Creato da tommyknocker_5 il 05/04/2008
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Paris, Texas non è un film. E' un viaggio.

Post n°13 pubblicato il 14 Dicembre 2009 da tommyknocker_5

Le pellicole hanno la capacità di trasportarti dentro una storia: magari in mondi fantastici e straordinari. E' certo la magia del cinema. Ma cosa succede se il racconto è essenzialmente basato su un viaggio interiore? Un viaggio che, consapevolmente o meno, tutti noi siamo costretti a fare ad un certo punto della nostra vita?
Come tornare indietro nel tempo, ricomporre i cocci, e ripartire da un punto fermo.
"Ma non deve essere un vagare senza meta in un nowhere: è una rinascita sofferta che passa attraverso il dolore e la riconciliazione."

E' Paris, Texas:  il toponimo di un non-luogo; un no-sense cartografico. Ma solo un pretesto. Perchè il percorso vero è quello segnato nell’anima. E il deserto che attraversa è vuoto solo in apparenza. Quel silenzio che ruota intorno a quella natura secca e polverosa, stride con una inquietudine profonda che racconta una storia dolorosa, e tutta umana. E' uno spazio dove le persone vagando si tormentano in the middle of nowhere. Come fossero auto che hanno “forato” lungo il percorso della loro esistenza. "La polvere qui nel cuore del deserto del Mojave è venuta ed è intenzionata a restarci, tu invece puoi stare o andartene, fa lo stesso." Così c'è scritto sul cartello appeso nel bar all’inizio del film. E il personaggio è uno intenzionato a restarci. Perchè è un uomo che ad un certo punto del suo “viaggio” si è improvvisamente scoperto inadatto al ruolo che la vita gli stava confezionando addosso di marito e di padre. Quello che lo ha spinto ad intraprendere la più dolorosa delle fughe, è sicuramente la paura di un fallimento esistenziale. Così da fargli desiderare quel deserto, tutto quel “nulla” e quel silenzio. Ma è una fuga al contrario, è una rivolta consapevole, una volontaria separazione dalla realtà che prelude al desiderio di ristabilire una connessione profonda con il passato. Il passato è tutto racchiuso in una vecchia foto. Racconta di un luogo tutto particolare. Quello è il “suo” pezzo di terra, quello dove probabilmente i suoi genitori lo hanno concepito e quello che lui ha comprato per corrispondenza all’inizio del suo matrimonio: si trova a Paris, Texas, USA. E' come scavare in profondità nelle memorie di un passato lontano. Restaurare con pazienza i brandelli di tela che componevano il quadro del nostro “essere stati”. Un quadro importantissimo e necessario. Perchè senza quell’essere stati oggi non saremmo qui. Sottrarre alla sofferenza i nodi irrisolti, gli errori commessi ed i traumi subiti, che pesano come macigni sul nostro “essere ora”. Ricomporre il nastro interrotto del vissuto per poter “essere domani” (nella estensione-proiezione di un rapporto padre-figlio). Non ci può essere futuro senza passato, non si può avere una meta senza sapere da dove è cominciato il viaggio, non è possibile scrivere una storia che abbia un bel finale senza averne scritto un inizio (e non importa se sia bello e brutto, l’importante è che sia ben presente e chiaro a noi stessi). Travis dall’incontro col figlio ritrovato e dal ricordo dei genitori trae la forza per riallacciare i rapporti con sua moglie, donna bellissima. Il suo scopo è la ricomposizione di una frantumata unità familiare. Da questa unità, una volta raggiunta, egli si chiamerà fuori. Travis è un rabdomante nel deserto, un assetato cercatore d’acqua (sollievo, conforto, verità), un Ulisse impegnato nella sua Odissea esistenziale, e come tale destinato alla solitudine. La sua dimensione è il cammino. Un silenzioso cammino.

 
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... e sul silenzio

Post n°12 pubblicato il 11 Settembre 2009 da tommyknocker_5
 

Quando si ama davvero qualcuno, si è felici anche senza parlare.

 
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Simenon e l'amore

Post n°11 pubblicato il 11 Settembre 2009 da tommyknocker_5
 

... credo di non aver mai parlato dell'amore se non come di un incidente, una malattia. Direi anche una malattia della quale vergognarsi, che sminuisce l'uomo privandolo della sua padronanza. E' ancora quello che penso.

