espe dixit

E l'aura fai son vir


Vado anch'io al cinema, qualche volta. Non certo quanto la famigerata miss veleno, che sulle poltroncine praticamente ci vive, tanto che quando inizia il film e non è ancora arrivata si preccupano, ma ogni tanto mi concedo il lusso di abbandonare la famiglia e sprofondare, passiva, nel mondo di qualcun altro.L'ostacolo più grande è la pigrizia, che peggio di me c'è solo una marmotta a novembre, ma una volta messo il nasino fuori dalla tana, son contenta.In genere. Poi ci sono quelle volte in cui mi prenderei a frustate, per aver deciso di andare a vedere film che non meriterebbero neanche mezzo passo fuori dalla porta, ma sono rare. Mi capita più sovente di cedere alla spossatezza (o sonnolenza postprandiale, fate voi) durante la proiezione, e russare, persino. Ma, visto che mi è successo anche a teatro, molto comodamente accucciata tra un pubblico schizzinoso, ormai non mi vergogno più di niente. Passati i quarant'anni, smetti di pensare che sia sempre colpa tua, e se non lo pensavi neanche prima, meglio ancora.Mediamente sono abbastanza fortunata. Incappo spesso in pregevoli perle, come questa volta."Il vento fa il suo giro" è uno di quei film piccolini, nel senso che non entrano nei circuiti di larga diffusione, ma grossi come contenuti e ricchi di spunti di riflessione, nonché, particolare per niente irrilevante, molto piacevoli da vedere.Ambientato sulle montagne della provincia cuneese, nelle valli in cui si parla ancora il dialetto occitano, discendente diretto della lingua d'oc, racconta la storia di un piccolo borgo che si trova ad accogliere un tipo singolare di immigrato: un ex professore francese, che con la moglie e  tre bambini, ha scelto di dedicarsi alla pastorizia.Una vera e propria rivoluzione, per la piccola comunità, che nel contatto con il diverso (il forestiero) esprime tutta la rigidità e la chiusura tipica della gente di montagna, ma è anche capace di slanci di generosità semplice e antica. Esperienza, ma forse sarebbe meglio dire esperimento, per usare un termine a me caro,  perché coinvolge direttamente anche il sindaco e l'esiguo consiglio comunale, che si risolverà in un fallimento da entrambe le parti.Lo straniero si scontrerà duramente con la diffidenza e l'invidia per il successo dei suoi formaggi, e sarà costretto a tornare sui suoi passi,  e a riportare  in terra francese la famiglia, le capre e un carico gravoso di amarezza.E il villaggio perderà con sgomento il suo "scemo": un giovane disabile, affezionatosi ai nuovi arrivati, che si toglierà la vita in seguito alla loro partenza.Un carico pesante di emozioni mi ha travolta, guardando questo film sottotitolato, che un piemontese riesce agevolmente a comprendere, godibile anche da chi non conosce dialetto e cadenze.  Un tuffo nel passato, tra tipici volti montanari, paesaggi mozzafiato, situazioni incomprensibili per chi è abituato a vivere in città, caratteri induriti da una vita di fatiche che iniziano prima dell'alba e da un clima avaro di luce e calore.Quattro soltanto gli attori. Tutti gli altri personaggi interpretano varianti di se stessi sotto l'abile guida del regista Giorgio Diritti, che riesce a trasmettere, spesso avvalendosi soltanto di sguardi e gesti, concetti e significati profondi.Una frase detta dal pastore,  però, mi ha colpita: "Non mi piace la parola tolleranza, perché implica una concessione; non avvicina le persone, ma le vincola a livelli diversi".Più o meno, era così.