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Creato da: silence.heart1983 il 24/04/2008
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Post N° 3

Post n°3 pubblicato il 24 Aprile 2008 da silence.heart1983

Amo il numero 7 anche perchè rappresenta:

AVARIZIA: L’amore del denaro è la radice di tutti i mali». Così scrive San Paolo Apostolo nella Prima Lettera a Timoteo (6,10) ed è la migliore introduzione per riflettere sull’argomento dell’avarizia che, dalla dottrina cattolica, è stata definita come la cupidigia disordinata dei beni materiali. Questi beni infatti sono utili soltanto nella misura in cui giovano all’uomo per il raggiungimento del suo fine ultimo. Spiega San Tommaso d’Aquino: «Dunque la bontà dell’uomo nei loro riguardi consiste in una certa misura: e cioè consiste nel desiderare il possesso delle ricchezze in quanto necessarie alla vita, secondo le condizioni di ciascuno. Quindi nell’eccedere codesta misura si ha un peccato: quando si vuole acquistare o ritenere più del dovuto. E questo costituisce precisamente l’avarizia, che è un amore immoderato di possesso».  Come negli altri vizi capitali, anche nell’avarizia c’è una triplice offesa: al prossimo, a se stessi e a Dio. È contro il prossimo poiché nelle ricchezze materiali uno non può sovrabbondare senza che un altro rimanga nell’indigenza, perché i beni materiali non possono essere posseduti simultaneamente da più persone; è contro se stessi perché comporta una mancanza di moderazione negli affetti che uno prova per le ricchezze, cioè amore, compiacenze o desideri esagerati verso di esse, creando un disordine nella propria anima; è contro Dio perché per i beni materiali si disprezzano i beni eterni.  San Gregorio Magno osserva che l’avarizia si consuma, piuttosto che nel piacere o sensazione della carne, come la gola e la lussuria, nel piacere o percezione dell’anima e la pone tra i vizi capitali, da cui nascono altri peccati ed elenca le sette figlie dell’avarizia: la «obduratio contra misericordiam» (la durezza del cuore che impedisce di dare ai bisognosi), la «inquietudo mentis» ( la troppa ansia nel ricercare le ricchezze) la «violentia» (violenza), la «fallacia» (l’inganno), il «periurium» (lo spergiuro), la «fraus» (la frode), la «proditio» (il tradimento) cioè i mezzi illeciti per impossessarsi delle ricchezze. Quanto si è ricordato non riguarda soltanto la storia dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ma vale pure per noi cristiani dell’inizio del Terzo Millennio, che viviamo in una società «sazia e disperata» che rischia di procedere verso una pericolosa deriva materialista. L’avaro, pertanto, non è il patetico protagonista della celebre commedia di Molière o qualche altro personaggio tirchio e spilorcio che la letteratura ed il cinema hanno illustrato e che dunque ci è estraneo per la sua goffaggine e ridicolezza, ma potrebbe, invece, essere anche dentro di noi. La tentazione sottile e velenosa dell’avarizia è sempre in agguato, il richiamo di San Paolo è, soprattutto, per i nostri giorni dove le scorribande finanziarie, frutto perverso di una certa globalizzazione, sono tese al grande ed ingiusto accumulo di denaro, per l’opera di avventurieri senza etica, ma nel disinteresse o con l’ignoranza di risparmiatori desiderosi solo di ammucchiar soldi. L’avarizia è vecchia quanto il mondo, già il poeta latino Virgilio diceva indignato: «Ahi de l’oro empia ed esecrabil fame!» («auri sacra fames»), perciò siamo in pericolo di invecchiare nei nostri peccati. Il tempo di Quaresima è anche un periodo di profonda revisione di vita e di attenta vigilanza dei comportamenti; non disperdiamo questa occasione per riflettere e meditare sul retto uso dei beni materiali.

