. Karen ricevette quelle scarpette rosse proprio il giorno in cui venne seppellita sua madre, e le indossò per la prima volta. Non erano certo adatte per un'occasione così triste, ma lei non aveva altro, e così vi infilò i piedini e si mise a seguire la povera bara di paglia. In quello stesso momento passò una carrozza con una vecchia signora importante, che vide la bambina e ebbe compassione di lei; quindi andò dal pastore e gli disse: "Mi affidi quella piccola, perché possa farle del bene!" E Karen credette che il merito fosse delle scarpette rosse, ma la vecchia signora disse che quelle facevano pena e le fece bruciare. Karen ricevette vestiti puliti e graziosi, imparò a leggere e a cucire e la gente le diceva che era carina, ma lo specchio le confidava: "Tu sei molto più che carina, tu sei bella!"

Un giorno la regina intraprese un viaggio per il paese, e portò con sé la sua bambina, che era una principessa; la gente si diresse tutta all'ingresso del castello e tra loro anche Karen. La principessa indossava un grazioso abitino bianco e era affacciata alla finestra per farsi vedere, non aveva né lo strascico, né la corona d'oro, ma calzava belle scarpette rosse di marocchino. Naturalmente erano ben diverse da quelle che la calzolaia aveva cucito per la piccola Karen. Niente al mondo si può paragonare a un paio di scarpette rosse!Karen era ormai cresciuta e doveva ricevere la cresima, ebbe nuovi abitini e dovette anche comprare delle scarpe nuove. Il bravo calzolaio della città le misurò il piedino; glielo misurò in casa sua, una casa piena di grandi armadi di vetro con splendide scarpette e stivaletti luccicanti. Tutto era molto bello, ma la vecchia signora non ci vedeva molto bene e quindi non si divertiva affatto, tra le scarpe ce n'era un paio rosso, proprio come quelle che indossava la principessa; com'erano belle! Il calzolaio spiegò che erano state cucite per una contessina, ma poi non erano andate bene. "Sono sicuramente di pelle lucida" commentò la vecchia signora "luccicano proprio!" "Sì, luccicano" disse Karen, e dato che le andavano bene furono comprate quelle, ma la vecchia signora non sapeva che erano rosse, altrimenti non avrebbe mai permesso a Karen di andare in chiesa per la cresima con le scarpette rosse, cosa che invece fece. In chiesa tutta la gente le osservò i piedi, e quando lei percorse la navata diretta al coro, le sembrò che persino i vecchi ritratti dei defunti, che raffiguravano i preti e le loro mogli, con il colletto inamidato e le lunghe vesti nere, volgessero lo sguardo verso le scarpette rosse; e lei pensò solo alle scarpette, anche quando il pastore le mise la mano sul capo parlando del Santo Battesimo, dell'Alleanza con Dio e del fatto che da quel momento doveva considerarsi una cristiana adulta. L'organo suonava in un modo solenne, le limpide voci del coro dei bambini si alzarono lievi e il vecchio cantore cantò, ma Karen pensava solo alle sue scarpe rosse.

Nel pomeriggio la vecchia signora venne a sapere dai conoscenti che le scarpe erano rosse, disse allora che era stata una brutta azione, che non le si addiceva, e che Karen da quel momento avrebbe sempre indossato le scarpe nere per andare in chiesa, anche se erano ormai vecchie. La domenica successiva c'era la comunione;  Karen guardò le scarpe nere, poi quelle rosse, poi ancora quelle rosse, e infine se le infilò! C'era un tempo bellissimo; Karen e la vecchia signora passeggiavano per un sentiero in mezzo al grano, dove c'era un po' di polvere. Vicino all'ingresso della chiesa si trovava un vecchio soldato con una stampella e una lunghissima barba, più rossa che bianca, perché una volta era stata rossa. Si inchinò fino a terra e chiese alla signora se non voleva farsi pulire le scarpe. Anche Karen allungò subito il piedino. "Che belle scarpette da ballo!" esclamò il soldato "state ben salde ai piedi quando ballate" e batté la mano sulla suola. La vecchia signora diede al soldato una moneta e poi entrò in chiesa insieme a Karen. Tutta la gente che si trovava in chiesa e persino tutte le immagini appese ai muri guardarono le scarpe rosse di Karen, e lei, quando salì all'altare e avvicinò alla bocca il calice d'oro pensò solo alle sue scarpette rosse, e le sembrò che stessero nuotando nel calice stesso. Così dimenticò di cantare il salmo e di recitare il Padre Nostro. Poi tutti uscirono dalla chiesa e la vecchia signora salì in carrozza. Karen sollevò un piede per salire dopo di lei, ma in quel momento il vecchio soldato che stava vicino disse: "Che belle scarpette da ballo!" e Karen non poté trattenersi dal fare qualche passo di danza, e una volta cominciato, le sue gambe continuarono a ballare. Era come se le scarpe avessero un potere su di lei, e Karen ballò fino all'angolo della chiesa; il cocchiere dovette rincorrerla e afferrarla, poi la mise finalmente sulla carrozza, ma i piedi continuarono a ballare, tirando calci alla buona vecchia signora. Finalmente si riuscì a toglierle le scarpe e i suoi piedi si calmarono. Una volta a casa le scarpe furono messe in un armadio, ma Karen non poteva fare a meno di guardarle.

