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Pentesilea: storia di un alchimista

Post n°54 pubblicato il 03 Luglio 2014 da korov_ev

Il mercato della città sembrava non aver confini, i colori delle tende, i richiami dei venditori, il lamento dei mendicanti: tutto si mescolava confondendosi in un rumore indistinto che rotolava sul selciato delle vie, si insinuava negli anfratti stretti dei vicoli e scorreva via come acqua dopo un temporale, sfumando nell'ombra dei carrugi.
L'alchimista si era fermato a contemplare altero le movenze ipnotiche con cui un ciarlatano manovrava alambicchi, provette e storte dietro il suo banco da venditore di chimere.
- Cosa fai? - chiese improvvisamente l'alchimista
- Non lo vedi cosa faccio?
E a quelle parole il  ciarlatano fece seguire un gesto col quale mescolò il contenuto di due ampolle finché il composto non assunse il colore giallo brillante dell'oro.
L'alchimista guardava incredulo e sbalordito: possibile che quell'impostore, quel mago da quattro soldi, avesse trovato ciò che egli cercava invano da una vita?
- Chi sei tu, che vestito di stracci carpisci i segreti del piombo e del rame e dell'oro, e impudicamente li mostri sulla pubblica piazza nel giorno di mercato? E a qual fine?
Allora il ciarlatano lo guardò da dietro il vetro appannato degli occhi,  e dalla fessura delle labbra liberò una voce che aveva la forza del temporale e l'asprezza dell'aceto e che pur all’uomo parve dolce:
- Ti facevo più scaltro. Davvero non sai indovinare chi io sia, povero Faust?
Il cuore e le labbra dell’alchimista tremarono; dalla sua bocca sfuggì una  parola soltanto, una parola appena bisbigliata, inafferrabile a qualsiasi orecchio: Mefistofele.
- Sì! - sibilò strisciante e colma di soddisfazione la voce del ciarlatano.
- Posso darti la mia anima in cambio del tuo segreto.
Di là del banco il venditore proruppe in una risata che sembrò risucchiare l'intera piazza, ma nessuno attorno a loro parve curarsene.
- Ti sopravvaluti, vecchio alchimista. Tieni pure la tua anima sdrucita, ti renderò ugualmente ricco, più ricco del più grande imperatore; i re della Terra mendicheranno la tua grazia e più nulla ti sarà impossibile, ma… in cambio dovrai costruire per me, su questo suolo maledetto, una città, e dovrai riempirla di uomini e di donne, e quando ciò che ti chiedo sarà compiuto, allora io prenderò l'anima di quella città, perché l'anima di una città ha molto più gran valore della somma delle anime che, lontane le une dalle altre, sole e spaurite l’abitano.
In quel momento il frastuono del mercato tornò a riempire le orecchie dell’alchimista a sigillo di quel patto sciagurato

Sospesa sull’enorme volta aurea stava la città; poggiata sul dorso d’oro d’una conchiglia nello sconfinato scintillio azzurro del mare, essa vantava il suo primato.
D’oro erano le mura e le piazze e le fontane; d’oro erano i tetti e le stalle, i ponti e le strade. D’oro erano le cupole e le torri altissime, erette nel mezzo dell’immensa pianura d’acqua, a guardia del Tesoro, e il tesoro aveva nome Pentesilea.  Uomini e donne da ogni regione del mondo riempivano le sue vie col cuore pieno di cupidigia,  e benché le ricchezze fossero tanto abbondanti che nessun uomo avrebbe mai potuto possederle tutte,  essi si sbranavano a vicenda per poterne avere di più, e la città fu colma di ogni male.
Faust, dal chiuso delle stanze, nel grande palazzo reale, sentiva gli artigli dell’immondo dragone ghermirgli le spalle, conficcarglisi piano nella carne.
Gli spalti erano gremiti di sentinelle e alle porte della città enormi guardiani impedivano il passo a chiunque volesse varcarne le soglie, ma il vecchio alchimista sapeva che a nulla sarebbe valso tanto spiegare di forze, nel momento che il legittimo possessore fosse venuto a reclamare il suo pegno e a dar senso al nome di quella città.
Egli guardava dall’alto del suo trono le strade, le stanze, le piazze di Pentesilea colorarsi di rosso ed era come se quel sangue mutasse in polvere d’oro che subito il vento spazzava con forza contro i muri,  sui campanili, sopra i tetti, e il sangue stesso diventava città. Allora la sua mente vacillò, la sua anima impallidì di fronte all’orrore e il corpo la seguì accasciandosi tra le vene del marmo che accolse freddo le sue palme.
Un messo entrò portando notizia di un altro pezzetto di mondo lontano conquistato e allorché incrociò lo sguardo del re parlò in siffatta maniera:
- Sire, Pentesilea non è mai stata tanto grande, nessun regno può competere con la sua potenza e nessun re sulla Terra eguaglia il suo re: per cosa, il timore riempie il vostro sguardo? Nessun nemico sfiorerà mai il suolo dorato della città.
- Dici bene – rispose il vecchio alchimista – nessun re della Terra eguaglia la potenza del re di Pentesilea, ed egli presto verrà a reclamare il suo compenso: a nulla varranno le mura e le guarnigioni e le balestre schierate: scherzi di bambino, sono, per lui, le nostre ridicole difese. Verrà e chiederà che gli sia pagato il dovuto.
Allora dal basso delle viscere della città si levò un frastuono confuso come quello che un tempo riempiva le piazze nel giorno di mercato; un mare tumultuoso di voci e scherno che chiedeva irrisorio e irriverente:
- Hai forse paura che le nostre anime caschino nelle mani del diavolo?
- No,- egli rispose- ho paura che non abbiate anima da dargli.

(scritto inseguendo una suggestione su un racconto di Italo Calvino: ho fatto del mio meglio, spero non si rivolti nella tomba)

 
 
 
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