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« peccatocolui »

di Claudio Magris

Post n°3 pubblicato il 31 Dicembre 2007 da dr_house_4U
 

Se ne avessi il potere, proibirei per legge — quale offesa alla pietas di
una tradizione che per generazioni ha fatto sentire all'infanzia quanto vicini
e interscambiabili siano il sacro, il favoloso e il familiare — l'immagine e il
termine stesso di Babbo Natale. C'è un limite di decenza pure per la
secolarizzazione. Trasformare il mistero dell'incarnazione— l'eterno che si fa
storia, tempo fugace, carne fragile e peritura — o anche solo l'infantile
poesia di Gesù Bambino o dell'angelo che porta i doni nella figura di un
vecchio panciuto e svampito, dal viso rubizzo e giulivamente ebete, è un po'
troppo.



Se proprio ci si vuole sbarazzare del Cristianesimo — del linguaggio e delle
figure che esso ha dato per secoli alla rappresentazione della vita —meglio
tornare allo Yule, alla nordica festa pagana del solstizio d'inverno col suo
culto delle demoniche forze elementari, che Lovecraft, nei suoi racconti
dell'orrore assai poco natalizi, sentiva ancor vive e minacciosamente in
agguato sotto la crosta della civiltà. Non a caso, al tempo della mia infanzia,
catechisti e sacerdoti della parrocchia scoraggiavano e deprecavano, sia pur
blandamente, l'albero di Natale, l'abete di remota ascendenza boreale e pagana,
contrapponendogli il cristiano, cattolico e italico Presepe; palme e cammelli
d'Oriente e dolce terra umbro-francescana contro la neve del Settentrione. Mi
sarei dunque atteso una più energica riprovazione ecclesiastica — almeno pari a
quella delle zucche di Halloween — del paonazzo fantoccio da supermarket, con
le sue renne fatte per tirare la slitta a Cortina e non in Lapponia.



Se Babbo Natale, con rispetto parlando, deriva da Santa Claus ovvero San
Nicolò, come triestino mi sento corresponsabile del suo trionfo, visto che a
Trieste San Nicolò, col suo manto rosso, porta i doni nella notte tra il 5 e il
6 dicembre, ma quel rosso del santo di Bari ha almeno una sua regalità, da re
pastore e non da insegna luminosa di supermarket. Quest'ultimo, ovviamente, può
essere altrettanto sacro, con buona pace dei fustigatori del consumismo
nostalgici della miseria dei tempi andati. Nessun oggetto, nessuna istituzione,
nessun rito sono di per sé sacri; sacro è solo il senso di amore e soprattutto
di rispetto per gli uomini. Comperare un panettone a un supermarket, pensando
alla tavolata con persone amate, non èmeno poetico che preparare un pasto in
una capanna di pastori o in una casa contadina. Sono i simboli della vita a
dire il significato che le attribuiamo.



Sotto questo profilo, il ridanciano e scampanellante Babbo Natale è un segno
della crescente scristianizzazione; della perdita della memoria, del
linguaggio, del senso che il Cristianesimo dà al mondo. Non è solo il
vituperato consumismo, simboleggiato da Babbo Natale, che disturba. Pure in
passato il pranzo e i regali natalizi obbedivano alla logica del consumo, di
per sé nient'affatto disdicevole, e non è un merito se la penuria, subìta e non
certo scelta, costringeva a consumi più modesti. E' quel sorriso giocondo e
soddisfatto nel roseo faccione che nega il Natale. Le feste di un tempo univano
il piacere — per un bambino, anche l'incanto misterioso dei doni sotto l'albero
o davanti al Presepe — e la malinconia della ripetizione, che scandisce il fluire
e lo svanire del tempo quanto più cerca di catturarlo e fermarlo nel rito
sempre uguale. La festa—e il Natale è quella più grande—fa (soprattutto faceva)
sentire che la festa della vita finisce, che l'esistenza è il precipitare della
gioia e degli affetti nel buio del tempo e del nulla, così come nel grande
abete, che un magico zio travestito da angelo mi allestiva nella mia infanzia,
una cascata di caramelle bianche come la neve cadeva e spariva nella folta
ombra dei rami e le gocce di cera delle candele accese cadevano una sull'altra
e si consumavano.