La vecchia signora si ammalò e si diceva che non sarebbe vissuta a lungo; aveva bisogno di cure e di assistenza e per questo nessuno era più adatto di Karen. Ma in città doveva esserci un gran ballo a cui anche Karen era stata invitata; guardò la vecchia signora che tanto non doveva più vivere a lungo, poi osservò le sue scarpette rosse e pensò che non ci sarebbe stato niente di male: si infilò le scarpe rosse, e fin qui non c'era nulla di male, ma poi andò al ballo e cominciò a danzare. Quando volle andare a destra, le scarpe la portarono a sinistra, poi volle inoltrarsi per la casa, ma le scarpe la condussero all'ingresso e poi giù per le scale, per la strada fino alle porte della città. Ballava e doveva continuare a ballare e intanto giunse nel bosco nero. Qualcosa luccicava tra gli alberi e Karen credette fosse la luna, dato che era un volto, ma in realtà era il vecchio soldato con la barba rossa che le faceva dei cenni col capo dicendo: "Che belle scarpette da ballo!" La fanciulla si spaventò molto e volle gettar via le scarpe rosse, ma queste erano ben salde; strappò le calze, ma le scarpe rimasero attaccate ai piedi, e ballava e non poteva fare altro, per campi e prati, sotto la pioggia e col sole, di giorno e di notte; e proprio di notte era la cosa più tremenda. Ballando entrò nel cimitero che era aperto, ma i morti non ballavano, avevano qualcosa di meglio da fare; Karen voleva sedersi sulla tomba di un poveretto, dove cresceva l'amara salvia selvatica, ma per lei non c'era né pace né riposo, e quando si diresse verso la porta aperta della chiesa vide un angelo con un lungo abito bianco e ali che dalle spalle scendevano fino a terra; il suo sguardo era severo e in mano teneva una larga spada lucente: "Devi ballare" le disse "ballare con le tue scarpe rosse finché non diventerai debole e pallida! finché la tua pelle non si raggrinzirà come quella di uno scheletro! dovrai ballare da una casa all'altra, e dove abitano bambini superbi e vanitosi, devi bussare, così che ti sentano e abbiano paura! Devi ballare, ballare...!" "Pietà!" gridò Karen. Ma non sentì la risposta dell'angelo, perché le scarpe la portarono attraverso il cancello, fuori nei campi, per strade e sentieri, sempre ballando.