SUPERBIA: Più che un singolo tipo di peccato la superbia appare come un’espressione che indica una costellazione di peccati: orgoglio, arroganza, arbitrio, tracotanza, apparenza esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere. Tuttavia se andiamo a ricercare nella Scrittura la parola che traduciamo con superbia, ci accorgiamo che questa ha anche un significato positivo: l’ebraico ga’on indica ciò che è alto ed elevato e, in senso figurato, ciò che eccelle e che per valore si distacca dalla media. L’italiano conserva questo valore positivo attraverso l’aggettivo «superbo» come apprezzamento per tutto ciò che si distingue, che rappresenta una realizzazione eccellente e diventa punto di riferimento. Nella versione greca dei Settanta ga’on viene spesso tradotto con hybris esprimendone però solo il lato negativo di prepotenza, violenza, arroganza; nei libri sapienziali viene utilizzato anche hyperephania, quasi termine tecnico, per indicare l’atteggiamento che gli uomini pii debbono assolutamente evitare. Nel Nuovo Testamento al poco usato hybris si preferisce alazoneia e anche hyperephania per esprimere uno stile di vita basato sull’attribuire a se stessi più di quanto si ha o si è. San Gregorio Magno sintetizza il peccato di superbia indicandone quattro manifestazioni: credere che il bene posseduto derivi esclusivamente da se stessi oppure di averlo ricevuto solo per i propri meriti; vantarsi di ciò che non si ha; cercare di far apparire uniche e singolari le proprie doti disprezzando gli altri. Questa semplice nota linguistica ci aiuta a cogliere in cosa consiste la forza di seduzione tipica di questo peccato che, non a caso, S. Tommaso - riprendendo sia S. Agostino che S. Gregorio Magno - definisce come amore smodato della propria eccellenza. Esiste, infatti, in ciascuno di noi il legittimo desiderio di primeggiare, di migliorare noi stessi, di giungere alla perfezione fino al limite di quella divina; si tratta di uno stimolo positivo e potente a cercare di dare il meglio di sé nelle diverse situazioni e campi in cui siamo chiamati a operare. La capacità seducente della superbia, il suo fascino, consiste proprio nell’esaltare questo desiderio naturale di eccellere centrando in modo assoluto l’attenzione su se stessi, prescindendo da qualsiasi considerazione oggettiva, assumendo come criterio fondamentale del proprio agire una regola del tipo: «conta solo arrivare primi, perciò sii il numero uno a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo». La superbia, così, mostra di essere un atteggiamento che cambia volto a seconda della situazione in cui si manifesta: in assoluto e fondamentalmente è la pretesa di essere come Dio in rapporto a tutto ciò (persone, viventi e cose) che ci circonda, ma si mostra anche come desiderio di essere «il più…» bello, forte, ricco, simpatico, intelligente, colto, raffinato, professionale, esperto, e potremmo continuare con tutte le caratteristiche positive della nostra umanità fino a comprendere le stesse dimensioni etiche e religiose: pio, buono, coerente, santo. Perciò per naturale propensione la superbia si nutre di menzogna e di violenza perché la ricerca ad ogni costo della propria superiorità costringe a svilire o a negare la positività delle doti altrui e a combatterle come se fossero pericolosi avversari con tanta più virulenza quanto più si percepisce che l’altro è effettivamente migliore di noi. A questo punto viene spontaneo pensare che il miglior antidoto per la superbia sia coltivare l’umiltà, cosa senza dubbio vera purché non si scambi umiltà con ritrosia, timidezza o mediocrità; con la paura di impegnarsi, di confrontarsi alla pari, apertamente e lealmente con gli altri; con la vigliaccheria e l’incapacità di donare con le parole e i gesti il positivo di cui siamo portatori. Credo che l’umiltà abbia bisogno di un percorso che inizia dai gesti semplici della cortesia: chiedere «per favore» e ringraziare; diviene capacità di gioire e utilizzare al meglio ciò che si ha; procede con lo sviluppo di una onestà intellettuale che sa di dover capire a fondo la posizione dell’altro prima di emettere un qualsiasi giudizio; trova il suo compimento nell’accettazione gioiosa che tutto il nostro essere è dono del Padre e il nostro operare è risposta all’iniziativa della grazia divina in Cristo. È, infine, coscienza ecclesiale come San Paolo ricordava ai fedeli di Corinto: «Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per vostro profitto perché impariate nelle nostre persone a stare a ciò che è scritto e non vi gonfiate d’orgoglio a favore di uno contro un altro. Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?»