Ogni anno tante gocce d'oblio, mentre la tavolata famigliare si arricchiva
di nuovi venuti e ancor più si spopolava di altri che se ne andavano lasciando
seggiole vuote. La festa diceva la tenerezza e anche gli acri, amari malintesi
della vita di famiglia; era occasione in cui emergevano e poi si sopivano
rancori antichi, acerbamente conviventi con gli affetti, che il bambino captava
sgomento e poi rasserenato, imparando a capire il nesso inestricabile di amore
e avversione che lega gli uomini. Protagonista e vezzeggiata, l'infanzia era
anche vagamente oppressa da quella ripetizione e da quella mistura di gioia e
malinconia, immortalata in tragiche e debolmente sorridenti foto di famiglia.
Anche in quei Natali tradizionali si violava e negava, senza saperlo, il
significato del Natale, che è preludio di Buona Novella e di liberazione e non
malinconia; tempo annunciato e vissuto come pienezza, come compimento di attese
e valori, e non quale stillicidio di minuti e di anni nel nulla. Ma tutto ciò
era almeno riscattato dalla malinconia; l'angelo—anche quello che porta i
regali—è sempre malinconico, figura del mondo caduto e imperfetto. Babbo Natale
invece è sinistramente allegro; è persuaso e vuole persuadere gli altri che
tutto va bene e andrà sempre meglio; che il nostro mondo, la nostra società, il
nostro benessere, il nostro denaro, la nostra democrazia, il nostro teatro
quotidiano siano i migliori e gli unici possibili, una crescita destinata ad
accrescersi trionfalmente sempre più, una scorpacciata senza limiti garantita
da pillole digestive sempre più efficaci, un progresso inarrestabile, uno
stadio definitivo e un ordine immutabile, un oggi scambiato per l'eterno.
Incubi di pranzi in cui l'obbligato ingozzarsi insinua nell'animo una
pesantezza di morte, quintali di biglietti augurali e cassette di vini e di
dolciumi che ingombrano la casa dei fortunati destinatari di omaggi con la
violenza dell'invasione.



Il Natale è la nascita di un bambino, di un salvatore che sarà crocifisso e
conoscerà l'estremo abbattimento del Getsemani; la gioia che esso annuncia non
è una truffa, perché non nasconde il dolore, il crollo del mondo. Uno dei più
grandi racconti di Natale di ogni letteratura, «Cristallo di rocca» di Stifter,
dice — come ha scritto Maria Fancelli in un memorabile saggio — «che
l'attraversamento del nulla è necessario ». Babbo Natale vuole invece farci
dimenticare che siamo sull'orlo di un vulcano, il quale potrebbe eruttare fuoco
distruttore da un momento all'altro; che le tensioni del mondo si vanno facendo
insopportabili e incontrollabili; che davanti al Presepe premono, per entrare
in quella capanna che è il cuore del mondo, più persone di quante essa possa
accogliere. Babbo Erode non si turba per le stragi di innocenti. Il fasullo
scampanellìo della sua slitta cerca di sopraffare il coro degli angeli che
annunciano gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di
buona volontà. Cerca di coprirlo perché, se lo si sente, si rimane sbigottiti
dalla smentita che quell'annuncio riceve sulla Terra, dove la pace è quasi
sempre negata agli uomini di buona volontà e semmai concessa ai farabutti. Quel
canto da sempre smentito va invece sempre ascoltato e seguito, per continuare a
credervi contro ogni evidenza, a sperare contro ogni vittoriosa negazione, con
quell'autentica speranza che passa sotto le forche caudine della disperazione e
rifiuta le stampelle del tronfio e menzognero ottimismo.

 
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