Una mattina passò, ballando, davanti a una porta che conosceva bene, dentro cantavano dei salmi e stavano portando fuori una bara, ornata di fiori; allora comprese che la vecchia signora era morta e pensò di essere ormai abbandonata da tutti e maledetta dall'angelo del Signore. Ballava e doveva continuare a ballare, anche nella notte scura. Le scarpe la trascinarono tra le spine e sulle stoppie, e lei si graffiò a sangue; ballò oltre la brughiera fino a una casetta isolata. Sapeva che lì abitava il boia e bussò con le dita alla finestra dicendo: "Vieni fuori! vieni fuori! Io non posso entrare perché sto ballando!" E il boia le rispose: "Non sai chi sono io? Io taglio le teste ai cattivi, e sento che la scure sta già vibrando!" "Non tagliarmi la testa" esclamò Karen "altrimenti non potrò pentirmi dei miei peccati! Tagliami invece i piedi con le scarpe rosse!" e così confessò tutte le sue colpe e il boia le tagliò via i piedi con le scarpe rosse; ma le scarpe continuarono a ballare con i piedini attaccati, attraversarono i campi e scomparvero nel bosco più profondo. Il boia le intagliò due piedi di legno e due grucce, le insegnò un salmo che cantano i peccatori, e lei baciò la mano che aveva calato la scure e se ne andò per la brughiera. "Ne ho abbastanza di scarpe rosse!" disse "ora voglio andare in chiesa, in modo che mi possano vedere" e si diresse con sicurezza verso la porta della chiesa, ma quando vi giunse c'erano le scarpette rosse che ballavano davanti a lei, e lei si spaventò molto e tornò indietro. Per tutta la settimana si addolorò e pianse molte lacrime, ma quando venne di nuovo domenica, disse: "Ecco! adesso ho patito e lottato abbastanza! Credo proprio di essere come molti di quelli che siedono in chiesa a testa alta!" e si avviò coraggiosa verso la chiesa, ma non era ancora arrivata al cancello che vide le scarpe rosse danzare davanti a lei, così si spaventò, tornò indietro e si pentì sinceramente del suo peccato. Andò allora al presbiterio e chiese di essere presa a servizio; voleva essere laboriosa e lavorare il più possibile, e non le interessava di essere pagata, le bastava avere un tetto sopra la testa e stare in casa di buona gente. La moglie del pastore ebbe compassione e la prese a servizio. E lei si dimostrò laboriosa e riconoscente. Immobile, ascoltava alla sera il pastore mentre leggeva la Bibbia a voce alta. Tutti i bambini le volevano bene, ma quando parlavano di ornamenti e fronzoli e di essere belli come la regina, lei scuoteva la testa.

La domenica successiva andarono tutti in chiesa e le chiesero se desiderasse andare con loro, ma Karen guardò tristemente le sue stampelle e le vennero le lacrime agli occhi; così gli altri andarono a ascoltare la parola del Signore e lei si ritirò tutta sola nella sua cameretta. Non era affatto grande, ci stava solo il letto e una sedia, e lei sedette con il suo libro dei salmi; mentre lo leggeva con animo devoto, il vento le portò dalla chiesa il suono dell'organo e lei rialzò lo sguardo commosso e esclamò: "Dio mio, aiutami!". Il sole si mise a splendere luminoso e davanti a lei comparve l'angelo del Signore tutto vestito di bianco; lo stesso che aveva visto quella notte sulla porta della chiesa, ma non aveva più con sé la spada, bensì un bel rametto verde, pieno di rose, e con questo toccò il soffitto che si alzò altissimo, e nel punto in cui lo aveva toccato apparve una stella d'oro; poi toccò le pareti che indietreggiarono, e Karen poté vedere l'organo che suonava, e vide le vecchie immagini dei pastori e delle loro mogli, e la folla che sedeva nei banchi ornati e cantava i salmi. La chiesa stessa era venuta dalla povera fanciulla, nella sua piccola camera, o forse lei era andata in chiesa; si trovò seduta vicino agli altri domestici del pastore e questi, finito il salmo, alzarono lo sguardo e le fecero cenno dicendo: "Hai fatto bene a venire, Karen!" "È stata la grazia!" rispose lei. L'organo suonò di nuovo e le voci infantili del coro si alzarono dolci e bellissime! Il sole luminoso arrivava caldo attraverso la finestra proprio sul banco dove sedeva Karen; il suo cuore fu così pieno di sole, di pace e di gioia che si spezzò, la sua anima volò su verso il sole fino a Dio, e lassù nessuno le chiese delle scarpette rosse.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: La principessa sul pisello

Post n°13 pubblicato il 27 Giugno 2010 da dream.of_fable
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C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa. Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere principesse; infatti sempre qualcosa andava storto. Così se ne tornò a casa ed era veramente molto triste, perché desiderava di cuore trovare una vera principessa.