IRA: Perché anche l’ira tra i vizi capitali? E perché, invece, Giuseppe Giusti, tra il serio e il faceto, l’avrebbe messa, - se ben ricordo -, niente meno che «tra i sacramenti»? Un po’ d’ordine non nuoce. La lista dei vizi capitali ha un perché. Per Platone, - Fedro, Repubblica, Timeo specialmente -, l’anima umana ha tre aspetti: quello razionale che dovrebbe regolare tutto, come l’auriga guida i cavalli. Nell’anima i «cavalli» sono due: c’è una parte oscura, la brama, con parola più tecnica «concupiscenza» (epithymía) nell’ambito degli «appetiti»; c’è la parte chiara, nel campo delle «repulsioni», lo «sdegno» (thymós) o irascibilità. Se vi s’installa un’abitudine cattiva, cattiva per il cattivo uso, ossia l’abuso, l’eccesso dello sdegno, quel vizio non è più l’«irascibilità» in sé, in latino ira, ma l’iracondia, ossia la smania di vendetta col far del male, la «libidine di vendicarsi», nel senso comune della parola (Agostino). Insomma, dalla «irascibilità» di Platone vengono fuori non solo l’ira o meglio iracondia, ma anche l’accidia e l’invidia. Dal desiderio di avere deriva l’avarizia, intesa come avidità, da quello di piacere gola e lussuria, da quello di potere la superbia, talora considerata un oscuramento dell’intelletto, divenuto guida cieca. Perciò, già in Platone e poi sopratutto in Aristotele (Etica a Nicomaco) fino a San Tommaso (Il male) e a Dante (Purgatorio), forse fino alla non banale buffonata del Giusti, si distingue tra lo sdegno come tendenza, impulso naturale, e il suo uso o esercizio, che può essere in modo giusto o sbagliato, debito o indebito, buono o cattivo nei fini e nei mezzi. In questo secondo caso l’irascibilità (ira) diventa peccaminosa e viziosa, iracondia (ira mala) che, per odio, nel suo desiderio di distruzione, mira comunque a produrre danno, nutrendosi di invidia, di occhio cattivo. Le osservazioni di Aristotele sono state apprezzate dai cristiani. In fondo, che uomo sarebbe quello che non si sa sdegnare di fronte all’ingiustizia? Metterebbe a rischio la sua umanità. È significativa, anche se di sapore filosofico, l’aggiunta dell’avverbio «a vanvera» nel testo del discorso della montagna come lo leggiamo in Basilio nella sua predica Contro gli iracondi: «Chi si adira col fratello “a vanvera”, sarà sottoposto al giudizio». Altri filosofi dell’antichità, gli stoici, intendevano piuttosto estirpare, sradicare ogni ribollimento fin dai suoi primi impulsi. Sulla loro scia, Seneca e Plutarco, stoici peraltro di assai larga osservanza, nelle loro trattazioni sull’ira, si soffermano sulla fenomenologia dell’iracondo. La valutazione morale è implicita, ma immediata, come nei nostri modi di dire: sangue al cervello, fumo al naso, perdita del lume degli occhi, andare in bestia, come un cane arrabbiato, trionfo dell’irrazionalità, fino all’irreparabile, l’omicidio, fino al non ritorno, tra umani la guerra, tra cristiani lo scisma. Certo, San Basilio introduce un certo razionalismo morale nel suo testo evangelico con la limitazione imposta dall’avverbio «a vanvera». Eppure non intende affatto offrire speciosi motivi per «curare il male col male» nella vendetta, dove, paradossalmente, chi vince perde. Anzi, assumendo argomentazioni