 
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Mulina il vento

Post n°10 pubblicato il 14 Dicembre 2008 da tommyknocker_5
 

Sai amore mio, di quei giorni di maggio, ho chiesto al vento. A questo vento che con i suoi soffi modella morbido la sabbia sulla spiaggia, qui tutt'intorno. Mentre davanti questo mare con fragore batte e  si tormenta sulla terra, intonando i suoi colori più scuri e bui a quest'aria gelida. E là in alto un sole, che imbottito e nascosto da grigie nuvole, certo si ritempra per accaldare la stagione nuova. Accanto gli alberi che si agitano fieri, si lasciano sferzare dall'intemperia di quest'inverno così cupo. Si, è proprio a questo vento che ho chiesto di ridarmi indietro le memorie. Quelle che nel tempo più felice gli ho affidato. A lui che dispettoso le scompiglia. E lontano le trascina; in alto e poi ancora più distante. E quando, ti scopre così assorto e infelice, divertito comincia a spirare sempre più veloce. Mulina nei ricordi più appartati; nell'aria li attorciglia e, lesto in un angolo, li ammonticchia. Quasi fossero coriandoli sminuzzati. Ma, sai amore mio, prova solo socchiudere per poco gli occhi. Tutto si quieta d'improvviso: all'istante riassapori sul viso il calore che arrossava le tue guance. E un azzurro cristallino si stende dal mare su nel cielo. Fino a lambire dall'altra parte le montagne. Così quei tetti sparsi delle case riprendono respiro, dal fitto verde che li cela, sotto un sole tornato ormai splendente. E tutte le parole che sono state dette, si spandono nell'aria velocemente. Sono solo lettere e suoni che danzando si stringono in un abbraccio; in quell'abbraccio. Adesso lo sai.

 
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Succo amaro

Post n°9 pubblicato il 05 Dicembre 2008 da tommyknocker_5
 

All'alba una luce radente dilata sulla pianura un chiarore tenue che, lentamente, si propaga su tutte le cose. Dalla collina su cui è raccolto il paese si scorge una sottile nebbiolina che decora dolcemente il solco dei fossi in mezzo alle campagne. Il verde fitto degli agrumeti è interrotto dal tracciato sinuoso del fiume, sottolineato dall'imponenza dei salici che crescono sulle sue rive. Il segno netto della ferrovia trancia di netto il paesaggio con una decisa linea dritta. I vecchi archi del ponte, sulla statale, non sembrano mostrare la loro età, anzi da così lontano sembrano avere un disegno modernissimo. Per arrivarci, bisogna scendere dalla via che fende la collina, e che dalla piazza del duomo porta in fondo, al piano. Proprio all'incrocio, ai bordi della strada, trovi sempre capannelli di persone, che lì aspettano. Nell'aria umida appaiono le piccole ombre di una umanità raccolta in abiti sgangherati. Attendono sparsi in silenzio e con pazienza che qualcuno li raccolga, così alla ventura; qualcuno che gli conceda un quotidiano brandello di speranza. Loro in cambio hanno da offrire le uniche risorse che possiedono: i loro corpi, le loro braccia. Sono qui a offrire sudore per il lavoro più duro. Affondano con i loro stivali nel terreno limoso, nelle campagne strappate alle paludi dalle bonifiche. Sulla terra dove in tempi lontani, altre braccia e altri uomini, imbrigliando le acque di fiumi e fiumare, hanno ordinato uno spazio amorfo e malsano. La fatica, gli stenti, il freddo, la fame sono lì, stampati nella tristezza profonda dei loro occhi scuri e dei loro visi stranieri. Irregolari: ma in cosa? In tutto questo, invece, c'è qualcosa di orribilmente regolato, di orrendamente già visto. E' così da molti secoli, da molte stagioni. Il mercato dei braccianti c'è sempre stato; la piazza dei vignaiuoli si è solamente spostata. Da luogo che aveva una sua dignità, a cui era stato dato persino un nome, vicino al centro della comunità, si è trasferito in un luogo tragicamente anonimo, del tutto indeterminato. Certo ci saranno stati motivi di opportunità a far compiere una scelta simile. Ma a nessuno sfugge che è un indizio chiaro del poco rispetto e della poca considerazione che questi tempi riservano al lavoro. E a queste persone che lavorano. Ci si può fare l'abitudine a queste presenze; con leggerezza si può persino ignorarli o considerarli come un arredo del paesaggio. Ma solamente il loro mostrarsi, così sofferto, non può assolutamente assolvere nessuna coscienza. L'essere fratelli, appartenenti ad un'unica specie, che vive sotto lo stesso cielo, dovrebbe spingerci concretamente a fare un passo in più. A muovere un pensiero che, invece, stagna come quella nebbiolina sopra i fossi. E rimane lì fermo, tra gli alberi di agrumi, e si dissolve con l'avanzare della luce del sole. E quegli sbuffi di vapore candido che vedi alzarsi dalle cime d'alluminio delle industrie, fanno veramente fatica a nascondere tutto il sudicio che alberga nelle nostra comunità.

 

 
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