Una sera c'era un tempo pessimo, lampeggiava e tuonava, la pioggia scrosciava, che cosa terribile! Bussarono alla porta della città e il vecchio re andò a aprire. C'era una principessa lì fuori. Ma come era conciata con quella pioggia e quel brutto tempo! L'acqua le scorreva lungo i capelli e gli abiti e le entrava nelle scarpe dalla punta e le usciva dai tacchi; eppure sosteneva di essere una vera principessa. «Adesso lo scopriremo!» pensò la vecchia regina, ma non disse nulla, andò nella camera da letto, tolse tutte le coperte e mise sul fondo del letto un pisello, su cui mise venti materassi e poi venti piumini. Lì doveva passare la notte la principessa. Il mattino successivo le chiesero come avesse dormito. "Oh, terribilmente male" disse la principessa "non ho quasi chiuso occhio tutta la notte. Dio solo sa, che cosa c'era nel letto! Ero sdraiata su qualcosa di duro, e ora sono tutta un livido. È terribile!" Così poterono constatare che era una vera principessa, perché attraverso i venti materassi e i venti piumini aveva sentito il pisello. Nessuno poteva essere così sensibile se non una vera principessa. Il principe la prese in sposa, perché ora sapeva di aver trovato una vera principessa, e il pisello fu messo nella galleria d'arte, dove ancor oggi si può ammirare, se nessuno l'ha preso.

Bada bene, questa è una storia vera!

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: La pastorella e lo spazzacamino

Post n°12 pubblicato il 26 Giugno 2010 da dream.of_fable
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Hai mai visto un armadio di legno, proprio vecchio, tutto nero per la vecchiaia, intagliato con ghirigori e fogliame? Ce n'era uno così in salotto, era stato ereditato dalla bisnonna e era intagliato da capo a piedi con rose e tulipani e strani arabeschi dai quali spuntavano teste di cerbiatti con le corna ramose. Ma al centro dell'armadio si trovava, sempre scolpito, un uomo intero, e era proprio divertente guardarlo, e lui stesso sogghignava, anche se non rideva apertamente. Aveva zampe di caprone, piccole corna sulla fronte e una lunga barba. I bambini di quella casa lo chiamavano sempre “sergentegeneralmaggiore Zampe-di-caprone”, che è un nome difficile da pronunciare, e poi non sono molti coloro che hanno questo titolo; ma anche intagliare una simile figura era stata una cosa non da tutti. Comunque era lì, e guardava fisso il tavolo sotto lo specchio, dove c'era una graziosa pastorella di porcellana. Aveva le scarpine dorate e la gonna graziosamente rialzata e fissata con una rosa rossa, e poi aveva un cappello d'oro e un bastone da pastorella. Era proprio carina! Vicino a lei si trovava un piccolo spazzacamino, nero come il carbone, ma pure fatto di porcellana, pulito e grazioso come nessun altro; era spazzacamino solo di nome: lo scultore lo avrebbe benissimo potuto far diventare principe, e sarebbe stato lo stesso! Era proprio carino con la sua scala, col visino bianco e rosa, come se fosse stato una fanciulla e questo era stato un errore perché un po' di nero l'avrebbe dovuto avere. Era vicinissimo alla pastorella, entrambi erano stati messi lì e si erano fidanzati; erano adatti l'uno all'altra, erano giovani, fatti della stessa porcellana e ugualmente fragili. Vicino a loro si trovava anche una statuetta tre volte più grande di loro: era un vecchio cinese che poteva far cenno con la testa. Anche lui era di porcellana e sosteneva di essere il nonno della pastorella, ma non era in grado di dimostrarlo – diceva di avere autorità su di lei e per questo aveva fatto un cenno di assenso al sergente general maggiore Zampe-di-caprone, quando aveva chiesto di sposare la pastorella. «Che marito che avrai» disse il vecchio cinese «credo sia fatto di mogano; sarai la moglie del sergentegeneralmaggiore Zampe-di-caprone, che ha l'armadio pieno di argenteria senza contare tutte le gemme dei cassettini segreti!» «Io non voglio finire in quell'armadio buio!» si lamentò la pastorella «ho sentito dire che ci tiene ben undici mogli di porcellana!» «Così tu diventerai la dodicesima!» commentò il cinese. «Questa notte, non appena il vecchio armadio scricchiolerà, festeggeremo il matrimonio, com'è vero che io sono un cinese!» e intanto faceva dondolare la testa, e si addormentò. La pastorella pianse e guardò il suo amato, lo spazzacamino di porcellana. «Ti voglio chiedere se vuoi venire con me nel grande mondo» gli propose «dato che qui non possiamo più rimanere.» «Farò tutto quello che vuoi!» rispose lo spazzacamino. «Andiamocene subito; credo che ti potrò mantenere con il mio lavoro.» «Se solo fossimo giù dal tavolo!» esclamò lei. «Non sarò contenta finché non saremo nel vasto mondo.»