dagli antichi, propone rimedi pratici per superare l’ira: immaginarsi allo specchio in quella «breve follia», nello stesso tempo tremendi e ridicoli; tacere, il benedetto mordersi la lingua in quel momento, e, come retroterra, il ricordare esempi e coltivare pensieri di mitezza, bontà, perdono. Comunque, non intende metter su una collezione di modelli lontani o generici valori, ma indurre a lasciarsi plasmare dalla grazia di Cristo. Tanto più che Gesù indica felicità e pienezza di vita nella «mansuetudine» di «chi fa la pace», beatitudini (Mt 5,5.7.9) con cui Basilio (cap. 7), come Dante (Purgatorio), suggellano il loro trattare di ira. Ma la capacità di «sdegnarsi» a volte è sacrosanta. Poco dopo il 313 un cristiano latino, Lattanzio, scriveva un libro sull’Ira di Dio. Succo dell’opera: Iddio vivo e vero, della Bibbia, vecchio come nuovo testamento, non è un Dio «pacioccone» come quello degli antichi, degli epicurei, che se ne sta lassù, senza voler beghe dalle cose umane. Banalizzando didatticamente, un Dio contento e beato nel suo «nirvana». Facendo eco all’antico scrittore latino, con una riflessione del card. Carlo Maria Martini («L’ira di Dio e altri scritti» (1962-1994). A cura di S. Giacomini, Milano 1995) e un impegnativo libro di teologia fresco fresco (R. Miggelbrink, «L’ira di Dio. Il significato di una provocante tradizione biblica», Brescia 2005), si può dire che Dio non è insensibile al dolore di chi perde soprattutto per colpa degli uomini. Non è insensibile al grido del sangue di Abele, ma anche alle paure del fuggiasco Caino, che Dio segna perché «nessun tocchi Caino». E si potrebbe continuare con l’Esodo, con i profeti, con S. Giacomo nella sua Lettera. Ira del Dio della Bibbia che ode il grido e conosce l’ira dei poveri, si direbbe con Paolo VI a quasi quarant’anni dalla «Populorum progressio», già commentata da La Pira. Perché un rischio c’è: quello di non domandarci più il senso di quelle ire e, semmai, misurarle con le nostre rabbie. E il rischio mi pare direttamente proporzionale al tempo passato, - perso? -, davanti alla televisione, perché per sopravvivere, - ora bambini rapiti per estrarre organi; dopo, l’Isola dei famosi o il Grande Fratello, che mi tocca scrivere anche con la lettera maiuscola -, è d’obbligo la perdita della capacità psicologica di sdegnarsi. Pena l’ipocondria. O arrabbiarsi solo se l’ingiustizia la subisco io nella mia vita, cose, idee, valori. Se la subiscono altri, poco importa. A proposito, «ira di Dio» anche in Paolo, peraltro ingoiata dalla sua grazia sovrabbondante, ma perché con quell’ira è misteriosamente connessa la morte del Figlio. Forse anche nel nostro modo di dire «è costato l’ira di Dio» riecheggia la drammaticità sconcertante tra ira e misericordia nella pasqua di Cristo, per un grazie d’essere liberati dall’ira, trepidanti per non ritrovarsi tra «quelli che muoion nell’ira di Dio», in parole povere «in peccato mortale» nell’ora in cui ... «più panico o meno uccelli».
Don Carlo Nardi, docente di patrologia alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, ha scritto numerosi saggi sui Padri della Chiesa, con particolare attenzione ai rapporti tra cultura classica e cristianesimo.