Lui la consolò e le mostrò dove mettere i piedini sugli angoli intagliati e sul fogliame dorato per scendere lungo la gamba del tavolo. Usò anche la sua scala, e si ritrovarono sul pavimento, ma quando guardarono verso il vecchio armadio videro una gran confusione. Tutti i cervi intagliati avevano allungato la testa, drizzato le corna e girato il collo, il sergente general maggiore Zampe-di-caprone saltava per aria gridando: «Scappano! Scappano!». Loro si spaventarono e saltarono a gran velocità in un cassetto davanti alla finestra. Lì dentro c'erano tre o quattro mazzi di carte non completi e un piccolo teatro di burattini, che era stato montato in qualche modo. Stavano recitando una commedia, e tutte le donne di quadri, di cuori, di fiori e di picche erano sedute in prima fila e si facevano vento con i loro tulipani, dietro di loro si trovavano i fanti, che avevano una testa all'insù e una all'ingiù, proprio come le carte da gioco. La commedia parlava di due innamorati che non potevano stare insieme, e la pastorella pianse, perché era proprio come la sua storia. «Non ci resisto più!» esclamò «devo uscire dal cassetto!» ma quando si trovò sul pavimento e guardò verso il tavolo, vide che il vecchio cinese era sveglio e si agitava con tutto il corpo, dato che la parte inferiore era una palla! «Adesso arriva il vecchio cinese!» gridò la pastorella, e si abbandonò sulle ginocchia di porcellana tanto era afflitta.

«Mi viene un'idea!» esclamò lo spazzacamino «perché non ci caliamo nella grande anfora portaprofumi che sta nell'angolo? Lì dentro potremmo stare sulle rose e sulle viole e gettargli il sale negli occhi se arriva!» «Non servirebbe» ribatté lei «e poi so che il vecchio cinese e l'anfora erano stati innamorati e rimane sempre un po' d'affetto quando si ha avuto qualche relazione. No, non ci resta altro che andarcene per il vasto mondo!» «Sei certa di avere il coraggio di venire con me nel vasto mondo?» chiese lo spazzacamino. «Hai pensato a quanto sia grande, e che forse non torneremo mai più indietro?» «Certo!» esclamò la fanciulla. Lo spazzacamino la fissò e poi disse: «La mia strada passa attraverso il camino! Hai davvero il coraggio di arrampicarti con me attraverso la stufa su per la cappa e nella canna fumaria? In questo modo arriveremo fino al comignolo e poi là ci penserò io. Saliremo così in alto che non ci potranno raggiungere, e lassù in cima c'è un'apertura per raggiungere il vasto mondo.»

E così la condusse allo sportello della stufa. «Com'è nero!» esclamò lei, ma lo seguì attraverso la cappa e la canna, dove c'era buio pesto. «Adesso siamo nel comignolo» spiegò lo spazzacamino «guarda, guarda: lassù in cima splende la stella più bella!» Nel cielo si trovava una stella vera, che brillava illuminando fin dove si trovavano loro due, come se avesse voluto mostrar loro la strada. Strisciarono e si arrampicarono, il percorso era tremendo e portava sempre più in alto: lui avanzava e aiutava la fanciulla, la teneva e le mostrava i punti migliori dove posare i piedini di porcellana, e così raggiunsero il bordo del comignolo e vi sedettero sopra, perché erano proprio stanchi. Il cielo con tutte le sue stelle si stendeva sopra di loro, e in basso stavano tutti i tetti della città; potevano guardare lontano lontano nel vasto mondo. La povera pastorella non si era mai immaginata nulla di simile, appoggiò la testolina al suo spazzacamino e pianse, pianse tanto che l'oro si staccò dalla sua cintura. «Questo è troppo!» sospirò «non lo sopporto. Il mondo è troppo grande! Come vorrei essere di nuovo su quel tavolino sotto lo specchio! Non potrò mai più essere felice se non torno laggiù! Io ti ho seguito nel vasto mondo, ora tu dovresti riaccompagnarmi a casa di nuovo, se mi vuoi un po' di bene!» Lo spazzacamino cercò di farla ragionare, le ricordò il vecchio cinese, e il sergente general maggiore Zampe-di-caprone, ma lei singhiozzava e lo baciava così disperatamente, che a lui non restò altro da fare che accontentarla, anche se era un'idea assurda. Così strisciarono di nuovo con molte difficoltà lungo il comignolo e passarono attraverso la canna e la cappa; non era certo un divertimento! Infine si trovarono nella stufa buia e sbirciarono dalla porticina per vedere come era la situazione nel salotto. Vi regnava il silenzio; guardano fuori e... oh! il vecchio cinese era steso sul pavimento e si era rotto in tre pezzi; la schiena si era staccata in un pezzo solo, e la testa era rotolata in un angolo; il sergente general maggiore Zampe-di-caprone invece si trovava sempre al suo posto e meditava. «È tremendo!» esclamò la pastorella «il vecchio nonno si è rotto e noi ne siamo colpevoli! Non potrò sopravvivere a questo» e cominciò a torcersi le manine. «Si può ancora riaggiustare» le disse lo spazzacamino. «Può benissimo essere aggiustato! Non essere così tragica! Una volta incollata la schiena e fissata la testa col fil di ferro, sarà come nuovo e ci potrà dire molte cose spiacevoli!» «Credi?» chiese la pastorella; intanto si arrampicarono di nuovo sul tavolino, al loro solito posto. «Guarda dove siamo arrivati!» esclamò lo spazzacamino «potevamo risparmiarci tutto questo fastidio!» «Purché il vecchio nonno venga aggiustato» disse la pastorella. «Verrà a costare molto?» E venne aggiustato; la famiglia gli riincollò la schiena, gli mise un fil di ferro nel collo e alla fine sembrava nuovo, ma non poteva più dondolare la testa. «Lei è diventato molto superbo, da quando è andato in pezzi!» osservò il sergente general maggiore Zampe-di-caprone «eppure non credo che sia una cosa di cui doversi vantare! Allora posso averla in sposa, oppure no?»

Lo spazzacamino e la pastorella guardarono il vecchio cinese in modo commovente; temevano che avrebbe fatto cenno di sì, ma lui non lo poteva fare e neppure voleva raccontare a un estraneo che gli avevano messo del fil di ferro nel collo; così le due statuette di porcellana restarono insieme, benedissero il fil di ferro del vecchio nonno e si vollero bene finché si ruppero.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: Il bucaneve

Post n°11 pubblicato il 26 Giugno 2010 da dream.of_fable
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Era inverno, l'aria era fredda, il vento tagliente, ma in casa si stava bene e faceva caldo; e il fiore stava in casa, nel suo bulbo sotto la terra e sotto la neve.