GOLA: Certo, «concupiscenza», secondo la definizione scolastica di «amore disordinato delle cose sensibili», si colora di negatività, di tendenziale peccaminosità: è un qualcosa che «deriva dal peccato» almeno quello originale, «ed inclina al peccato» (Concilio di Trento). Eppure, è difficile pensare che alla madre Eva, al vedere così appetitosa quella «benedetta» mela, non fosse venuta l’acquolina in bocca. Con tutto il rispetto per i fiumi d’inchiostro, tra il teologico e il faceto, versati su quella mela, in caso contrario si dovrebbe ammettere un’umanità biologicamente diversa da quella che è. In effetti, la concupiscenza. più che un male, è «una sfida» per una vita umana, che è come dire morale (ancora il Concilio di Trento). Del resto, istinti e impulsi di per sé sono un bene. Quindi: buon appetito, direi con la sensibilità fenomenologica dell’antico Aristotele, ma anche con la signorilità del Padreterno, che, quando si tratta di banchetto da lui imbadito, non fa a miccino: «vini eccellenti, cibi succulenti» (Is 25,6), proprio quelle cose che un’antica eresia, l’encratismo, condannava senza appello - tutti assolutamente astemi e vegetariani! - eresia fondata sull’idea che la materia, nata da uno sbaglio di Dio o fatta da un dio inferiore, è male, che il corpo anche, che le sue pulsioni pure. Figuriamoci, le sostanze inebrianti! Tant’è che c’era chi diceva messa con l’acqua! I cosiddetti aquarii. Certo, la Chiesa se ne accorse e condannò. Ma, come succede, l’eresia, fatta uscire dalla porta, rientrò, come mentalità, sempre ricorrente come tendenza, dalla finestra. Sicché, per non poca ascesi, lo stomaco ci sarebbe per digiunare e per fare a gara a chi mangia di meno, alla ricerca di una «santa» anoressia. Ma oggi, per noi, che si può dire di sensato ed utile sulla gola, di umano, di cristiano? Che, - forse con l’antico Socrate -, si mangia per vivere e non si vive per mangiare. Parole sante, da sottolineare. Sennò madre natura, - notavano ancora gli antichi -, avrebbe dovuto farci la gola lunga come quella delle gru con tanto di papille gustative per un maggior godío. Il che non è poco per una morale della temperanza, nell’ambito d’una retta ragione che a una riflessione attenta non manca di dire qualcosa di sensato, che il lettore coscienzioso saprà applicare col suo cervello alle situazioni della vita. Anche a proposito di compensazioni, autoconsolazioni, autocommiserazioni, per cui ecco il cioccolatino e il pasticcino, il fiasco del vino e il bicchierino e il grondino. E, come si sa, non c’è due senza tre: e magari si restasse a tre! E con Bacco il tabacco, e d’erba in erba, e «in compagnia prese moglie un frate». Ma non voglio togliere il da fare ai figli d’Ippocrate e di Freud. Ma non è detto tutto: perché mangiare non è un puro e semplice atto biologico di sopravvivenza. È la gioia di condividere un pezzo di pane, è la tristezza del caviale da soli. Mangiare è comunione, tant’è che la Comunione, con la ci maiuscola, è mangiare, uno dei verbi più ricorrenti nella Sacra Scrittura. A proposito, perché la manna, da raccogliersi per la porzione di un giorno, se prelevata di più, bacava (Es 16,4-5.16-29)? Perché chi ne prendeva di più, è segno che non si fidava di quel Dio che insegnerà a chiedere «il pane quotidiano» (Mt 6,11) e ne pigliava al prossimo che rimaneva senza. Sicché quel ben di Dio andava a male, come «il lavoro per l’Ascensione», che «va tutto in perdizione», a quanto dicevano i nostri vecchi. Invece, lo stomaco, che, gorgogliando, reclama, fa capire quanto siamo fragili e deboli, dipendenti e bisognosi di Dio, e insegna a dirgli grazie. E poi, se «chi è a pancia piena, non pensa a chi l’ha vuota», - proverbio già in Giovanni Crisostomo (350 circa - 407) -, forse solo una pancia vuota fa capire, con Giobbe, la stoltezza umana di chi «mangia da solo il suo pane senza che ne mangi l’orfano» (Gb 31,17). A proposito di gola, digiuno, quaresima.

 
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