Un giorno cadde la pioggia, le gocce penetrarono oltre la coltre di neve fino alla terra, toccarono il bulbo del fiore, gli annunciarono il mondo luminoso di sopra; presto il raggio di sole, sottile e penetrante, passò attraverso la neve fino al bulbo e busso. "Avanti!" disse il fiore. Non posso" rispose il raggio "non sono abbastanza forte per aprire, diventerò più forte in estate." "Quando verrà l'estate?" chiese il fiore, e lo chiese di nuovo ogni volta che un raggio di sole arrivava laggiù. Ma c'era ancora tanto tempo prima dell'estate, la neve era ancora lì e ogni notte l'acqua gelava. "Quanto dura!" disse il fiore. "Io mi sento solleticare, devo stendermi, allungarmi, aprirmi, devo uscire! Voglio dire buongiorno all'estate; sarà un tempo meraviglioso!" Il fiore si allungò e si stirò contro la scorza sottile che l'acqua aveva ammorbidito, la neve e la terra avevano riscaldato, il raggio di sole aveva punzecchiato; così sotto la neve spuntò una gemma verde chiaro, su uno stelo verde, con foglioline grosse che sembravano volerla proteggere. La neve era fredda, ma tutta illuminata, e era così facile attraversarla, e sopraggiunse un raggio di sole che aveva più forza di prima. "Benvenuto, benvenuto!" cantavano e risuonavano tutti i raggi, e il fiore si sollevò oltre la neve nel mondo luminoso. I raggi lo accarezzarono e lo baciarono, così si aprì tutto, bianco come la neve e adorno di striscioline verdi. Piegava il capo per la gioia e l'umiltà. "Bel fiore" cantavano i raggi "come sei fresco e puro! Tu sei il primo, l'unico, sei il nostro amore. Tu annunci l'estate, la bella estate in campagna e nelle città. Tutta la neve si scioglierà; i freddi venti se ne andranno. Noi domineremo. Tutto rinverdirà, e tu avrai compagnia, il lillà, il glicine e alla fine le rose; ma tu sei il primo, così delicato e puro!" Era proprio divertente. Era come se l'aria cantasse e risuonasse, come se i raggi di sole penetrassero nei suoi petali e nel suo stelo, lui era lì, così sottile e delicato e facile a spezzarsi, eppure così forte, nella sua giovanile bellezza; era lì in mantello bianco e nastri verdi, e lodava l'estate. Ma c'era ancora tempo prima dell'estate; nuvole nascosero il sole, e venti taglienti soffiarono sul fiorellino. "Sei arrivato troppo presto!" dissero il vento e l'aria. "Noi abbiamo ancora il potere, dovrai adattarti! Saresti dovuto rimanere chiuso in casa, non dovevi correre fuori per farti ammirare, non è ancora tempo." C'era un freddo pungente! I giorni che vennero non portarono un solo raggio di sole, c'era un tale freddo che ci si poteva spezzare, soprattutto un fiorellino così delicato. Ma in lui c'era molta più forza di quanto lui stesso sospettasse, era la forza della gioia e della fede per l'estate che doveva giungere, che gli era stata annunciata da una profonda nostalgia e confermata dalla calda luce del sole; quindi resistette con la sua speranza, nel suo abito bianco sulla bianca neve, piegando il capo quando i fiocchi cadevano pesanti e fitti, quando i venti gelati soffiavano su di lui. "Ti spezzerai!" gli dicevano. "Appassirai, gelerai! Perché hai voluto uscire? perché non sei rimasto chiuso in casa? Il raggio di sole ti ha ingannato. E adesso ti sta bene, fiorellino che hai voluto bucare la neve!" "Bucaneve!" ripeté quello nel freddo mattino. "Bucaneve!" gridarono alcuni bambini che erano giunti nel giardino "ce n'è uno, così grazioso, così carino, è il primo, l'unico!"

Quelle parole fecero bene al fiore, erano come caldi raggi di sole. Il fiore, preso dalla sua gioia, non si accorse neppure d'essere stato colto; si trovò nella mano di un bambino, venne baciato dalle labbra di un bambino, poi fu portato in una stanza riscaldata, osservato da occhi affettuosi, e messo nell'acqua: era così rinfrescante, così ristoratrice, e il fiore credette improvvisamente d'essere entrato nell'estate. La fanciulla della casa, una ragazza graziosa che era già stata cresimata, aveva un caro amico che pure era stato cresimato e che ora studiava per trovarsi una sistemazione. "Sarà lui il mio fiorellino beffato dall'estate!" esclamò la fanciulla, prese quel fiore sottile e lo mise in un foglio di carta profumato su cui erano scritti dei versi, versi su un fiore che cominciavano con «fiorellino beffato dall'estate» e terminavano con «beffato dall'estate». «Caro amico, beffato dall'estate!» Lei lo aveva beffato d'estate. Tutto questo fu scritto in versi e spedito come una lettera; il fiore era là dentro e c'era proprio buio intorno a lui, buio come quando era nel bulbo. Il fiore viaggiò, si trovò nei sacco della posta, venne schiacciato, premuto; non era affatto piacevole, ma finì.

Il viaggio terminò, la lettera fu aperta e letta dal caro amico lui era molto contento, baciò il fiore che fu messo insieme ai versi in un cassetto, insieme a tante altre belle lettere che però non avevano un fiore; lui era il primo, l'unico, proprio come i raggi del sole lo avevano chiamato: com'era bello pensarlo! Ebbe la possibilità di pensarlo a lungo, e pensò mentre l'estate finiva, e poi finiva il lungo inverno, e venne estate di nuovo, e allora fu tirato fuori. Ma il giovane non era affatto felice; afferrò i fogli con violenza, gettò via i versi, e il fiore cadde sul pavimento, piatto e appassito; non per questo doveva essere gettato sul pavimento! Comunque meglio lì che nel fuoco, dove tutti i versi e le lettere finirono. Cosa era successo? Quello che succede spesso. Il fiore lo aveva beffato, ma quello era uno scherzo; la fanciulla lo aveva beffato, e quello non era uno scherzo; lei si era trovato un altro amico nel mezzo dell'estate. Al mattino il sole brillò su quel piccolo bucaneve schiacciato che sembrava dipinto sul pavimento. La ragazza che faceva le pulizie lo raccolse e lo mise in uno dei libri appoggiati sul tavolo, perché credeva ne fosse caduto mentre lei faceva le pulizie e metteva in ordine. Il fiore si trovò di nuovo tra versi stampati, e questi sono più distinti di quelli scritti a mano, per lo meno costano di più.

Così passarono gli anni e il libro rimase nello scaffale; poi venne preso, aperto e letto; era un bel libro: erano versi e canti del poeta danese Ambrosius Stub, che vale certo la pena di conoscere. L'uomo che leggeva quel libro girò la pagina. "Oh, c'è un fiore!" esclamò "un bucaneve! È stato messo qui certamente con un preciso significato; povero Ambrosius Stub! Anche lui era un fiore beffato, una vittima della poesia. Era giunto troppo in anticipo sul suo tempo, per questo subì tempeste e venti pungenti, passò da un signore della Fionia all'altro, come un fiore in un vaso d'acqua, come un fiore in una lettera di versi! Fiorellino, beffato dall'estate, zimbello dell'inverno, vittima di scherzi e di giochi, eppure il primo, l'unico poeta danese pieno di gioventù. Ora sei un segnalibro, piccolo bucaneve! Certo non sei stato messo qui a caso!" Così il bucaneve fu rimesso nel libro e si sentì onorato e felice sapendo di essere il segnalibro di quel meraviglioso libro di canti e apprendendo che chi per primo aveva cantato e scritto di lui, era pure stato un bucaneve, beffato dall'estate e vittima dell'inverno. Il fiore capì naturalmente tutto a modo suo, proprio come anche noi capiamo le cose a modo nostro.

 
 
 

Fiabe Classiche - H.C.Andersen: L'angelo

Post n°10 pubblicato il 25 Giugno 2010 da dream.of_fable
Foto di dream.of_fable

Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati. Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi. "Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?" chiese l'angelo. Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano. "Povera pianta" disse il bambino "prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!" E l'angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po' gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero. "Adesso abbiamo i fiori!" disse il bambino, e l'angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c'era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c'era stato un trasloco; dappertutto c'erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte. E l'angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c'era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato. "Portiamolo con noi! " disse l'angelo "poi, mentre voliamo, ti racconterò perché." E così volarono e l'angelo raccontò:

"Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d'estate i raggi del sole arrivavano per una mezz'ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire: "Oggi il piccolo è uscito!". Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n'era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l'ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l'abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale." "Ma come sai tutte queste cose?" domandò il bambino che l'angelo portava in cielo. "Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!" spiegò l'angelo. "E conosco bene il mio fiore!"

Il bambino spalancò gli occhi e guardò il viso bello e felice dell'angelo; in quel momento giunsero in cielo, dove c'era gioia e beatitudine. Dio strinse al cuore il bambino morto e subito gli spuntarono le ali, come all'altro angelo, e insieme volarono via, tenendosi per mano. Dio strinse al cuore il mazzetto di fiori e baciò quel povero fiore di campo appassito, che subito ebbe voce e cantò con tutti gli angeli che volavano intorno a Dio; alcuni vicinissimi, altri in grandi cerchi intorno a Lui, e altri ancora molto più lontani, nell'infinito, ma tutti ugualmente felici. E tutti cantavano, piccoli e grandi, anche il bambino buono e benedetto e quel povero fiore di campo che era appassito e era stato gettato nella via stretta e buia, tra la spazzatura di un trasloco.

 
 
 

 

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